Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/VII. La Commedia/IV

VII. La Commedia - IV.

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iv

Entriamo in questo mondo, e guardiamolo in se stesso e interroghiamolo. Perché un argomento non è tabula rasa, dove si può scrivere a genio; ma è marmo giá incavato e lineato, che ha in sé il suo concetto e le leggi del suo sviluppo. La piú grande qualitá del genio è d’intendere il suo argomento, e diventare esso, risecando da sé tutto ciò che non è quello. Bisogna innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima o la sua coscienza. E parimente il critico, in luogo di porsi innanzi regole astratte, e giudicare con lo stesso criterio la Commedia e l’Iliade e la Gerusalemme e il Furioso, dee studiare il mondo formato dal poeta, interrogarlo, indagare la sua natura, che contiene in sé virtualmente la sua poetica, cioè le leggi organiche della sua formazione, il suo concetto, la sua forma, la sua genesi, il suo stile. Che cosa è l’altro mondo?

È il problema dell’umana destinazione sciolto, è il mistero dell’anima spiegato, è la fine della storia umana, il mondo perfetto, l’eterno presente, l’immutabile necessitá. Nella natura non ci è piú accidente, nell’uomo non ci è piú libertá. La natura è predeterminata e fissata secondo una logica preconcetta, secondo l’idea morale. Reale e ideale diventano identici, apparenza e sostanza è tutt’uno. L’uomo non ha piú libero arbitrio: è lí, [p. 170 modifica]fissato e immobilizzato, come natura. Ogni azione è cessata; ogni vincolo che lega gli uomini in terra è sciolto: patria, famiglia, ricchezze, dignitá, costumi. Non c’è piú successione né sviluppo, non principio e non fine: manca il racconto e manca il dramma. L’individuo scompare nel genere. Il carattere, la personalitá, non ha modo di manifestarsi. Eterno dolore, eterna gioia, senza eco, senza varietá, senza contrasto né gradazione. Non ci è epopea, perché manca l’azione; non ci è dramma, perché manca la libertá; la lirica è l’immutabile e monotona espressione di una sola aria; rimane l’esistenza nella sua immobile estrinsechezza, descrizione della natura e dell’uomo.

Che cosa è dunque l’altro mondo per rispetto all’arte? È visione, contemplazione, descrizione: una storia naturale.

Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero, perché ivi dentro è rappresentata la commedia o redenzione dell’anima nel suo pellegrinaggio dall’umano al divino, «da Fiorenza in popol giusto e sano». Ci hai dunque l’apparenza di un dramma, che si svolge nell’altro mondo, i cui attori sono Dante, Virgilio, Catone, Stazio, il demonio, Matilde, Beatrice, san Pietro, san Bernardo, la Vergine, Dio; dramma allegorico, come allegorica è la Commedia dell’anima. Dico «apparenza di un dramma», perché la santificazione nasce non dall’operare, ma dal contemplare, e Dante contempla, non opera, e gli altri mostrano, insegnano. Il dramma dunque svanisce nella contemplazione.

Questo mondo cosí concepito era il mondo de’ misteri e delle leggende, divenuto mondo teologico-scolastico in mano a’ dotti. Dante lo ha realizzato, gli ha dato l’esistenza dell’arte, ha creato quella natura e quell’uomo. E se il suo mondo non è perfettamente artistico, il difetto non è in lui, ma in quel mondo, dove l’uomo è natura e la natura è scienza, e da cui è sbandito l’accidente e la libertá, i due grandi fattori della vita reale e dell’arte.

Se Dante fosse frate o filosofo, lontano dalla vita reale, vi si sarebbe chiuso entro e non sarebbe uscito da quelle forme e da quell’allegoria. Ma Dante, entrando nel regno de’ morti, vi porta seco tutte le passioni de’ vivi, si trae appresso tutta la [p. 171 modifica]terra. Dimentica di essere un simbolo o una figura allegorica; ed è Dante, la piú potente individualitá di quel tempo, nella quale è compendiata tutta l’esistenza, com’era allora, con le sue astrattezze, con le sue estasi, con le sue passioni impetuose, con la sua civiltá e la sua barbarie. Alla vista e alle parole di un uomo vivo, le anime rinascono per un istante, risentono l’antica vita, ritornano uomini; nell’eterno ricomparisce il tempo; in seno dell’avvenire vive e si muove l’Italia, anzi l’Europa di quel secolo. Cosí la poesia abbraccia tutta la vita, cielo e terra, tempo ed eternitá, umano e divino; ed il poema soprannaturale diviene umano e terreno, con la propria impronta dell’uomo e del tempo. Riapparisce la natura terrestre come opposizione o paragone o rimembranza. Riapparisce l’accidente e il tempo, la storia e la societá nella sua vita esterna ed interiore; spunta la tradizione virgiliana, con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita; ed entro a questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo: Bonifazio ottavo, Roberto, Filippo il bello, Carlo di Valois, i Cerchi e i Donati, la nuova e l’antica Firenze, la storia d’Italia e la sua storia, le sue ire, i suoi odii, le sue vendette, i suoi amori, le sue predilezioni.

Cosí la vita s’integra, l’altro mondo esce dalla sua astrazione dottrinale e mistica, cielo e terra si mescolano; sintesi vivente di questa immensa comprensione Dante, spettatore, attore e giudice. La vita, guardata dall’altro mondo, acquista nuove attitudini, sensazioni e impressioni. L’altro mondo, guardato dalla terra, veste le sue passioni e i suoi interessi. E n’è uscita una concezione originalissima, una natura nuova e un uomo nuovo. Sono due mondi onnipresenti, in reciprocanza d’azione, che si succedono, si avvicendano, s’incrociano, si compenetrano, si spiegano e s’illuminano a vicenda, in perpetuo ritorno l’uno nell’altro. La loro unitá non è in un protagonista né in un’azione né in un fine astratto ed estraneo alla materia, ma è nella stessa materia; unitá interiore e impersonale, vivente indivisibile unitá organica, i cui momenti si succedono nello spirito del poeta, non come meccanico aggregato di parti separabili, ma penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi, com’è la vita. Questa [p. 172 modifica]energica e armoniosa unitá è nella natura stessa de’ due mondi, materialmente distinti, ma una cosa nell’unitá della coscienza. Cielo e terra sono termini correlativi: l’uno non è senza l’altro. Il puro reale ed il puro ideale sono due astrazioni: ogni reale porta seco il suo ideale, ogni uomo porta seco il suo inferno e il suo paradiso, ogni uomo chiude nel suo petto tutti gli dèi d’Olimpo: lo scettico può abolire l’inferno; non può abolir la coscienza. Appunto perché i due mondi sono la vita stessa nelle sue due facce, in seno a questa unitá si sviluppa il piú vivace dualismo, anzi antagonismo: l’altro mondo rende i corpi ombre, ombre gli affetti e le grandezze e le pompe; ma in quelle ombre freme ancora la carne, trema il desiderio, suonano d’imprecazioni terrene fino le tranquille vòlte del cielo. Gli uomini, con esso le loro passioni e vizi e virtú, rimangono eterni, come statue, in quell’attitudine, in quella espressione d’odio, di sdegno, di amore, che sono stati còlti dall’artista; ma mentre l’altro mondo eterna la terra, trasportandola nel suo seno e ponendole dirimpetto l’immagine dell’infinito, ne scopre il vano e il nulla: gli uomini sono gli stessi in un diverso teatro, che è la loro ironia. Questa unitá e dualitá, uscente dall’imo stesso della situazione, balena al di fuori nelle piú varie forme, ora in un’apostrofe, ora in un discorso, ora in un gesto, ora in un’azione, ora nella natura, ora nell’uomo: in questa unitá penetra la piú grande varietá, né è facile trovare un lavoro artistico in cui il limite sia cosí preciso e cosí largo. Niente è nell’argomento che costringa il poeta a preferire il tal personaggio, il tal tempo, la tale azione: tutta la storia, tutti gli aspetti sotto a’ quali si è mostrata l’umanitá sono a sua scelta; e può abbandonarsi a suo talento alle sue ire e alle sue opinioni, e può intramettere nello scopo generale fini particolari senza che ne scapiti l’unitá. Il che dá al suo universo compiuta realitá poetica, veggendosi nella permanente unitá tutto ciò che sorge e dalla libertá dell’umana persona e dall’accidente, e moversi con vario gioco tutt’i contrasti, e il necessario congiunto col libero arbitrio, e il fato col caso.

Adunque, che poesia è codesta? Ci è materia epica, e non è epopea; ci è una situazione lirica, e non è lirica; ci è un ordito [p. 173 modifica]drammatico, e non è dramma. È una di quelle costruzioni gigantesche e primitive, vere enciclopedie, bibbie nazionali; non questo o quel genere, ma il tutto, che contiene nel suo grembo ancora involute tutta la materia e tutte le forme poetiche, il germe di ogni sviluppo ulteriore. Perciò nessun genere di poesia vi è distinto ed esplicato: l’uno entra nell’altro, l’uno si compie nell’altro. Come i due mondi sono in modo immedesimati che non puoi dire: — Qui è l’uno e qui è l’altro; — cosí i diversi generi sono fusi di maniera che nessuno può segnare i confini che li dividono, né dire: — Questo è assolutamente epico e questo è drammatico. —

È il contenuto universale, di cui tutte le poesie non sono che frammenti, il «poema sacro», l’eterna geometria e l’eterna logica della creazione, incarnata ne’ tre mondi cristiani; la cittá di Dio, dove si riflette la cittá dell’uomo in tutta la sua realtá del tal luogo e del tal tempo; la sfera immobile del mondo teologico, entro di cui si movono tempestosamente tutte le passioni umane.

L’idea, che anima la vasta mole e genera la sua vita e il suo sviluppo, è il concetto di salvazione, la via che conduce l’anima dal male al bene, dall’errore al vero, dall’anarchia alla legge, dal moltiplice all’uno. È il concetto cristiano e moderno dell’unitá di Dio sostituita alla pluralitá pagana. Questo concetto, se fosse solo un di fuori, spiegato nella sua astrattezza dottrinale come pensiero, o rappresentato in forma allegorica come figurato, non basterebbe a generare un’opera d’arte. Ma qui è non solo il di fuori, ma il di dentro; non solo il significato e la scienza di quel mondo, opera di filosofo e di critico, ma principio attivo, com’è nell’uomo e nella natura, che costruisce e forma quel mondo e gli dá una storia e uno sviluppo. Questo principio attivo, se nella sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene o la virtú o la legge, come realtá viva e operosa è lo spirito, che ha per suo contrario la materia o la carne, dove sta come in una prigione o in un «vasello», da cui si sforza di uscire. La vita è perciò un antagonismo, una battaglia tra lo spirito e la carne, tra Dio e il demonio. [p. 174 modifica]E la sua storia è la progressiva vittoria dello spirito, la costui consapevolezza e libertá sotto le forme in cui vive, il suo successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi sino a Dio, assoluto spirito, la Veritá, la Bontá, l’Unitá, l’ultimo Ideale. Il concetto dantesco, lo spirito che abita per entro al suo mondo, è dunque la progressiva dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, l’emancipazione della materia e del senso mediante l’espiazione e il dolore, la collisione tra il satanico e il divino, l’inferno e il paradiso, posta e sciolta. Omero trasporta gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell’altro mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione; il reale, il presente è l’infinito spirito; tutto l’altro è «vanitá che par persona». Questo assottigliamento è progressivo: il velo si fa sempre piú trasparente. L’Inferno è la sede della materia, il dominio della carne e del peccato: il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre si continua nell’altro mondo e s’immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno, pena eterna. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole, la luce dell’intelletto, lo spirito: il terreno è rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via; e lo spirito, sciogliendosi dal corporeo, si avvia al compiuto possesso di sé, alla salvazione. Nel Paradiso l’umana persona scomparisce, e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce; piú si va su, e piú questa gloriosa trasfigurazione s’idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell’assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento:

                                   ...Tutta cessa
mia visione, ed ancor mi distilla
nel cuor lo dolce che nacque da essa.
     Cosí la neve al sol si disigilla;
cosí al vento nelle foglie lievi
si perdea la sentenzia di Sibilla.

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Questo concetto comprende tutto lo scibile e tutta la storia: non solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco, ma lo incontrate sempre vivo nel cammino intellettuale e storico della vita, sotto tutte le forme, in tutte le quistioni che si affacciano al poeta, in religione, in filosofia, in politica, in morale; e cosí si concreta e compie in tutti gl’indirizzi della vita. In religione è il cammino dalla lettera allo spirito, dal simbolo all’idea, dal vecchio al nuovo Testamento; nella scienza, dall’ignoranza e dall’errore alla ragione e dalla ragione alla rivelazione; in morale, dal male al bene, dall’odio all’amore, mediante l’espiazione; in politica, dall’anarchia all’unitá. Sottoposto alle condizioni di spazio e di tempo, diventa storia: il tale uomo, il tale popolo, il tale secolo. In religione vi sta innanzi la Chiesa romana, il papato, che il poeta vuole emancipare dalle cure e passioni terrene e ricondurre al suo fine spirituale; in filosofia avete la scienza volgare e la scienza della veritá in paradiso; in morale vi stanno innanzi le passioni, le discordie, le colpe e i vizi della barbara etá, dalle quali vi sentite a poco a poco allontanare nel vostro cammino verso il sommo bene; in politica è l’Italia anarchica e sanguinosa, che il poeta aspira a comporre a pace e concordia nell’unitá dell’impero. Cosí un solo concetto penetra il tutto, come forma, come pensiero e come storia. Mai piú vasta e concorde comprensione non era uscita da mente di uomo. Alcuni ci vedono dentro l’altro mondo, e il resto è una intrusione e quasi una profanazione; Edgardo Quinet rimane «choqué» veggendo come le passioni del poeta lo inseguono fino in paradiso; altri ci veggono un mondo politico, di cui quello sia la rappresentazione sotto figura. Chiamano questo poema o «religioso» o «politico» o «didascalico» o «morale»; lo riducono a querele di cattolici e protestanti, a dispute di guelfi e ghibellini. Guardano non dall’alto del monte, dalla pianura, e prendono per il tutto quello che incontrano nella diritta linea del loro cammino. Ciascuno si fabbrica un piccolo mondo e dice: — Questo è il mondo di Dante. — E il mondo di Dante contiene tutti quei mondi in sé. È il mondo universale del medio evo realizzato dall’arte.