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256 storia della letteratura italiana


in un risultato, in un’azione: rimane pregna di pensieri e immaginazioni tutta al di dentro:

                                                                       In questi pensier, lasso,
notte e dt tienmi il signor nostro, Amore.
     
Lo spirito consuma se stesso in un fantasticare inutile e in una inutile riflessione. È punito lá dove ha peccato. Ha voluto assorbir tutto in sé; e ora si trova solo, e si ciba di se stesso, ed è egli medesimo il suo avoltoio. Stanco, svogliato, disgustato di una realtá a cui si sente estraneo, il poeta, come un romito, volge le spalle al mondo e si riduce nella solitudine di Valchiusa, e ne fa il suo eremo, e rimane solo con se stesso a fantasticare, «solo e pensoso», incalzato dal suo interno avoltoio:
                                         Solo e pensoso i piú deserti campi
vo misurando a passi tardi e lenti.
     
Da questa situazione sono uscite le due piú profonde canzoni del medio evo, l’una poco nota, l’altra assai popolare, amendue poco studiate: l’una che incomincia:
                                    Di pensiero in pensier, di monte in monte;      
l’altra che incomincia:
                                    Chiare, fresche e dolci acque.      

Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza della sua malattia, di questa attivitá interna inutile e oziosa, una specie di lenta consunzione dello spirito, impotente ad uscir da sé e attingere il reale, avremmo la tragedia dell’anima, come Dante ne concepí la commedia (una tragedia, nella quale il medio evo avrebbe riconosciuto la sua impotenza e la sua condanna): tra’ dolori della contraddizione vedremmo il misticismo morire, spuntare l’alba della realtá; il senso o il corpo, proscritto e dichiarato il peccato, ripigliare la parte che gli tocca nella vita. Ma nel Petrarca la lotta è senza virilitá. Gli manca la forza, che abbondò a Dante, d’idealizzarsi nell’universo; e, rimanendo chiuso nella sua individualitá, gli manca pure ogni