Storia di Torino (vol 1)/Libro VI/Capo V
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Capo Quinto
Assedio e liberazione di Torino nel 1706.
Faticava intanto l’esercito francese a stabilire i lavori dell’assedio, nè meno operosa era la cura con cui studiavansi i Savoini di disturbarli e di contrapporre opere ad opere, cannoni a cannoni. Molte volte una piccola batteria scopertasi a tempo alla destra del Po mise il disordine in alcuna parte delle schiere francesi; molte volte in leggiere corse e fazioni i nostri condusser preda d’armi e di cavalli. Rinfranca vasi con queste prove il coraggio de’ nostri soldati. Il marchese di Caraglio, comandante generale della città, fece levare il selciato di tutte le strade; pose vedette sui campanili a dar segno se in qualche luogo si scoprisse il fuoco. Stabilì luogo a luogo grandi conserve d’acqua. Ordinò numerose squadre di guardie del fuoco onde accorrere al primo segnale. Frattanto afforza vasi la cittadella, e s’attestava sui bastioni della medesima sì folta schiera di can noni che avanzavano di numero quelli degli assedianti. N’aveva il comando il conte de la Roche d’Allery, stato governatore di Verrua.
Tra il 9 e il 10 di giugno cominciarono i Francesi a gittar bombe nella cittadella. All’indomani ne piovvero anche in città e sì pesanti che perforavano dall’alto in basso le case e le chiese, e scendevano fin ne’ sepolcri a sconvolger le ossa de’ trapassati. Tutti fuggivano dalia città vecchia nella nuova al di là di piazza Castello, fuor della portata de’ mortai nemici.
Intanto il duca, il quale coi posti e colle batterie stabilite sulla collina aveva sempre impedito ai Francesi il passo del Po, prevedendo che quella posizione non si potrebbe più a lungo difendere, e che ogni passo rimarrebbe chiuso, giudicò non essere da indugiare la partenza della corte. La mattina del 16, mentre le reali duchesse a ciò s’apparecchiavano, i Francesi con azione degna d’eterna infamia, i Francesi, tanto cavallereschi colle dame, giltarono contro il palazzo reale una fitta grandine di palle infuocate, di libbre 16 caduna, le quali guastarono bensì gli edilìzi, ma per buona sorte alle persone fecero più paura che danno.
Il duca lasciò Torino a’ 17, onde tener la campagna, ed apparecchiarle i soccorsi; e il comando della città assediata rimase al conte Daun ed al marchese di Caraglio.
I borghesi, da lungo tempo usi agli esercizi di guerra, e devoti al loro principe, montavano la guardia sui bastioni ed alle porte della città, che non furono mai chiuse.
Sapevano gli assediati che il giorno di S. Giovanni doveva aprirsi terribilmente il fuoco delle batterie nemiche. Onde in sull’aurora, quasi a sfida, il bastione del beato Amedeo (della cittadella) li salutò con quattro colpi di cannone. Risposero incontanente gli assedianti con uno sparo generale delle sei batterie che aveano apparecchiate. Le palle foravano le case della città, correvano e rimbalzavano per le strade, e alcune, attraversando tutta la città, non s’arrestavano che al di la del Po. Il che facevasi con grande uccisione, e maggior paura del popolo, ma con poco o niun danno delle opere di difesa; essendoché, delle sei batterie nemiche, una sola affrontava direttamente la cittadella, e questa fu nel giorno stesso ruinata dai nostri cannoni. E tali disposizioni, come non onoravano la perizia degli assedianti, così non ne commendavano l’umanità per l’inutile macello del popolo imbelle.
I magistrati ed il consiglio della città, lasciando le solite residenze troppo soggette all’infestamento delle artiglierie nemiche, trovavano altre sedi nella città nuova. Il senato nel palazzo Carignano. La camera erasi trasferita a Cherasco.
Non ridirò i progressi dell’assedio, le scene lagrimose e forti, con cui si segnalò l’assalto, e la difesa. Sul principio d’agosto cominciavano a scarseggiare i viveri e la polvere.
Il consiglio di città provvide, il meglio che seppe, a prevenir la fame. L’undici di quel mese si cominciò a fabbricar polvere, con ordigni di nuova invenzione, nella cavallerizza dietro la Zecca.
Verso il finir del mese, gli assedianti sempre più s’accostavano alla piazza, quando cominciò a balenare speranza di vicini soccorsi. Il principe Eugenio s’avanzava a gran giornate. E sebbene fosse disceso dall’Alpi con nuove genti il duca d’Orleans a sollecitar la resa di Torino, e a tener fronte all’esercito che s’apprestava a soccorrerla, tuttavia gli animi s’aprivano a letizia, e vieppiù s’induravano alla difesa della patria, rinfrancati, com’erano, dalla protezione celeste, continuamente invocata dal bravo Daun, dai soldati, dal popolo.
Tutti que’ valorosi, dopo d’aver orato alla Consolata, a S. Sudario, a S. Filippo, o innanzi all’altare che il beato Valfrè aveva alzato per le truppe in piazza S. Carlo, s’alzavano più valorosi e più sereni; tranquillamente apparecchiati a dar la vita per salvare la patria.
Valorosissimo tra i più valorosi, e degno d’essere paragonato co’ maggiori eroi dell’antichità, è senza dubbio Pietro Alice a di Sagliano d’Andorno. Verso la mezzanotte, cominciando il dì 30 d’agosto, molti granatieri francesi, varcato il fosso della mezzaluna di soccorso della cittadella, passano presso la controscarpa, e, pervenuti improvvisamente all’angolo sagliente, giungono alla porta della galleria per cui si scende nell’in terno della piazza. Resiste la guardia Piemontese; ma in breve, sopravvenendo nuovi aggressori, è uccisa; ed i Francesi stanno percorrere nella grande galleria ma due minatori chiudon la porta della scala che mette dalla galleria alta nella bassa. Quivi era stata preparala una mina, onde poter all’uopo ruinar la scala, e impedir il passo al nemico. Sentendo che i Francesi abbattean la porta a colpi d’accetta, Pietro Micca dice al compagno d’accender la mina; e vedendolo esitare, lo allontana col braccio, e gli dice, sorridendo: Tu sei più lungo che un giorno senza pane; fuggi e lascia fare a me. Applica la miccia alia mina, e balza in aria egli il primo, ma con lui saltano tre compagnie di granatieri francesi, ed una batteria nemica.1
Egli era ammogliato e padre, avendo dalla moglie Maria un bambino di due anni.
Con siffatti difensori la monarchia di Savoia non potea perire.
All’indomani i Francesi diedero un furioso assalto alla città, e furono sul punto d’alloggiarsi sulla breccia che aveano aperta; ma il valore degli assediati, ed una mina che scoppiò sotto ai loro piedi, li costrinse a indietreggiare.
Nella notte, dal 3 al 4 settembre, videsi sul monte di Superga un fuoco. Era un segno, che davano da quel luogo alla travagliata città Vittorio Amedeo, ed il suo valoroso cugino, il principe Eugenio, d’imminente soccorso.
La sera dello stesso giorno, tra le nove e le dieci, tentarono nuovo assalto i Francesi. Una novella mina scoppiò, e mise loro tanta paura, che non vi fu più verso di ricondurli all’assalto verso le breccie aperte e praticabili.
Intanto l’esercito dei due principi era venuto da Villastellone a Beinasco, e poi a Pianezza.
Il 7, vigilia della Natività di Maria, scende nella pianura della Madonna di Campagna, ed assale le linee nemiche. Una vittoria compiuta segnalatissima corona le armi nostre; il duca d’Orleans fugge, il maresciallo di Marsin è mortalmente ferito, sicché mancò il giorno dopo.
Dopo il mezzogiorno, la città liberata, s’apre a ricevere più di seimila prigionieri, e le spoglie opime del campo nemico. Torino, che i Francesi erano risoluti di spianare, trionfa. Vittorio Amedeo ed il principe Eugenio entrano per porta Palazzo a cavallo, e vanno alla cattedrale, dove il duca, incontrato alla porta dall’arcivescovo Vibò, nell’eccesso del sue contento lo abbraccia e lo bacia. Si canta con trasporti d’allegrezza l’inno Ambrosiano. Tutto gongola di gioia, la città è rinata.
La città di Torino, durante l’assedio, trasse seimila bombe, settantacinquemila colpi di cannone, più di settantamila colpi di petriere, senza parlar delle mine.
Segnalossi nelle opere di difesa l’ingegno mirabile dell’avvocato Antonio Bertola, che fu poi conte d’Exilles. Trecento donne vi lavorarono con gran cuore ne’ luoghi anche i più esposti all’infestamento delle palle nemiche. I poveri dello spedale della carità lavoravano nelle gallerie sotterranee, ne’ siti più pericolosi, spendendo volonterosi una vita sostenuta dalla pietà de’ loro concittadini. Infine tutti gli ordini della città mostrarono un coraggio ed un amor di patria proporzionati alla grandezza del pericolo.
Il bel tempio di Superga sorse, come memoria della gratitudine di Vittorio Amedeo ii, alla protezione celeste che avea assicurato il trionfo dell’armi sue.
A’ 2 d’ottobre rientrarono le reali duchesse. La regnante privatamente. La duchessa madre con gran pompa per porta Nuova ad un’ora di notte.
A’ 24 di dicembre spiegaronsi in S. Giovanni cinquantacinque stendardi tolti ai Francesi nella bat taglia di Torino; trenta di fanteria, venticinque di cavalleria.