Storia di Torino (vol 1)/Libro III/Capo V

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Capo Quinto


La città di Torino signora di Grugliasco, Collegno e Beinasco. — Patti con cui i signori di Beinasco le rendono omaggio. — Sette. — Cacciata dei Ghibellini. — Scomunica e deposizione di Federigo ii. — Giovanni Arborio eletto vescovo di Torino dal legato pontificio. — Il Capitolo torinese non vuol riconoscerlo. — Tommaso ii di Sa­voia torna di Fiandra in Piemonte. — Magnifici doni, con cui ne compra la divozione Federigo ii.


Nel 1237 avea l’imperador Federigo fatti grandi progressi in Lombardia, e vinto a Corte Nuova l’e­sercito de’ Milanesi, Alessandrini, Vercellesi, Nova­resi ed altri loro cóllegati. L’anno seguente rice­vette a Pavia l’obbedienza de’ Vercellesi, e venuto nel mese di febbraio nella loro città, si volse a sua divozione tutto il paese fra il Ticino e l’Alpi, e così pure la città di Torino.

Deputò Federigo a governarla Filippo de Citro, contestabile di Capua, che pigliò il titolo di capi­tano di Torino e di Moncalieri.1 Gli succedette in [p. 231 modifica]tal carico, ma con poter di legato imperiale, Gionata de Luco.

E proprio de’ popoli come degli individui il cer­care prima libertà, poi dominio. I Torinesi aveano già acquistato la signoria di Collegno e di Grugliasco, non si sa bene in qual modo, nè quando. Nel 1239, essendo capitano Gionata de Luco, un dei Piossaschi venne a rendersi loro vassallo, sicché eb­bero a loro divozione il castello di Beinasco sulle rive del Sangone. Federigo di Piossasco, a nome anche degli altri consorti, fe’ omaggio di quel ca­stello alla città di Torino, promise di farne pace e guerra contra tutti; e, se così piacesse ai Torinesi, di depositarlo nelle mani di due fidi custodi fino alla pace; di non ricevere in abitator di Beinasco alcun uomo di Collegno, Grugliasco e Torino; di mantener la strada, e di vietarla ai mercatanti che vi volessero passare per cansare la dogana di Torino; di dar ricovero in tempo di guerra ai Torinesi, e di non levar su quelli per merci o bestie pedaggio nè tolta. Promisero infine di non ascriversi a niuna delle sette di Torino, ma di voler sempre appar­tenere al comune.2

Quest’ultima condizione prova che la città di Torino come le altre era già straziata dal furor delle parti; cominciate prima, come sempre accadde, tra gli alberghi de’ nobili e il popolo, travestite poi co’ vocaboli di Ghibellini e Guelfi, nomi che servivano [p. 232 modifica]a dissimulare ]’odio è la sete di vendetta, l’amor del comando e del danaro, piucchè l’affetto a questo od a quello stendardo. Quando le cose camminavan bene, che il podestà era forte, il comune componevasi d’uomini moderati, che non seguitavano nissuna parte, o che almeno agli interessi di parte preponeano l’utile della patria e l’onesto. Allora tra le due fazioni sorgeva potente e rispettato il comune, e nelle nuove aggregazioni di cittadini o di vassalli si facea loro divieto d’entrar nelle società che laceravano la patria. Ma quando una di queste fazioni sormontava l’altra, allora invadeva il consolato e i consigli e gli uffici tutti della repubblica, ed era gran ventura quando non procedeva più aspramente a taglieggiare, a bandire, a spogliare i principali della parte contraria, come accadde intorno al 1247 in questa stessa città di Torino, quando, prevalendo i Guelfi, dovettero i Ghibellini cercare scampo lungi dalle patrie mura.

Frattanto cresciute pe’ mali portamenti di Fede­rigo ii e fattesi ognor più velenose le discordie tra questo principe e papa Gregorio ix, questi si risol­vette di procedere rigorosamente, e però scomunicò l’imperatore e lo depose nell’anno medesimo 1239. Due anni dopo venne a morte; mancò pure di vita, diciotto giorni dappoiché fu eletto, Celestino iv; il sacro collegio raunatosi in Anagni, per essere Roma poco sicura, penò quasi due anni ad accordarsi in [p. 233 modifica]nuova elezione: del quale danno e scandalo della cristianità, secondo gli umori, chi incolpava Fede­rigo ii, e chi le dissensioni insorte tra i cardinali. Forse l’una e l’altra causa fu vera. Finalmente riu­scì l’elezione in Sinibaldo Fieschi de’ conti di La­vagna, che si chiamò Innocenzo iv. Questi ebbe voce di fautore di Federigo finche fu cardinale e gli recò i più fieri colpi poiché fu papa, e lo trovò perseve­rante nell’antico sistema di dar buone parole e tristi fatti. Recatosi a questo fine a Lione, vi radunò un concilio generale, nel quale la scomunica e la depo­sizione di Federigo furono approvate e confermate.

A quale delle due parti aderisse allora la città di Torino, non è ben chiaro. Certo è che il papa ebbe pel Piemonte e per la Savoia sicuro ed ono­rato passaggio (1244); e che venendovi poco dopo Enzio re di Sardegna, figliuol naturale dell’impera­tore, non vi trovò resistenza, come non la trovò lo stesso imperatore quando nel 1247, dando voce di recarsi al concilio di Lione per discolparsi, giunse fino a Torino, donde frettoloso retrocedette, avuto l’avviso della ribellione di Parma. Trovò bensì op­posizione nel clero e nel capitolo torinese un atto d’autorità di Gregorio da Montelongo, famoso legato pontificio nell’alta Italia, ed energico summovitore ed amplificatore della lega Lombarda. Era morto nel 1243 Uguccione Gagnola vescovo di Torino. L’elezione del successore apparteneva per antica consuetudine [p. 234 modifica]al capitolo: forse il capitolo era, come il resto della città, diviso in due sette; epperciò l’elezione fu lungo tempo dibattuta e contrastata. Infine riuscì, ma la persona dell’eletto non fu gradita al papa, il quale commise al suo legato di procedere egli stesso all’elezione d’un vescovo. Gregorio da Montelongo nominò a tale dignità Giovanni Arborio, abate di S. Gennaro. Il papa informato di questa elezione a S. Mi­chele di Moriana, ove era pervenuto in sul recarsi a Lione, la confermò e ordinò al clero torinese di ac­cettar l’eletto e d’obbedirgli. Ma il capitolo alte­rato per le violate sue ragioni di nomina, ricusò di obbedire. Rescrisse il pontefice, ammonì, esortò. Il capitolo fu duro. Alla perfine il papa usò rimedii rigorosi, e di sua commissione Artaldo, preposto di Biella, addì 18 di gennaio del 1245, nella chiesa di S. Salvatore di Pianezza, pronunciò colle funebri so­lennità consuete sentenza di scomunica contro al­l’arcidiacono, al preposto ed ai canonici di Torino. Nuove e più severe censure pronunciò poco dopo contro di loro il preposto di Vezzolano. Finalmente rinsavirono, e si persuasero che il richiamare a sè l’elezione di un ufficio di suprema importanza, quando lo spirito di parte malamente ed apertamente, per indubitati segni, imperversando falsa il criterio dell’elezione, è debito d’ogni sovrano e spirituale e temporale. Tuttavia è da notarsi che Giovanni Arborio non fu mai consegrato. [p. 235 modifica]

Tempi eran quelli di molta confusione e di mag­gior tristizia, ne’ quali i laici non rispettavano le libertà ecclesiastiche, e gli ecclesiastici usavano per difenderle anche i mezzi che più disdiceano al mite e sacro carattere sacerdotale. Giovanni Arborio com­battendo tra le schiere della lega Lombarda contra gli Imperiali, in un fatto d’arme seguito nel terri­torio di Parma addi 2 d’agosto del 1247, fu preso dagli uomini di Casale e di Pavia, e tre anni fu sostenuto prigione, finché, co’ danari avuti a prestanza da Tommaso ii di Savoia, potè ricomperarsi e tor­nare alla sua chiesa.

Questo principe erasi allontanato dal Piemonte nel 1239, avendo sposato, a mediazione di S. Luigi re di Francia suo nipote, Giovanna, erede dei con­tadi di Fiandra e d’Hainaut. Quattr’anni regnò in quelle contrade in compagnia della moglie, la quale allora dando al marito balìa di sè, gli attribuiva insieme quella dello Stato; e molte forti e memo­rande opere fece, segnalandosi massime nel dare e nell’ampliare in favor de’ comuni le carte di li­bertà, che colà chiamano Keure. Nel 1244 gli mancò la moglie, e non avendo lasciato prole, ei perdette ad un tempo quello Stato che per giustizia appar­teneva alla sorella di lei; onde Tommaso tornò in Piemonte, e si studiò d’acquistarvi dominio. Propizii erano i tempi, come son sempre per gli animosi ed intraprendenti quelli in cui v’ è partimento di sette. [p. 236 modifica]Il vescovo di Torino, grande ostacolo all’ingrandi­mento de’ principi di Savoia, lontano e fra i ceppi; l’imperatore bisognoso d’aiuti, e soprattutto d’un capo di gran nome e di provata bontà, che sapesse e potesse confermar nella fede i suoi devoti, man­tenervi i tentennanti. Tommaso era appunto il fatto suo; ei d’una stirpe già da gran tempo famosa, stretto congiunto dei re di Francia e d’Inghilterra, provato in arme.

Amedeo iv, fratello di lui, ben si mostrava amico a Cesare; ma non volea scoprirsi neppure nemico del papa, e più veramente cercava d’esser amico di tutti e due, volteggiando con maravigliosa de­strezza, sebbene alla fine, massime dopo l’acquisto di Rivoli (1247), anch’egli s’intignesse, sia per mag­gior debito di gratitudine a Cesare, sia perchè è mal gioco e da non durare il tener il piè in due staffe. Federigo sperava in Tommaso un fautore più risoluto. Epperciò con quell’arte d’inescare e di corrompere con preghi, con lusinghe e con doni, che sapea mirabilmente, finì per trar dalla sua Tom­maso, il quale, quand’era conte di Fiandra, orasi mostrato parziale, del papa, e che tornando in Pie­monte era dal papa stato con calde lettere racco­mandato ed a Gregorio da Montelongo e ad altri capi della lega Lombarda.

Ai dominii che fin dal 1235 possedeva in Piemonte, avea Tommaso aggiunto per cessione d’Amedeo iv [p. 237 modifica]suo fratello e per propria industria i feudi de’ signori di Piossasco, la valle del Chisone, ed in breve tutto ciò che possedeva il conte di Savoia al di là del Sangone. Di ben maggior riguardo fu il dono con cui comprò Federigo la sua aderenza. Imperocché gli concedette la città di Torino col ponte del Po, e colla bastita o castelletto che sorgeva sul monte, ora chiamato dei Cappuccini; Cavoretto, Moncalieri col ponte e colle torri, Castelvecchio e Montosolo, e così una linea militare alla destra del Po, e il comando delle due strade per cui si faceva il principal traf­fico d’Asti e di’ Genova con oltremonti; ancora i castelli di Collegno e di Lanzo, cedendo di quest’ultimo il possesso e l’alto dominio, con promessa d’acquistarne la proprietà dalla consorteria di no­bili che lo tenea. Finalmente a questi doni aggiunse la cessione d’Ivrea e del Canavese. Ma si pattuì: Di tutte queste terre avrebbe Tommaso i proventi, non il possesso. Jacopo del Carretto, genero dell’imperatore, le terrebbe in deposito per dismetterle immediatamente al principe di Savoia, se pace se­guiva tra l’imperadore ed il papa; dismettere dopo tre anni Ivrea, il Canavese e Lanzo; dopo cinque anni il rimanente, quand’anche la pace non si fa­cesse.

Il vero fu che di questa liberalità imperiale Tom­maso ii, fatto vicario di Cesare dal Lambro in su, non gustò altro che il fumo. Torino si tenea pei [p. 238 modifica]Guelfi e non si potè avere. Moncalieri non si lasciò pigliare. Ivrea e il Canavese rimasero nella condi­zione di prima. Lanzo ei già lo possedeva fin dal 1245, quando il re Enzio che se l’era fatto con­segnare dai vassalli del vescovo, gliel diede a custo­dire. Solo ebbe Montosolo e Castelvecchio, non in vigor del dono ma per forza d’armi. Profittando della prigionia del vescovo, i Cheriesi aveano assalito e mezzo rovinato il castello di Montosolo. Tommaso li respinse e con molta spesa lo riedificò. Dopo di essersi poscia insignorito di Castelvecchio, la diffalta di danari lo costrinse ad impegnarlo agli Astigiani.


Note

  1. [p. 247 modifica]Atto del 6 luglio 1238. Badia di S. Solutore. Arch. del R. economato generale.
  2. [p. 247 modifica]Addì 22 di giugno. Chartar. i, 1340.