Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/VIII. Il Canzoniere

VIII. Il Canzoniere

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VIII


[Impressione prodotta dal poema di Dante — La nuova generazione: lo studio dei classici e il gusto della forma — Francesco Petrarca — Aurora del Rinascimento — La coscienza romana: la canzone all’Italia — La latinitá e l’Africa — Esterioritá fittizia e interioritá reale del Petrarca — Parziale progresso sul mondo dantesco: la rappresentazione della donna e dell’amore — Contrasto tra teoria e sentimento — La bellezza: Laura come dea — La morte e l’umanarsi di Laura — Le rime in vita di Laura: parti convenzionali e concettose, e parti vive e poetiche — Contraddizioni, fluttuazioni e fantasticherie — Mancanza di profonda e virile coscienza dei contrasti — Compiacenza d’artista — La bella forma e la malinconia — Divario della malinconia petrarchesca da quella del medio evo e di Dante — Laura morta e la calma elegiaca — Il Petrarca tra il vecchio e il nuovo: la malattia del Petrarca.]

Dante mori nel 1321. La sua Commedia riempe di sé tutto il secolo. I contemporanei la chiamarono «divina», quasi la parola sacra, il libro dell’altra vita o, come diceano, il «libro dell’anima». Un tale Trombetta, quattrocentista, la mette fra le opere sacre e i libri dell’anima «da studiarsi in quaresima», come le Vite de’ santi padri, la Vita di san Girolamo. Il popolo cantava i suoi versi anche in contado, e pigliava alla semplice la sua fantasia. I dotti ammiravano la scienza sotto il velo delle favole, quantunque alcuni austeri, come Cecco d’Ascoli, quel velo non ce l’avrebbero voluto. E Fazio degli Uberti credè di far cosa piú degna rimovendo ogni velo ed esponendoci arida scienza nel suo Dittamondo, «dicta mundi».

L’impressione non fu puramente letteraria. Ammiravano la forma squisita, ma tenevano il libro piú che poesia. Vedevano [p. 246 modifica]lá entro il libro della vita o della veritá, e ben presto fu spiegato e comentato come la Bibbia e come Aristotile, accolto con la stessa serietá con la quale era stato concepito.

Oscurissimo in molti particolari, e per le allusioni politiche e storiche e pel senso allegorico, il libro nel suo insieme è cosí chiaro e semplice che si abbraccia tutto di un solo sguardo. La scienza della vita o della creazione è còlta ne’ suoi tratti essenziali e rappresentata con perfetta chiarezza e coesione. L’armonia intellettuale diviene cosa viva nell’architettura, cosí coerente e significativa nelle grandi linee, cosí accurata ne’ minimi particolari. L’immaginazione anche piú pigra concepisce di un tratto inferno, purgatorio e paradiso. Il pensiero nuovo, mistico e spiritualista, lunga elaborazione dei secoli, compariva qui perfettamente armonizzato e pieno di vita. In questo mondo intellettuale e dommatico, cosí ben rispondente alla coscienza universale, si sviluppava la storia o il mistero dell’anima nella piú grande varietá delle forme, sí che vi si rifletteva tutta la vita morale nel suo senso piú serio e piú elevato. Il sentimento della famiglia, la viva impressione della natura, l’amor della patria, un certo senso d’ordine, di unitá, di pace interiore, che fa contrasto al disordine e alla licenza di quei costumi pubblici e privati, la virtú dell’indignazione, il disprezzo di ogni viltá e volgaritá, la virilitá e la fierezza della tempra, l’aspirazione ad un ordine di cose ideale e superiore, il vivere in ispirito e in contemplazione come staccato dalla terra, il sentimento della giustizia e del dovere, la professione della veritá, piaccia o non piaccia, con l’occhio vòlto a’ posteri, e quella fede congiunta con tanto amore, quell’accento di convinzione, quella coscienza che ha il poeta della sua personalitá, della sua grandezza e della sua missione; tutto questo appartiene a ciò che di piú nobile ed elevato è nella natura umana. Anche quel non so che scabro e rozzo e quasi selvaggio, ch’è nella superficie, rendeva l’immagine di quella eroica e ancor barbara giovinezza del mondo moderno.

Ma l’impressione prodotta dalla Commedia rimaneva circoscritta nell’Italia centrale. La scuola del «nuovo stile» non avea [p. 247 modifica]fatto ancora sentire la sua azione nelle rimanenti parti d’Italia, dove la lingua dominante era sempre il latino scolastico ed ecclesiastico. Malgrado l’esempio di Dante, non era ancora stabilito che in rima si potesse scrivere d’altro che di cose d’amore. E in questa sentenza era anche Cino da Pistoia, solo superstite di quella scuola immortale dalla quale era uscita la Commedia. Compariva sulla scena la nuova generazione.

Lo studio de’ classici, la scoperta di nuovi capilavori, una maggior pulitezza nella superficie della vita, la fine delle lotte politiche col trionfo de’ guelfi, la maggior diffusione della coltura, sono i tratti caratteristici di questa nuova situazione. La situazione si fa piú levigata, il gusto piú corretto, sorge la coscienza puramente letteraria, il culto della forma per se stessa. Gli scrittori non pensarono piú a render le loro idee in quella forma piú viva e rapida che si offrisse loro innanzi; ma cercarono la bellezza e l’eleganza della forma. Dimesticatisi con Livio, Cicerone, Virgilio, parve loro barbaro il latino di Dante; ebbero in dispregio quei trattati e quelle storie che erano state rammirazione della forte generazione scomparsa, e non poterono tollerare il latino degli scolastici e della Bibbia. Intenti piú alla forma che al contenuto, poco loro importava la materia, purché lo stile ritraesse della classica eleganza. Cosí sorsero i primi puristi e letterati in Italia, e capi furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.

Nel Petrarca si manifesta energicamente questo carattere della nuova generazione. Fece lunghi e faticosi viaggi per iscoprire le opere di Varrone, le storie di Plinio, la seconda deca di Livio; trovò le epistole di Cicerone e due sue orazioni. Dobbiamo a’ suoi conforti e alla sua liberalitá la prima versione di Omero e di parecchi scritti di Platone. Scopritore instancabile di codici, emendava, postillava, copiava: copiò tutto Terenzio. In questa intima familiaritá co’ piú grandi scrittori dell’antichitá greco-latina, tutto quel tempo di poi, che fu detto «il medio evo», gli apparve una lunga barbarie; di Dante stesso ebbe assai poca stima; gli stranieri chiamava «barbari»; gl’italiani chiamava «latin sangue gentile»; voleva una ristaurazione [p. 248 modifica]dell’antichitá, e che non fosse ancora fattibile, ne accagiona la corruttela de’ costumi. Era Petracco e si fece chiamare Petrarca: sbattezzò i suoi amici e li chiamò Socrati e Leli, ed essi sbattezzarono lui e lo chiamarono Cicerone. Conchiuse la sua vita scrivendo epistole a Cicerone, a Seneca, a Quintiliano, a Tito Livio, ad Orazio, a Virgilio, ad Omero, co’ quali viveva in ispirito; e poco innanzi di morire scrisse una lettera alla posteritá, alla quale raccomanda la sua memoria.

Cosí appariva l’aurora del Rinnovamento. L’Italia volgeva le spalle al medio evo, e dopo tante vicissitudini ritrovava se stessa e si affermava popolo romano e latino. Questo proclamava Cola da Rienzo dall’alto del Campidoglio. Guelfi e ghibellini divennero nomi vieti; gli scolastici cessero il campo agli eruditi e a’ letterati; la teologia fu segregata dagli studi di coltura generale e divenne scienza de’ chierici; la filosofia conquistò il primato in tutto lo scibile; le allegorie, le visioni, le estasi, le leggende, i miti, i misteri, separati dal tronco in cui vivevano, divennero forme puramente letterarie e d’imitazione; tutto quel mondo teologico, mistico nel concetto, scolastico e allegorico nelle forme, fu tenuto barbarie da uomini che erano giá in grado di gustare Virgilio e Omero.

Questa nuova Italia, che ripiglia le sue tradizioni e si sente romana e latina e si pone nella sua personalitá di rincontro agli altri popoli, tutti stranieri e barbari, ispira al giovine Petrarca la sua prima canzone. Qui non ci è piú il guelfo o il ghibellino, non il romano o il fiorentino: ci è l’Italia che si sente ancora regina delle nazioni; ci è l’italiano che parla con l’orgoglio di una razza superiore, e ricorda Mario come se fosse vivuto l’altro ieri e quella storia fosse la sua storia; ci è la viva impressione di quel mondo classico sul giovine poeta, che ivi trova i suoi antenati e cerca di nuovo quell’Italia potente e gloriosa, l’Italia di Mario. L’orgoglio nazionale e l’odio de’ barbari è il motivo della canzone, lo spirito che vi alita per entro. Vi compariscono giá tutte le qualitá di un grande artista. La chiarezza e lo splendore dello stile, la fusione delle tinte, l’arte de’ chiaroscuri, la perfetta levigatezza e armonia della dizione, la sobrietá nel [p. 249 modifica]ragionamento, la misura ne’ sentimenti, un dolce calore che penetra dappertutto senza turbare l’equilibrio e la serenitá e l’eleganza della forma, fanno di questa canzone uno de’ lavori piú finiti dell’arte. L’Italia ha avuto il suo poeta; ora ha il suo artista.

In questa risurrezione dell’antica Italia è naturale che la lingua latina fosse stimata non solo lingua de’ dotti ma lingua nazionale, e che la storia di Roma dovesse sembrare agl’italiani la loro propria storia. Da queste opinioni uscí l’Africa, che al Petrarca dovè parere la vera Eneide, la grande epopea nazionale, rappresentata in quella lotta ultima, nella quale Roma, vincendo Cartagine, si apriva la via alla dominazione universale. Questo poema rispondeva cosí bene alla coscienza pubblica, che Petrarca fu incoronato principe de’ poeti ed ebbe tal grido e tali onori che nessun uomo ha avuto mai. Nuovo Virgilio, volle emulare anche a Cicerone, accettando volentieri legazioni che gli dessero occasione di recitare pubbliche orazioni. Scrisse egloghe, trattati, dialoghi, epistole, sempre in latino: lavori molto apprezzati da’ contemporanei, ma tosto dimenticati, quando, cresciuta la coltura e raffinato il gusto, parve il suo latino cosí barbaro come barbaro era parso a lui il latino di Dante e de’ Mussati, de’ Lovati e de’ Bonati, tenuti a’ tempi loro quasi redivivi Orazi e Virgili.

Ma la lingua latina potea cosí poco rivivere come l’Italia latina. Il latino scolastico avea pure alcuna vita, perché lo scrittore sforzava la lingua e l’ammodernava e ci mettea se stesso. Ma il latino classico non potea produrre che un puro lavoro d’imitazione. Lo scrittore, pieno di riverenza verso l’alto modello, non pensa ad appropriarselo e trasformarlo, ma ad avvicinarvisi possibilmente. Tutta la sua attivitá è vòlta alla frase classica, che gli sta innanzi nella sua generalitá, spoglia di tutte le idee accessorie che suscitava ne’ contemporanei, e dove è il piú fino e il piú intimo dello stile. Perciò schiva il particolare e il proprio; corre volontieri appresso le perifrasi e le circonlocuzioni; è arido nelle immagini, povero di colori, scarso di movimenti interni, e dice non quanto o come gli sgorga dal di [p. 250 modifica]dentro, ma ciò che può rendersi in quella forma e secondo quel modello: diletti visibili nell’Africa. Cosí si formò una coscienza puramente letteraria, lo studio della forma in se stessa con tutti gli artifici e i lenocini della rettoríca; ciò che fu detto «eleganza», «forma scelta e nobile»: maniera di scrivere artificiosa, che pare anche nelle sue canzoni politiche, come quella a Cola da Rienzo; opera piú di letterato che di poeta, e perciò pregiata molto finché in Italia durò questa coscienza artificiale.

In veritá il Petrarca era tutt’altro che romano o latino, come pur voleva parere: poté latinizzare il suo nome, ma non la sua anima. Lo scrittore latino è tutto al di fuori, ne’ fatti e nelle cose, è tutto vita attiva e virile; diresti non abbia il tempo di piegarsi in sé e interrogarsi. Al Petrarca sta male l’abito di Cicerone; anche i contemporanei, a sentirlo, battevano le mani e ridevano. Non sentivano l’uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano. L’uomo c’era, ma piú simile all’anacoreta e al santo che a Livio e a Cicerone, piú inclinato alle fantasie e alle estasi che all’azione. Natura contemplativa e solitaria, la vita esterna fu a lui non occupazione, ma diversione; la sua vera vita fu tutta al di dentro di sé: il solitario di Valchiusa fu il poeta di se stesso. Dante alzò Beatrice nell’universo, del quale si fece la coscienza e la voce: egli calò tutto l’universo in Laura, e fece di lei e di sé il suo mondo. Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria.

Pare un regresso: pure è un progresso. Questo mondo è piú piccolo, è appena un frammento della vasta sintesi dantesca; ma è un frammento divenuto una compiuta e ricca totalitá, un mondo pieno, concreto, sviluppato, analizzato, ricerco ne’ piú intimi recessi. Beatrice, sviluppata dal simbolo e dalla scolastica, qui è Laura nella sua chiarezza e personalitá di donna; l’amore, scioltosi dalle universe cose entro le quali giaceva inviluppato, qui non è concetto né simbolo, ma sentimento; e l’amante, che occupa sempre la scena, ti dá la storia della sua anima, instancabile esploratore di se stesso. In questo lavoro analitico-psicologico la realtá pare sull’orizzonte chiara e schietta, sgombra di tutte le nebbie tra le quali era stata ravvolta. Usciamo infine da’ miti, da’ simboli, dalle astrattezze teologiche e [p. 251 modifica]scolastiche, e siamo in piena luce nel tempio dell’umana coscienza. Nessuna cosa oramai si pone di mezzo tra l’uomo e noi. La sfinge è scoperta: l’uomo è trovato.

Gli è vero che la teoria rimane la stessa. La donna è «scala al Fattore», l’amore è il «principio delle universe cose». Ma tutto questo è accessorio, è il convenuto: la sostanza del libro è la vicenda assidua de’ fenomeni piú delicati del cuore umano. Cresciuto in Avignone fra le tradizioni provenzali e le corti d’amore, quando Francesco da Barberino avea giá pubblicato i Documenti d’amore e i Reggimenti delle donne, raccolta di tutte le leggi e costumanze galanti, egli attinge nello stesso arsenale e spaccia la stessa rettorica: allegorie, concetti, sottigliezze, spiritose galanterie. Soprattutto tiene molto a questo: che tutto il mondo sappia non essere, il suo, amore sensuale, ma amicizia spirituale, fonte di virtú. Dante chiama «infamia» l’accusa di avere espresso il suo amore troppo sensualmente; e a cessare da sé l’infamia, trasformò Beatrice nella filosofia e scrisse canzoni filosofiche. Ma le continue proteste e dichiarazioni del Petrarca non convincono nessuno; perché è il corpo di Laura, non come la bella faccia della sapienza ma come corpo, che gli scalda l’immaginazione. Laura è modesta, casta, gentile, ornata di ogni virtú; ma sono qualitá astratte: non è qui la sua poesia. Ciò che move l’amante e ispira il poeta, è Laura da’ capei biondi, dal collo di latte, dalle guance infocate, da’ sereni occhi, dal dolce viso; la quale egli situa e atteggia in mille maniere e ne cava sempre un nuovo ritratto, che spicca in mezzo ad un bel paesaggio, il verde del campo, la pioggia de’ fiori, l’acqua che mormora, fatta la natura eco di Laura.

Questo sentimento delle belle forme, della bella donna e della bella natura, puro di ogni turbamento, è la musa del Petrarca. Diresti Laura un modello, del quale il pittore sia innamorato, non come uomo ma come pittore, intento meno a possederlo che a rappresentarlo. E Laura è poco piú che un modello: una bella forma serena, posta li per essere contemplata e dipinta; creatura pittorica, non interamente poetica: non è la tale donna nel tale e tale stato dell’animo, ma è la Donna, [p. 252 modifica]non velo o simbolo di qualcos’altro, ma la Donna come bella. Non ci è ancora l’individuo: ci è il genere. In quella quietudine dell’aspetto, in quella serenitá della forma ci è l’ideale femminile ancora divino, sopra le passioni, fuori degli avvenimenti, non tócco da miseria terrena, che il poeta crederebbe profanare calandolo in terra e facendolo creatura umana. La chiama una «dea»; ed è una dea, non è ancor donna. Sta ancora sul piedistallo di statua; non è scesa in mezzo agli uomini, non si è umanata. Coloro i quali vogliono leggere nell’anima di questo essere muto e senza espansione, e cercarvi il suo segreto, fanno il contrario di quello che volle il poeta: cercano la donna dov’egli vedeva la dea. Certo, a’ nostri occhi Laura dee parere una forma monotona e anche talora insipida; ma chi si mette in quei tempi mitici e allegorici, troverá in Laura la creatura piú reale che il medio evo poteva produrre.

La vita di Laura diviene umana appunto allora che è morta ed è fatta creatura celeste. Qui l’amore non può aver niente piú di sensuale: è l’amore di una morta, viva in cielo, e può liberamente spandersi. Non vedi piú i «capei d’oro» e le «rosee dita» e il «bel piede», dal quale «l’erbetta verde» e «i fiori di color mille» desiderano d’esser tócchi. Pure questa Laura non dipinta è piú bella, e soprattutto piú viva, perché «meno altera», meno dea e piú donna, quando apparisce all’amante, e siede sulla sponda del suo letto, e gli asciuga gli occhi con quella mano tanto desiata; e salendo al cielo fra gli angioli, si volge indietro come aspetti qualcuno; e nella suprema beatitudine desidera il bel corpo e l’amante, ed entra con lui in dolci colloqui. Cosí il mistero di Laura si scioglie nell’altro mondo, com’è nella Commedia: tutte le contraddizioni finiscono. Sciolta dalle condizioni del reale, tolta di mezzo la carne, divenuta creatura libera dell’immaginazione, Laura par fuori con chiarezza, acquista un carattere, dove ci è la santa e ci è soprattutto la donna. Esseri taciturni e indefiniti mentre vivono, Beatrice e Laura cominciano a vivere appunto quando muoiono.

E il mistero si scioglie anche nel Petrarca. In vita di Laura, sorge l’opposizione tra il senso e la ragione, tra la carne e lo [p. 253 modifica]spirito. Questo concetto fondamentale del medio evo, se nel Petrarca è purificato della sua forma simbolica e scolastica, rimane pur sempre il suo «credo» cristiano e filosofico. L’opposizione era sciolta teoricamente con l’amicizia platonica o spirituale, legame d’anime puro di ogni concupiscenza; dalla quale astrazione non potea uscire che una lirica dottrinale e sbiadita, senza sangue, dove non trovi né l’amante né l’amata né l’amore. Vi sono momenti nella vita del Petrarca abbastanza tranquilli e prosaici, perché egli si possa dare a questo spasso. Allora riproduce la scuola de’ trovatori con tutt’i suoi difetti, in una forma eletta e vezzosa che li pallia. E vi trovi il convenzionale, il manierato, le regole e le sottigliezze del codice d’amore, soprattutto il concettoso, dotato com’era di uno spirito acuto. Non coglie se stesso nel momento dell’impressione; l’impressione è passata, e se la mette dinanzi e la spiega come critico o filosofo: hai un di lá dell’impressione, l’impressione generalizzata e spiegata, come è nella piú parte de’ suoi sonetti in vita di Laura; antitesi, freddure, sottigliezze, ragionamenti in forma pretensiosa e civettuola. Allora tutto è chiaro, tutto è spiegato con Platone e col codice d’amore; hai il solito contenuto lirico allora in voga sulla donna, sull’amore, pomposamente abbigliato. Trovi un maraviglioso artefice di verso, un ingegno colto, ornato, acuto, elegante: non trovi ancora il poeta e non l’artista. Ma nel momento delle impressioni, tra le sue irrequietezze e agitazioni, circuito di fantasmi, par fuori la sua personalitá: trovi il poeta e l’artista. Quello che sente è in opposizione con quello che crede. Crede che la carne è peccato, che il suo amore è spirituale, che Laura gli mostra la via «che al ciel conduce», che il corpo è un velo dello spirito. E se in questo «credo» trovasse ogni suo appagamento, avremmo Dante e Beatrice. Ma non vi si appaga: l’educazione classica e l’istinto dell’artista si ribella contro queste astrazioni di uno spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno spirito nuovo, il senso del reale e del concreto, cosí sviluppato ne’ pagani. Non vi si appaga l’artista, e non vi si appaga l’uomo, perché si sente inquieto, non ben sicuro di quello che crede e vuol far credere, e sente il morso [p. 254 modifica]del senso e tutte le ansietá di un amore di donna. Scoppia fuori la contraddizione o il mistero. Il suo amore non è cosí possente che lo metta in istato di ribellione verso le sue credenze, né la sua fede è cosí possente che uccida la sensualitá del suo amore. Nasce un fluttuar continuo di riflessioni contraddittorie, un sí ed un no, un voglio e non voglio:

ch’i’ medesmo non so quel che io mi voglio.

Nasce il mistero dell’amore, che ti offre le piú diverse apparenze, senza che il poeta giunga ad averne chiara coscienza:

     Se amor non è, che dunque è quel ch’i’ sento?
ma s’egli è amor, per Dio, che cosa e quale?

Manca al Petrarca la forza di sciogliersi da questa contraddizione, e piú vi si dimena, piú vi s’impiglia. Il canzoniere in vita di Laura è la storia delle sue contraddizioni. Ora gli pare che contraddizione non ci sia, e unisce in pace provvisoria cielo e terra, ragione e senso, gli occhi che mostrano la via del cielo e gli occhi alfin dolci tremanti,

ultima speme de’ cortesi amanti.

Sono i suoi momenti di sanitá e di forza, di entusiasmo piú artistico che amoroso, dal quale escono le vivaci descrizioni del bel corpo e le tre «canzoni sorelle». Ora si sente inquieto, e si lascia ir dietro alla corrente delle impressioni e delle immagini, e vede il meglio e al peggio s’appiglia, come conchiude nella canzone:

I’ vo pensando, e nel pensier m’assale,

dove è rappresentata la lotta interna tra la ragione e il senso, la ragione che parla e il senso che morde. E ci son pure momenti che la ragione piglia il di sopra, e si volge a Dio, e si confessa, e fa proposito di svellere dal suo cuore il «falso dolce fuggitivo»,

che ’l mondo traditor può dare altrui.

Non c’è dunque nel Canzoniere una storia, un andar graduato da un punto all’altro; ma è un vagar continuo tra le piú [p. 255 modifica]contrarie impressioni, secondo le occasioni o lo stato dell’animo in questo o quel momento della vita. Non ci è storia, perché nell’anima non ci è una forte volontá né uno scopo ben chiaro; perciò è tutta in balía d’impressioni momentanee, tirata in opposte direzioni. Di che nasce un difetto d’equilibrio, la discordia o la scissura interiore. Il reale comparisce la prima volta nell’arte, condannato, maledetto, chiamato il «falso dolce fuggitivo»: pur desiderato, di un desiderio vago che si appaga solo in immaginazione; debolmente contraddetto e debolmente secondato. Minore è la speranza, piú vivo è il desiderio, il quale, mancatagli la realtá, si appaga in immaginazione. Nasce una vita di sogni, di estasi, di fantasie di quello che l’animo desidera, non con la speranza di conseguirlo, anzi con la coscienza di non conseguirlo mai. Il poeta sogna, e sa che sogna, e gli piace sognare:

E piú certezza averne fòra il peggio.

Perché, se per averne piú certezza, rompe il corso dell’immaginazione, sopraggiunge il disinganno. Cosí vive in fantasia, fabbricandosi godimenti, interrotti spesso dalla riflessione con un «ahi lasso!», in un flutto perenne d’illusioni e disillusioni. Il disaccordo interno è appunto in questo: nella immaginazione che costruisce e nella riflessione che distrugge; malattia dello spirito, nata appunto dall’esagerazione dello spiritualismo. Lo spirito non è sano, perché, a forza di segregarsi dalla natura e dal senso, si trova alfine di rincontro e ribelle l’immaginazione; e l’immaginazione non è sana, perché ha di rincontro a sé e ribelle la riflessione, che in un attimo le dissipa i suoi castelli incantati. Lo spirito rimane pura riflessione o ragione astratta, e non ha forza di sottoporsi la volontá, per il contrasto che trova nell’immaginazione. L’immaginazione rimane pura immaginazione, e non ha forza sulla volontá, non lavora a realizzare i suoi dolci fantasmi, per il contrasto che trova nella riflessione. Se una delle due forze potesse soggiogar l’altra, nascerebbe l’equilibrio e la salute; ma le due forze lottano senza alcun risultato, non si giunge mai a un virile «io voglio», ci è al di dentro il sí e il no in eterna tenzone: perciò la vita non esce mai al di fuori [p. 256 modifica]in un risultato, in un’azione: rimane pregna di pensieri e immaginazioni tutta al di dentro:

                              In questi pensier, lasso,
notte e dí tienmi il signor nostro, Amore.

Lo spirito consuma se stesso in un fantasticare inutile e in una inutile riflessione. È punito lá dove ha peccato. Ha voluto assorbir tutto in sé; e ora si trova solo, e si ciba di se stesso, ed è egli medesimo il suo avoltoio. Stanco, svogliato, disgustato di una realtá a cui si sente estraneo, il poeta, come un romito, volge le spalle al mondo e si riduce nella solitudine di Valchiusa, e ne fa il suo eremo, e rimane solo con se stesso a fantasticare, «solo e pensoso», incalzato dal suo interno avoltoio:

     Solo e pensoso i piú deserti campi
vo misurando a passi tardi e lenti.

Da questa situazione sono uscite le due piú profonde canzoni del medio evo, l’una poco nota, l’altra assai popolare, amendue poco studiate: l’una che incomincia:

Di pensiero in pensier, di monte in monte;

l’altra che incomincia:

Chiare, fresche e dolci acque.

Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza della sua malattia, di questa attivitá interna inutile e oziosa, una specie di lenta consunzione dello spirito, impotente ad uscir da sé e attingere il reale, avremmo la tragedia dell’anima, come Dante ne concepí la commedia (una tragedia, nella quale il medio evo avrebbe riconosciuto la sua impotenza e la sua condanna): tra’ dolori della contraddizione vedremmo il misticismo morire, spuntare l’alba della realtá; il senso o il corpo, proscritto e dichiarato il peccato, ripigliare la parte che gli tocca nella vita. Ma nel Petrarca la lotta è senza virilitá. Gli manca la forza, che abbondò a Dante, d’idealizzarsi nell’universo; e, rimanendo chiuso nella sua individualitá, gli manca pure ogni [p. 257 modifica]forza di resistenza: sí che la tragedia si risolve in una flebile elegia. Il poeta si abbandona facilmente, e prorompe in lacrime e in lamenti. Acuto piú che profondo, non guarda negli abissi del suo male e si contenta descriverne i fenomeni, condensati in immagini e in sentenze rimaste proverbiali. Tenero e impressionabile, capace piú di emozioni che di passioni, non dimora lungamente nel suo dolore, ché vien presto l’alleviamento, lo scoppio delle lacrime e de’ lamenti. Artista piú che poeta, è disposto a consolarsi facilmente, quando l’immaginazione abbia virtú di offrirgli un simulacro di quella realtá di cui sente la privazione:

In tante parti e sí bella la veggio,
che, se l’error durasse, altro non cheggio.

La famiglia, la patria, la natura, l’amore sono per il poeta, com’era Dante, cose reali, che riempiono la vita e le dánno uno scopo. Per il Petrarca sono principalmente materia di rappresentazione: l’immagine per lui vale la cosa. Ma come ci è insieme in lui la coscienza che è l’immagine e non la cosa, la sua soddisfazione non è intera: ci è in fondo un sentimento della propria impotenza, ci è questo: — Non potendo avere la realtá, mi appago del suo simulacro. — Onde nasce un sentimento elegiaco «dolce-amaro»: la malinconia; sentimento di tutte le anime tenere, che non reggono lungamente allo strazio e non osano guardare in viso il loro male, e si creano amabili fantasmi e dolci illusioni. Manca al suo strazio l’elevata coscienza della sua natura e la profonditá del sentimento. Ci è anzi in lui la tendenza a dissimularselo, cercando scampo nella benefica immaginazione. La fisonomia di questo stato del suo spirito è scolpita nella canzone:

Chiare, fresche e dolci acque;

cielo fosco e funebre, che a poco a poco si rasserena ne’ piú cari diletti dell’immaginazione, insino a che da ultimo divien luce di paradiso:

Costei per fermo nacque in paradiso!
[p. 258 modifica]Il poeta è cosí attirato in questo mondo fabbricatogli dall’immaginazione, che, quando si riscuote, domanda:
Qui come venn’io o quando?

Il suo obblio, il sogno era stato cosí tenace, cosí simile alla realtá, che gli pareva essere in cielo, non lá dov’era. Questa dolce malinconia è la veritá della sua ispirazione, è il suo genio. Quando si sforza di uscirne, spunta spesso il retore: le sue collere, le sue ammirazioni non sono senza una esagerazione e ricercatezza, che rivelano lo sforzo. Ma quando vi s’immerge e vi si annega, la sua forma acquista il carattere della veritá congiunta con la grandezza, è un modello di semplicitá e naturalezza.

Gli è che natura, negandogli le grandi convinzioni e le grandi passioni e lo sguardo profondo di Dante, ne aveva fatto un artista finito. L’immagine appaga in lui non solo l’artista, ma tutto l’uomo. Senza patria, senza famiglia, senza un centro sociale in mezzo a cui viva altro che letterario, ritirato nella solitudine dello studio e nell’intimo commercio degli antichi, la veritá e la serietá della sua vita è tutta in queste espansioni estetiche, come la vita del santo è nelle sue estasi e contemplazioni. Dante è sbandito da Firenze, ma la sua anima è sempre colá. Il Petrarca è costretto a dimostrare la sua italianitá:

Non è questo ’l terren ch’io toccai pria?

A Dante non fa bisogno di rettorica. Si sente italiano e ne ha tutte le passioni, e ne senti il fremito e il tumulto nella sua poesia. Ciò che al contrario ti colpisce nel mondo personale e solitario del Petrarca è la privazione della realtá, e un desiderio di essa scemo di forza, che si appaga ne’ docili sogni dell’immaginazione. Tutto converge nell’immaginazione, tutto gli si offre come un sensibile: il pensiero e il sentimento sono in lui contemplazione estetica, bella forma. Ciò che l’interessa non è entusiasmo intellettuale né sentimento morale o patriottico, ma la contemplazione per se stessa, in quanto è bella, un sentimento puramente [p. 259 modifica]estetico. Laura piange; egli dice: — Quanto son belle quelle lacrime! — Laura muore; egli dice:

Morte bella parea nel suo bel viso.

Fantastica sulla sua morte. Ed ecco Laura che prega sulla sua fossa,

asciugandosi gli occhi col bel velo.

La bellezza per Dante è apparenza simbolica, «la bella faccia della sapienza»: dietro a quella ci sta la vita nella sua serietá, vita intellettuale e morale. Qui la bellezza, emancipata dal simbolo, si pone per se stessa, sostanziale, libera, indipendente, quale si sia il suo contenuto, sia pure indifferente o frivolo o repugnante. Il contenuto, giá cosí astratto e scientifico, anzi scolastico, qui pare per la prima volta essenzialmente come bellezza schietta, realtá artistica. Al Petrarca non basta che l’immagine sia viva, come bastava a Dante; vuole che sia bella. Ciò che move il suo cervello a sviluppare e formare l’immagine, non è l’idea, come storia o filosofia o etica, ma è il piacere estetico, che in lui s’ingenera, della sua contemplazione.

Questo sentimento della bella forma è cosí in lui connaturato, che penetra ne’ minimi particolari dell’elocuzione, della lingua e del verso. Dante anche nei piú minuti particolari di esecuzione guarda il di dentro e non lo perde mai di vista, perché è il di dentro che l’appassiona; il Petrarca rimane volentieri al di fuori, e non resta che non l’abbia condotto all’ultima perfezion tecnica. Nelle immagini, ne’ paragoni, nelle idee non cerca novitá e originalitá, anzi attinge volentieri ne’ classici e ne’ trovatori, intento non a cercare o trovare, ma a dir meglio ciò che è stato detto da altri. L’obbiettivo della sua poesia non è la cosa, ma l’immagine, il modo di rappresentarla. E reca a tanta finitezza l’espressione, che la lingua, l’elocuzione, il verso, finora in uno stato di continua e progressiva formazione, acquistano una forma fissa e definitiva, divenuta il modello de’ secoli posteriori. La lingua poetica è anche oggi quale il Petrarca ce la lasciò, né alcuno gli è entrato innanzi negli artifici [p. 260 modifica]del verso e dell’elocuzione. Quel tipo di una «lingua illustre», che Dante vagheggiava nella prosa, il Petrarca lo ha realizzato nella poesia, dalla quale è sbandito il rozzo, il disarmonico, il volgare, il grottesco e il gotico: elementi che pur compariscono nella Commedia. È una forma bella non solo per rispetto all’idea ma per se stessa, aulica, aristocratica, elegante, melodiosa. La parola vale non solo come segno, ma come parola. Il verso è non solo armonia o rispondenza con quel di dentro, ma melodia, elemento musicale in se stesso.

Ma questa bella forma non è un puro artificio tecnico o meccanico, una vuota sonoritá; anzi vien fuori da una immaginazione appassionata e innamorata, che ha il suo riposo, il suo ultimo fine in se stessa. È una immaginazione chiusa in sé, non trascendente, che di rado si alza a fantasia o a sentimento, anzi rifugge dal fantasma e tende spesso a produrre immagini finite, ben contornate, chiare e fisse. E se vi si appagasse, sarebbe poesia assolutamente pagana e plastica. Ma il grande artista, ne’ momenti anche piú geniali della produzione, sente come un vuoto, qualche cosa che gli manchi, e non è soddisfatto ed è malinconico. Che gli manca?

Gli manca, com’è detto, il possesso e il godimento e la serietá e la forza della vita reale. Come artista si sente incompiuto, come immaginazione si sente isolato: vivere in immaginazione gli piace; pur sente che lá non è la vita, e vi trova sollievo, non appagamento. Questo sentimento del vuoto che penetra ne’ piú cari diletti dell’immaginazione e li tronca bruscamente; questa immaginazione che, appunto perché si sente immaginazione e non realtá, produce le sue creature con la lacrima del desiderio negli occhi; questo desiderio inestinguibile che pullula dal seno stesso dell’arte e la chiarisce ombra e simulacro e non cosa viva, sono il fondo originale e moderno della poesia petrarchesca. L’immagine nasce trista, perché nasce con la coscienza di essere immagine e non cosa; e lo strazio di questa coscienza è raddolcito, perché, non ci essendo la cosa, ci è l’immagine, e cosí bella, cosí attraente. Situazione piena di misteri, di contraddizioni e di chiaroscuri, che genera quel non [p. 261 modifica]so che «dolce-amaro», detto «malinconia», un sentirsi consumare e struggere dolcemente:

che dolcemente mi consuma e strugge.

La malinconia è la musa cristiana, è il male di Dante e de’ piú eletti spiriti di quel tempo. Ma la malinconia del Petrarca e della nuova generazione che gli stava attorno è giá di un’altra natura e accenna a tempi nuovi.

La malinconia di Dante ha radice nello spirito stesso del medio evo, che poneva il fine della vita in un di lá della vita, nella congiunzione dell’umano e del divino, che è la base della Divina commedia. Le anime del purgatorio sono malinconiche perché sospirano appresso ad un bene, di cui hanno innanzi la sola immagine nelle pitture, ne’ simboli, nelle visioni estatiche. Quei godimenti dell’immaginativa aguzzano piú il desiderio. Non basta loro l’immagine: vogliono la realtá; e questo volere, raddolcito dalla presenza del simulacro, genera la loro malinconia. Sono prive del paradiso, ma lo veggono in immaginazione e sperano di salirvi quando che sia: perciò sono contente nel fuoco. La condizione delle anime purganti è molto simile a quella degli uomini nella vita terrena: è lo stesso tarlo che li rode. La vita corporale è un velo, un simulacro di quel di lá che la fede e la scienza offriva chiarissimo all’intelletto e all’immaginazione; perciò la vita corporale era in se stessa il peccato o la carne, l’inferno, il «vasello» o la prigione, dove l’anima vive malinconica: il giorno della morte è per l’anima il giorno della vita e della libertá. Non che profondarsi nel reale e cercare di assimilarselo, l’anima tende a separarsene e vivere in ispirito o in immaginazione, fabbricandosi un simulacro di quel di lá a cui spera di giungere: indi la tendenza all’ascetismo, alla solitudine, all’estasi e al misticismo. Questa era la malinconia di Caterina quando dicea: «Muoio e non posso morire».

La stessa tendenza e la stessa malinconia è nel Petrarca. Anch’egli cerca fabbricarsi ombre e simulacri di Laura, anch’egli cerca l’obblio e il riposo ne’ sogni dell’immaginazione. Quando la santa e il poeta s’incontrarono in Avignone, dovettero sentirsi [p. 262 modifica]sotto un certo aspetto parenti di spirito. Il poeta aveva la stessa inclinazione alla solitudine, alla contemplazione, al raccoglimento, all’estasi, alla malinconia. E se guardiamo all’apparenza, c’era in tutti e due le stesse credenze e le stesse aspirazioni. Quel «muoio e non posso morire» corrisponde bene a questo grido del poeta:

Aprasi la prigion ov’io son chiuso,
e che ’l cammino a tal vita mi serra.

Ma qui fiutate la rettorica, e lá avete l’espressione nuda ed energica di un sentimento che investe tutta l’anima e consuma la santa a trentatré anni. Questa concentrazione ed unitá delle forze intorno ad un punto solo, in che è la serietá della vita, mancò al Petrarca. Il suo mondo è pur quello di Caterina e di Dante, mondato della sua scorza scolastica e simbolica, ridotto in forma piú chiara e artistica, ma pur quello. Se non che questo mondo mistico non lo possiede tutto, e, sovrano e indiscusso nella mente, non tira a sé tutte le forze della vita. È in lui visibile una dispersione e distrazione di forze, come di uomo tirato in qua e in lá da contrarie correnti, che vorrebbe pigliar la sua via e non se ne sente la forza, e vaga in balía dei flutti scontento e riluttante. La bella unitá di Dante, che vedeva la vita nell’armonia dell’intelletto e dell’atto mediante l’amore, è rotta. Qui ci è scompiglio interiore, ribellione, contraddizione:

E veggio ’l meglio ed al peggior m’appiglio.

La malinconia di Caterina è l’impazienza del morire, di unirsi con Cristo; la malinconia di Dante è la dissonanza fra il mondo divino e la selva oscura, la vita terrena: malinconia piena di forza e di speranza, che si scioglie nell’azione. La malinconia del Petrarca è la coscienza della sua interna dissonanza e della sua impotenza a conciliarla: malinconia insanabile, perché il male non è nell’intelletto, è nella volontá, non certo ribelle ma debole e contraddittoria. Per palliare la dissonanza, esce in mezzo la sofistica e la rettorica, con le piú smaglianti frasi, con le piú sottili distinzioni: intervalli di tregua, che fanno risorgere piú [p. 263 modifica]acuta la coscienza del male. Gli è che il medio evo è giá nel suo petto in fermentazione, penetrato di altri elementi, senza che egli abbia una distinta coscienza di questo nuovo stato: accanto al cristiano ascetico ci è l’erudito, il letterato, l’artista, il pagano, l’uomo di mondo con tutti gl’istinti e le tendenze naturali che vogliono farsi valere. Si forma in lui un essere contraddittorio, come ne’ tempi di transizione, che non è ancora l’uomo nuovo e non è piú l’uomo antico.

La malinconia del Petrarca non è dunque piú la malinconia del medio evo, di un mondo formato e trascendente, che rende quaggiú malinconico lo spirito per il suo legame col corpo; ma è la malinconia di un mondo nuovo, che, oscuro ancora alla coscienza, si sviluppa in seno al medio evo e ci sta a disagio, e tende a sprigionarsene, e non ne ha la forza per la resistenza che trova nell’intelletto. L’intelletto appartiene al medio evo, alle cui dottrine ha tolta la ruvida scorza, non la sostanza. Quel mondo nuovo, plastico, pagano, reazione della natura contro il misticismo, è ancora cosí debole, cosí poco lineato, che l’intelletto può condannarlo e maledirlo, o assimilarselo con una sofistica apparenza di conciliazione; e se, cacciato dalla vita reale, riapparisce nell’immaginazione, può penetrare anche colá e dirgli: — Tu non sei che un fantasma. —

Se in vita di Laura questo sentimento nuovo, che sorge piú vicino all’uomo e alla natura, è dissimulato co’ piú ingegnosi sofismi, quasi peccato che si cerchi di palliare; dopo la morte di Laura, purificato e trasformato, si manifesta con piú energia. Beatrice morta diviene per Dante la scienza, la voce di quel mondo di lá, ov’era lo scopo della vita. La storia di Beatrice è sviluppo di idee e di dottrine nella lirica e nella Commedia. Il suo riso è luce intellettuale, raggio dell’intelletto. La storia di Laura è profondamente umana e reale, eco de’ piú delicati sentimenti, delle piú tenere emozioni, delle piú vivaci impressioni che colpiscono l’uomo in terra.

La poesia in vita di Laura è dominata dall’intelletto, da una riflessione sofistica e rettorica, che altera la puritá de’ sentimenti, e sottilizza le immagini, e raffredda le impressioni, e con vani [p. 264 modifica]sforzi di conciliazione mette piú in vista quel sí e quel no che battagliavano nella debole volontá del poeta. In morte di Laura ogni battaglia cessa e non ci è piú vestigio di sofismi e di rettorica, perché la conciliazione, cercata finora cosí ingegnosamente e non conseguita, è giá avvenuta per la natura delle cose. Laura morta diviene libera creatura dell’immaginazione, non piú persona autonoma e resistente ma docile fantasma. Il poeta ne fa la sua creatura; può darle affetti e pensieri, quali gli piaccia; può piangerla, vederla, parlare seco, vivere seco in ispirito. La situazione è semplice e umana. È la donna amata, sparita dalla terra, che ti apparisce in sogno e ti asciuga gli occhi e ti prende per mano e ti parla: consolazioni malinconiche, interrotte da una lacrima, quando ti svegli. Dante si asciuga presto la lacrima, e si gitta fra le onde agitate dell’esistenza, e si rifá un ideale e lo chiama Beatrice. A lui manca il tempo di piangere, perché tiene nel suo petto due secoli, ed ha la forza di comprenderli e realizzarli. Il Petrarca giunge qui che è giá stanco e disgustato dell’esistenza; vi giunge con l’anima di solitario e di romito, e non ha altra forza che di piangere:

Ed io son un di quei che ’l pianger giova.

Piange la fine delle illusioni, il vacuo dell’esistenza, il perire di tutte le cose:

Veramente siam noi polvere ed ombra.

Cosí, dopo vane speranze e vani timori, quest’anima tenera e impressionabile rinunzia alla lotta, e si abbandona, e si separa da un mondo dove invano erasi sforzata di penetrare, e si ritira nella solitudine della sua immaginazione con Laura, chiamando partecipi de’ suoi lamenti l’usignuolo, e il vago augelletto, e la valle e il bosco e l’aura e l’onda. La scissura interna dá luogo ad una calma elegiaca; il cuore stanco si riconcilia con l’intelletto. Il passato, cagione di gioie e di affanni, gli pare un sogno; la vita gli pare insipida; vivere è un breve sonno; morire è svegliarsi tra gli spirti eletti; quando gli occhi si chiudono, allora si aprono nell’eterno lume; il mondo [p. 265 modifica]cristiano, non contraddetto mai dal suo intelletto, ora penetra nel suo cuore, gli appare come un mondo nuovo, che dipinge con accenti di maraviglia:

     Come va ’l mondo! or mi diletta e piace
quel che piú mi dispiacque; or veggio e sento
che per aver salute ebbi tormento,
e breve guerra per eterna pace.

Ecco in che modo rappresenta questo nuovo stato nel suo inno alla Vergine:

Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
cercando or questa ora quell’altra parte,
non è stata mia vita altro ch’affanno.
Mortal bellezza, atti e parole m’hanno
tutta ingombrata l’alma.
Vergine sacra ed alma,
non tardar: ch’i’ son forse all’ultim’anno.
I dí miei, piú correnti che saetta,
fra miserie e peccati
sonsen andati, e sol Morte ne aspetta.

Quest’uomo, che gitta sul passato lo sguardo del disinganno, che chiama la sua vita miseria e peccato, che vede gli anni fuggiti con tanta rapiditá, senza alcun frutto, ben si promette di fare un altro canzoniere alla Vergine; ma è troppo tardi. — Omai son stanco! — grida. E se ne’ Trionfi cerca ingrandire il suo orizzonte e uscire da sé e contemplare l’umanitá, ciò che ne’ suoi versi ha ancora qualche interesse è il suo passato, che i vecchi hanno il privilegio di evocare, rifarne qualche frammento; è soprattutto il sogno di Laura, tanto imitato da poi.

Chi legge il Canzoniere non può non ricevere questa impressione: di un mondo astratto, rettorico, sofistico, quale fu foggiato da’ trovatori, dove appariscono sentimenti piú umani e reali e forme piú chiare e rilevate; o, se vogliamo guardare piú alto, di un mondo mistico-scolastico oltreumano, ammesso ancora dall’intelletto, ma repulso dal cuore e condannato dall’immaginazione. Se guardiamo alla forma, quel mondo ha [p. 266 modifica]perduto il suo aspetto simbolico-dottrinale, che lo teneva al di lá della vita e dell’arte, e si è umanizzato, è divenuto immagine e sentimento: il tempio gotico si è trasformato in un bel tempietto greco, nobilmente decorato, elegante, con luce uguale, con perfetta simmetria, ispirato da Venere, dea della bellezza e della grazia. Il grottesco, il gotico, gli angoli, le punte, le ombre, l’indefinito, il dissonante, il prolisso, il superfluo, il volgare, il difforme, tutto è cacciato via da questo tempio dell’armonia: maraviglia d’arte, che chiude un secolo e ne annunzia un altro. L’artista gode; l’uomo è scontento. Perché sotto a questa bella forma cosí levigata e pulita vive un povero core d’uomo, nutrito di desidèri e d’immagini, a cui lo tira la natura, da cui lo allontana la ragione, senza la forza di uscire dalla contraddizione e senza la ferma volontá di realizzarle. L’uomo è minore dell’artista. L’artista non posa che non abbia data l’ultima finitezza al suo idolo; l’uomo non osa di guardarsi, e abbozza i moti del proprio cuore, e salta nelle piú opposte direzioni, quasi tema di fermarsi troppo, di esser costretto a volere e a risolversi. Perciò quella bella superficie riman fredda; non ha al di sotto profonditá di esplorazione o energia di volontá e di convinzione. La situazione poteva esser tragica: rimane elegiaca; poesia di un’anima debole e tenera, che si effonde malinconicamente in dolci lamenti, assai contenta quando possa vivere in immaginazione e fantasticare: l’uomo svanisce nell’artista. Gli è che a quest’uomo mancava quella fede seria e profonda nel proprio mondo, che fece di Caterina una santa e di Dante un poeta. Quel mondo giace nel suo cervello giá decomposto e in fermentazione, mescolato con altre divinitá. Ciò che di piú serio si move nel suo spirito è il sentimento dell’arte congiunto con l’amore dell’antichitá e dell’erudizione. È in abbozzo l’immagine anticipata dei secoli seguenti, di cui fu l’idolo. L’arte si afferma come arte e prende possesso della vita.

Cosí il medio evo, quando appena cominciava a svilupparsi negli altri popoli, presso di noi, per una precoce cultura, si dissolveva prima che avesse potuto esplicarsi in tutti gli aspetti dell’arte e produrre la forma drammatica. Dante, che dovea essere [p. 267 modifica]il principio di tutta una letteratura, ne fu la fine. Il suo mondo, cosí perfetto al di fuori, è al di dentro scisso e fiacco: è contemplazione d’artista, non piú fede e sentimento. Questa dissonanza tra una forma cosí finita e armonica e un contenuto cosí debole e contradditorio ha la sua espressione ne’ sentimenti che prevalgono a’ tempi di transizione: la malinconia, la tenerezza, la delicatezza, il molle e voluttuoso fantasticare. E l’illustre malato, abbandonato a’ flutti di questo doppio mondo, di un mondo che se ne va e di un mondo che se ne viene, e che con tanta dolcezza e grazia rappresenta una contraddizione a scioglier la quale gli manca la coscienza e la forza, è Francesco Petrarca.