Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/VII. La Commedia/V

VII. La Commedia - V.

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Questa immensa materia si forma e si sviluppa secondo il concetto in tre mondi, de’ quali l’inferno e il paradiso sono le due forze in antagonismo, carne e spirito, odio e amore; e il purgatorio è il termine medio o di passaggio: tre mondi, de’ quali la letteratura non offriva che povere e rozze indicazioni, e che escono dalla fantasia dantesca vivi e compiuti.

L’inferno è il regno del male, la morte dell’anima e il dominio della carne, il caos: esteticamente è il brutto.

Dicesi che il brutto non sia materia d’arte e che l’arte sia rappresentazione del bello. Ma è arte tutto ciò che vive, e niente è nella natura che non possa esser nell’arte. Non è arte quello solo che ha forma difettiva o in sé contraddittoria, cioè l’informe o il deforme e il difforme; e perciò non è arte il confuso, l’incoerente, il dissonante, il manierato, il concettoso, l’allegorico, l’astratto, il generale, il particolare: tutto questo non è vivo; è abbozzo o aborto di artisti impotenti. L’altro, «bello» o «brutto» che si chiami in natura, esteticamente è sempre bello.

In natura il brutto è la materia abbandonata a’ suoi istinti, senza freno di ragione; e ne nasce una vita che ripugna alla coscienza morale e al senso estetico. Alla sua vista il poeta vede negata la sua coscienza, negato se stesso; e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: — Tu sei brutto. — Piú il suo senso morale ed estetico è sviluppato, e piú la sua impressione è gagliarda, piú lo vede vivo e vero innanzi alla immaginazione. Perciò non pensa a palliarlo, e tanto meno ad abbellirlo; anzi lo pone in evidenza e lo ritrae co’ suoi propri colori.

Il brutto è elemento necessario cosí nella natura come nell’arte, perché la vita è generata appunto da questa contraddizione tra il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto. Togliete la contraddizione, e la vita si cristallizza. Veritá cosí palpabile, che le immaginazioni primitive posero della vita due principi attivi: il bene e il male, l’amore e l’odio, Dio e il demonio; antagonismo che si sente in tutte le grandi concezioni [p. 177 modifica]poetiche. Perciò il brutto, cosí nella natura come nell’arte, ci sta con lo stesso dritto che il bello, e spesso con maggiori effetti, per la contraddizione che scoppia nell’anima del poeta. Il bello non è che se stesso: il brutto è se stesso e il suo contrario; ha nel suo grembo la contraddizione; perciò ha vita pivi ricca, piú feconda di situazioni drammatiche. Non è dunque maraviglia che il brutto riesca spesso nell’arte piú interessante e piú poetico. Mefistofele è piú interessante di Fausto, e l’inferno è piú poetico del paradiso.

Dante concepisce l’inferno come la depravazione dell’anima, abbandonata alle sue forze naturali: passioni, voglie, istinti, desidèri, non governati dalla ragione o dall’intelletto; contraddizione ch’egli esprime con l’energia di uomo offeso nel suo senso morale:

                                                                       le genti dolorose,
c’hanno perduto ’l ben dell’intelletto...
che libito fe’ licito in sua legge...
che la ragion sommettono al talento...
     

L’anima è dannata in eterno per la sua eterna impenitenza; peccatrice in vita, peccatrice ancor nell’inferno, salvo che qui il peccato è non in fatto ma in desiderio. Onde nell’inferno la vita terrena è riprodotta tal quale, essendo il peccato ancor vivo e la terra ancora presente al dannato. Il che dá all’inferno una vita piena e corpulenta, la quale, spiritualizzandosi negli altri due mondi, diviene povera e monotona. Gli è come un andare dall’individuo alla specie e dalla specie al genere. Piú ci avanziamo, e piú l’individuo si scarna e si generalizza. Questa è certo perfezione cristiana e morale, ma non è perfezione artistica. L’arte come la natura è generatrice, e le sue creature sono individui, non specie o generi, non tipi o esemplari; sono res, non spceies rerum. Perciò l’inferno ha una vita piú ricca e piena, ed è de’ tre mondi il piú popolare. Aggiungi che la vita terrena o infernale è còlta dal poeta nel vivo stesso della realtá in mezzo a cui si trova, essendo essa la rappresentazione epica della barbarie, nella quale il rigoglio della passione e la sovrabbondanza della vita trabocca al di fuori. Dante stesso [p. 178 modifica]è un barbaro, un eroico barbaro, sdegnoso, vendicativo, appassionatissimo: libera ed energica natura. Al contrario la vita negli altri due mondi non ha riscontro nella realtá, ed è di pura fantasia, cavata dall’astratto del dovere e del concetto, e ispirata dagli ardori estatici della vita ascetica e contemplativa.

Essendo l’inferno il regno del male o della materia in se stessa e ribelle allo spirito, la legge che regola la sua storia o il suo sviluppo è un successivo oscurarsi dello spirito, insino alla sua estinzione, alla materia assoluta.

Il suo punto di partenza è l’indifferente, l’anima priva di personalitá e di volontá, il negligente. Il carattere qui è il non averne alcuno. In questo ventre del genere umano non è peccato né virtú, perché non è forza operante: qui non è ancora inferno, ma il preinferno, il preludio di esso. Ma se, moralmente considerati, i negligenti tengono il piú basso grado nella scala de’ dannati e paiono a Dante «sciaurati» piú che peccatori, il concetto morale rimane estrinseco alla poesia e non serve che a classificare i dannati. Altri sono i criteri del poeta. La morale pone i negligenti sul limitare dell’inferno; la poesia li pone piú giú dell’ultimo scellerato, che Dante stima piú di questi mezzi uomini. E la poesia è d’accordo con la tempra energica del gran poeta e de’ suoi contemporanei. A quegli uomini vestiti di ferro anima e corpo, questi esseri passivi e insignificanti doveano ispirare il piú alto dispregio. E il dispregio fa trovare a Dante frasi roventi. Sono uomini che «vissero senza infamia e senza lodo», anzi «mai non fu̇r vivi». La loro pena è di essere stimolati continuamente, essi che non sentirono stimolo alcuno nel mondo. La pena è minima; eppure tale è la loro fiacchezza morale, sono cosí vinti nel «duolo», che lacrimano e gettano le alte strida, che fanno tumultuare l’aria

                                         come la rena quando ’l turbo spira.      


A’ loro piedi è la loro immagine, il verme. Turba infinita, senza nome: appena accenna ad un solo, e senza nominarlo:
                                                                                           colui
che fece per viltate il gran rifiuto.
     
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Il loro supplizio è la coscienza della loro viltá, il sentirsi dispregiati, cacciati dal cielo e dall’inferno. Ritratto immortale e popolarissimo, di cui alcuni tratti sono rimasti proverbiali. Esseri poetici, appunto perché assolutamente prosaici, la negazione della poesia e della vita; onde nasce il sublime negativo degli ultimi tre versi:

                                              Fama di loro il mondo esser non lassa;
Misericordia e Giustizia gli sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa
     

Se i negligenti non sono nell’inferno perché mancò loro la forza del bene e del male, gl’innocenti e i virtuosi non battezzati non sono in paradiso perché mancò loro la fede: sono nel limbo. E anche qui il concetto teologico ci sta per memoria, per semplice classificazione. La poesia nasce da altre impressioni e da altri criteri. Il valore poetico dell’uomo non è nella sua moralitá e nella sua fede, ma nella sua energia vitale; non è una idea, ma una forza: il personaggio poetico. Perciò il negligente, considerato esteticamente, è un sublime negativo, la negazione della forza, il non esser vivo. E perciò qui, nel limbo, la mancanza di fede è un semplice accessorio, e l’interesse è tutto nel valore intrinseco dell’uomo, come essere vivo, come forza. Dio ha lo stesso criterio poetico e dá ad alcuni un luogo distinto, non per la loro maggiore bontá, ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza dell’ingegno e delle opere:

                                                   L’onrata nominanza,
che di lor suona su nella tua vita,
grazia acquista nel ciel, che si gli avanza.
     

Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa poeta con Dante e gli fabbrica un Eliso pagano, un pantheon di uomini illustri. E chi vuol trovare le impressioni di Dante, quando alzava questo magnifico tempio della storia e della coltura antica, e le impressioni che ne dovettero ricevere i contemporanei, ricordi le sue impressioni quando, giovinetto, su’ banchi della [p. 180 modifica]scuola, gli si affacciavano le maraviglie di questo mondo grecolatino. Aristotile, Omero, Virgilio, Cesare, Bruto, ciascuno di questi nomi, quante memorie, quante fantasie suscitava! Nudo è qui un elenco di nomi, tra alcuni tratti caratteristici che segnano i protagonisti: il «signore dell’altissimo canto» e il «maestro di color che sanno». E colui, che a quella vista si sente «esaltare» in se stesso e s’incorona poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de’ tempi nuovi, «sesto tra cotanto senno», è, non il Dante dell’altro mondo, ma Dante Alighieri. Ecco ciò che rende il limbo cosí interessante, come il mondo de’ negligenti: due concezioni orginalissime, uscite da un profondo sentimento della vita reale e rimaste freschissime ne’ secoli. Molti tratti sono ancora oggi in bocca del popolo.

Come l’inferno è concepito e ordinato, lo spiega nel canto undecimo il poeta stesso, architetto e filosofo delle sue costruzioni. Quel regno del male è partito in tre mondi, rispondenti alle tre grandi categorie dei delitto: la incontinenza e violenza, la malizia, e la fredda premeditazione. Ciascuna di queste categorie si divide in generi e specie, in cerchi e gironi. II concetto etico di questa scala de’ delitti è che dove è piú ingiuria è piú colpa, e l’ingiuria non è tanto nel fatto quanto nell’intenzione. Perciò la malizia e la frode è piú colpevole della incontinenza e violenza, e la fredda premeditazione de’ traditori è piú colpevole della malizia. Indi la storica evoluzione dell’inferno, dove da’ meno colpevoli, gl’incontinenti, si passa alla citta di Dite, sede de’ violenti, e poi si scende in Malebolge, e di lá nel pozzo de’ traditori. Questo è l’inferno scientifico o etico. Ma non è ancora l’inferno poetico.

La poesia dee voltare questo mondo intellettuale in natura vivente. L’ordine scientifico presenta una serie di concetti astratti; il poetico una serie di figure, di fatti e d’individui: il primo una serie di delitti, il secondo una serie non solo d’individui colpevoli ma di tali e tali individui. Dividere in categorie significa considerare, in un gruppo d’individui, non quello che ciascuno ha di proprio, ma quello che ha di comune col gruppo a cui appartiene. Cosi una classificazione è possibile, una [p. 181 modifica]esatta riduzione a generi e specie. Ma la poesia ritorna l’individuo nella sua libera personalitá, e lo considera non come essere morale ma come forza viva e operante. E piú in lui è vita, piú è poesia. Perciò, se l’inferno, come mondo etico, è il successivo incattivirsi dello spirito, si che alla violenza, comune all’uomo e all’animale, succede la malizia, «male proprio dell’uomo», e alla malizia la fredda premeditazione; questo concetto poeticamente rimane ozioso e non serve che alla sola classificazione. Come natura vivente o come forma, l’inferno è la morte progressiva della natura, la vita è il moto che manca a poco a poco sino alla compiuta immobilitá, alla materia come materia, dove insieme con la vita muore la poesia. Indi la storia dell’inferno.

Dapprima la situazione è tragica: il motivo è la passione, dove la vita si manifesta in tutta la sua violenza; perché la passione raccoglie tutte le forze interiori, distratte e sparpagliate nell’uso quotidiano della vita, intorno a un punto solo, di modo che lo spirito acquista la coscienza della sua libertá infinita. Preso per se stesso lo spirito ed isolato dal fatto, la sua forza è infinita e non può esser vinta neppure da Dio, non potendo Dio fare ch’esso non creda, non senta e non voglia quello che crede, sente e vuole. Non vi è donnicciuola cosí vile, che non si senta forza infinita quando è stretta dalla passione. — Io ti amo e ti amerò sempre; e se dopo morte si ama, ed io ti amerò, e piuttosto con te in inferno che senza te in paradiso. — Queste sono le eloquenti bestemmie che traboccano da un cuore appassionato e che rendono eroiche la timida Giulietta e la gentile Francesca.

Ma quando la passione vuole realizzarsi, s’intoppa in un altro infinito, nell’ordine generale delle cose, di cui si sente parte e innanzi a cui è un fragile individuo. E n’esce la tragica collisione tra la passione e il fato, l’uomo e Dio: il peccato. Nella vita né la passione né il fato sono nella loro purezza: la passione ha le sue fiacchezze e oscillazioni; il fato talora è il caso o l’espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani in cui intoppa il protagonista. Ma nell’inferno l’anima è isolata dal fatto, ed è pura passione e puro carattere, perciò inviolabile e [p. 182 modifica]onnipotente; e il fato è Dio, come eterna giustizia e legge morale: onde la prima parte dell’inferno, ove incontinenti e violenti, esseri tragici e appassionati, mantengono la loro passione di rincontro a Dio, è la tragedia delle tragedie, l’eterna collisione nelle sue epiche proporzioni.

Tutto questo mondo tragico è penetrato dello stesso concetto. La natura infernale non è ancora laida e brutta; anzi balzan fuori tutt’i caratteri che la rendono un sublime negativo: l’eternitá, la disperazione, le tenebre. L’eterno è sublime, perché ti mostra un di lá sempre allo stesso punto, per quanto tu ti ci avvicini; la disperazione è sublime, perché ti mostra un fine non possibile a raggiungere, per quanto tu operi; la tenebra è sublime, come annullamento della forma e morte della fantasia, per quella stessa ragione che è sublime la morte, il male, il nulla. Leggete la scritta sulla porta dell’inferno. Ne’ primi tre versi è l’eterno immobile che ripete se stesso: dolore, dolore e dolore; quel luogo, quel luogo e quel luogo; per me, per me e per me; insino a che in ultimo l’eterno risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:

                                         Lasciate ogni speranza, voi che entrate.      

La luce, il «dolce lome», rende sublimi le tenebre, morte del sole e delle stelle e dell’occhio, come è «l’aer senza stelle», e il «loco d’ogni luce muto», e quel «ficcar lo viso al fondo» e «non discernere alcuna cosa». Certo, l’eternitá, le tenebre e la disperazione sono caratteri comuni a tutto l’inferno; ma solo qui sono poesia, quando l’inferno si affaccia per la prima volta alla immaginazione nella gagliardia e freschezza delle prime impressioni. Appresso diventano spettacolo ordinario, come è il sole, visto ogni giorno.

E Dante, che parte da principi preconcetti nelle sue costruzioni scientifiche, quando è tutto nel realizzare e formare i suoi mondi, opera con piena spontaneitá, abbandonato alle sue impressioni. Il canto terzo è il primo apparire dell’inferno; e come ci si sente la prima impressione, come si vede il poeta esaltato, turbato dalla sua visione, assediato di forme, di fantasmi, [p. 183 modifica]impazienti di venire alla luce! In quel «diverse voci, orribili favelle»ecc., non ci è solo il grido de’ negligenti: ci è li tutto l’inferno che manda il suo primo grido. Quel canto del sublime è una sola nota musicale variamente graduata: è l’eterno, il tenebroso, il terribile, F infinito dell’inferno, che invade e ispira il poeta e vien fuori co’ vivi colori della prima impressione; è il vero canto del regno de’ morti, della «morta gente»; è l’albero della vita, che il poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che fa, e ne toglie la speranza:

                                         Lasciate ogni speranza, voi che entrate.      
E ne toglie le stelle:
                                         Risonavan per l’aer senza stelle.      
E ne toglie il tempo:
                                         Facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aria senza tempo tinta.
     
E ne toglie il cielo:
                                         Non isperate mai veder lo cielo.      
E ne toglie Dio:
                                         C’hanno perduto ’l ben dell’intelletto.      

Questa natura sublime dapprima è indeterminata, senza contorni, cerchio, loco, null’altro: Indiresti natura vuota, se non la riempissero l’eternitá e le tenebre e la morte e la disperazione. Nel regno de’ violenti prende una forma. Si esce dal sublime: si entra nel bello negativo. Incontri tutto ciò che è figura, ordine, regolaritá, proporzione in terra; anzi con vocabolo umano è chiamata «cittá», la cittá di Dite. Vedi selve, laghi, sepolcri; e l’effetto poetico nasce dal trovare la stessa figura, ma spogliata di tutti gli accessorii che la rendono bella in terra:

                                              Non frondi verdi ma di color fosco,
non rami schietti ma nodosi e involti,
non pomi v’eran ma stecchi con tosco.
     

La natura, spogliata della sua vita, del suo cielo, della sua luce, delle sue speranze, è un sublime che ti gitta nell’animo [p. 184 modifica]il terrore; la natura, spogliata della sua bellezza, è un bello negativo, pieno di strazio e di malinconia. È la natura snaturata, depravata, a immagine del peccato: con la virtú, se n’è ita la bellezza, sua faccia.

Questa natura snaturata vien fuori con maggior vita nelle pene. Perché il concetto nella natura sta immobile come nell’architettura e nella scultura; dove nelle pene acquista ogni varietá di attitudini e di movenze. Le pene sono la coscienza fatta materia, e qui esprimono la violenza della passione. In quella natura eterna e tenebrosa odi un mugghio, «come fa mar per tempesta», e il rovescio della grandine, e il cozzo delle moltitudini: moti disordinati, violenti, come i moti dell’animo. Vedi tombe ardenti, laghi di sangue, alberi che piangono e parlano, la natura sforzata e snaturata dal peccatore. Gli strani accozzamenti producono l’effetto del maraviglioso e del fantastico; ma il fantastico è presto vinto, e ti piglia il raccapriccio e l’orrore. Il poeta prende in troppa serietá il suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorprenderci con colpi di scena: tocca e passa; e non vuol fare effetto sulla tua immaginazione, vuol colpire la tua coscienza. Dove il fantastico è piú sviluppato, è nella selva de’ suicidi; ma anche li vien subito la spiegazione, e la maraviglia dá luogo a una profonda tristezza.

Ma il concetto non ha ancora la sua subiettivitá, non è ancora anima. Un primo grado di questa forma è nel demonio. Cielo e inferno sono stati sempre popolati di legioni angeliche e sataniche, che riempiono l’intervallo tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e Satana. È la storia del bene e del male, che si sviluppa nella nostra anima, un progressivo indiarsi o indemoniarsi. Diversi di nomi e di forme secondo le religioni e le civiltá, i demòni hanno per base i diversi gradi del male, e per forma il gigantesco e il mostruoso, il puro terrestre, il bestiale giunto all’umano, e spesso preponderante, come nella Sfinge, nella Chimera, in Cerbero. Il demonio di Dante non ha piú la sua storia, come in terra: spirito tentatore accanto alf’uomo e ribelle e rivale di Dio. Qui è immobilizzato come l’uomo; la sua storia è finita: cosa gli resta? Soffrire e far soffrire, vittima e carnfice [p. 185 modifica]a un tempo, simbolo esso stesso e immagine del peccato che flagella nell’uomo. Il Satana di Milton e Mefistofele, che combattono contro di Dio e contro l’uomo, sono compiute persone poetiche. Altra è qui la situazione, e altro è il demonio. Esso è il vinto di Dio, e meno che uomo, perché non è dell’uomo che una sua pane sola, il peccato. È piuttosto tipo, specie, simbolo, che persona. È il piú basso gradino nella scala degli esseri spirituali, lo spirito tra l’umano e il bestiale, in cui l’intelletto è ancora istinto e la volontá è ancora appetito. Figure vive e mobili della colpa, ma figure, semplice esterioritá: non carattere, non passione, non intelligenza, non volontá. Fra gl’incontinenti e i violenti il demonio è tragico e serio: è azione mimica e tutta esterna, passione tradotta in moti e gesti, senza la parola, salvo brevi imprecazioni. La natura ti di figura e colore: qui la figura si muove e il colore si anima; è la figura in azione. Il poeta ha scossa la polvere dalle antiche forme pagane, e le ha rifatte e rinnovate. Come, a costruire il suo inferno, toglie alla terra le sue forme e, strappandole dal circolo loro assegnato, le compone diversamente e ti crea una nuova natura; cosí, ad esprimere lo spirito, toglie dalla mitologia tutte le forme demoniache, Minos, Caronte, Cerbero, Pluto, Gerione, le arpie, le furie, e le trasporta nel suo inferno: le trova vuote e libere, spogliate di concetto, di vita e di religione; e le ricrea, le battezza, impressovi sopra il suo pensiero e la sua religione. Il demonio meno lontano dall’uomo è Caronte, in cui vien fuori l’apparenza di un carattere: impaziente, rissoso, manesco, che grida e batte. Il poeta si è ben guardato di sviluppare il comico che è in questo carattere: la figura di Caronte rimane severa e grave, e non fa dissonanza con la solennitá della natura infernale dove si trova collocata. Minos è il giudizio rappresentato in modo allatto esteriore e plastico, e rapido come saetta:

                                         Dicono ed odono, e poi son giú vòlte.      
Le altre figure sono schizzi appena disegnati: ingegnoso è il ritratto di Gerione, che ha ispirato una delle piú belle ottave

dell’Ariosto.

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Noi concepiamo oramai la costruzione de’ singoli canti. Il poeta comincia col porci innanzi la natura del luogo e la qualitá della pena; il demonio ora precede, ora vien subito dopo; poi vedi peccatori presi insieme e misti, non ancora l’individuo, ma l’uomo collettivo; gruppi di mezzo a’ quali spesso si stacca l’individuo e tira la tua attenzione.

I gruppi sono l’espressione generale del sentimento che riempie i peccatori nella societá infernale; sono la parentela del delitto, dove trovi nello stesso lago di sangue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di strada Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.

Come nella natura e nel demonio, cosí ne’ gruppi l’aspetto è dapprima severo e tragico. Essi esprimono il sublime dello spirito, la disperazione. L’uomo ha bisogno di avere innanzi a sé qualche cosa a cui tenda; al pensiero succede pensiero; il cuore vive quando da sentimento germoglia sentimento; l’uomo vive quando è in un’onda assidua di pensieri e di sentimenti; la disperazione è rannullamento della vita morale, la stagnazione del pensiero e del sentimento, la morte, il nulla, il caos, le tenebre dello spirito, un sublime negativo. Come il sublime delle tenebre è nella luce che muore, il sublime della disperazione è nella morte della speranza:

                                         Nulla speranza gli conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
     

L’espressione estetica della disperazione è la bestemmia; violenta reazione dell’anima, innanzi a cui tutto muore, e che nel suo annichilamento involge l’universo:

                                              Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
l’umana spezie, il luogo, il tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
     

La passione trasforma la faccia dell’uomo, abitualmente tranquilla; il peccato gli siede sulla fronte e fiammeggia negli occhi: momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno ne’ suoi gruppi. Gli avari stanno col pugno chiuso, gl’irosi si lacerano [p. 187 modifica]le membra: violenza di moti appassionati, niente che sia basso o vile; puoi abbonirli, non puoi disprezzarli.

Immaginate una piramide. Nella larghissima base vedete la natura infernale. Piú su è il demonio, figura bestiale in faccia umana: bestia talora in tutto, ma in tutto uomo. Alzate ancora l’occhio, e vedete gruppi nella violenza della passione. È la stessa idea che si sviluppa e si spiritualizza; insino a che da questo triplice fondo si eleva sulla cima la statua, l’individuo libero, l’idea nella sua inviduale realtá e, piú che l’idea, se stesso nella sua libertá. E di mezzo a quella folla confusa, a quei gruppi, che escono i grandi uomini dell’inferno o piuttosto della terra; è da questa triplice base dell’eternitá che esce fuori il tempo e la storia e l’Italia e, piú che altri, Dante come uomo e come cittadino.