Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/VII. La Commedia/VI

VII. La Commedia - VI.

../V ../VII IncludiIntestazione 20 novembre 2023 75% Da definire

VII. La Commedia - V VII. La Commedia - VII

[p. 187 modifica]

vi


L’inferno degl’incontinenti e de’ violenti è il regno delle grandi figure poetiche. Qui trovi, come in una galleria di personaggi eroici, Francesca, Farinata, Cavalcanti, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, Capaneo, Dante, il Fato, Dio e la Fortuna. Sono in presenza forze colossali, la energia della passione e la serenitá del fato. Qui è Francesca eternamente unita al suo Paolo, lá è la Fortuna che non ode le imprecazioni degli uomini e beata si gode. Ora ti percote il suono della divina giustizia che in eterno rimbomba, ora ti stupisce Capaneo che tra le fiamme oppone sé a tutte le folgori di Giove. Su questo fondo tragico s’innalza la libera persona umana e vi si spiega in tutta la ricchezza delle sue facoltá. Qui usciamo dalle astrattezze mistiche e scolastiche, e prendiamo possesso della realtá. La donna non è piú Beatrice, il tipo realizzato de’ trovatori, fluttuante ancora tra l’idea e la realtá; qui acquista carattere, storia, passioni, una ricca e vivace personalitá: è Francesca da Rimini, la prima donna del mondo moderno. L’uomo non è piú il santo con le sue estasi e le sue visioni; qui ha la sua patria, il suo uffizio, il suo partito, la sua famiglia, le sue passioni e il suo carattere: [p. 188 modifica]è Farinata, è Cavalcanti, è Brunetto Latini, è Pier delle Vigne, è Capaneo, è Dante Alighieri, alla cui fiera natura Virgilio applaude:

                                                                  Alma sdegnosa,
benedetta colei che in te s’incinse!
     

L’inferno dá loro una realtá piú energica, creando nuove immagini e nuovi colori. Pier delle Vigne giura «per le nuove radici del suo legno». Farinata dice:

                                         Ciò mi tormenta piú che questo letto.      
All’annunzio della morte del figlio, Cavalcanti
                                         supin ricadde e piú non parve fuora.      
Brunetto raccomanda il suo Tesoro, nel quale si sente vivere ancora. Capaneo può dire: «Qual i’ fui vivo, tal son morto». E Francesca ricorda il tempo felice nella miseria. L’inferno è il loro piedistallo, sul quale si ergono col petto e con la fronte, affermando la loro umanitá. Nascono situazioni e forine novissime, che dánno rilievo alle figure e a’ sentimenti.

Questo mondo tragico, dove l’impeto della passione e la violenza del carattere mette in gioco tutte le forze della vita, ha la sua perfetta espressione in questi grandi individui, rimasti cosí vivi e giovani e popolari come Achille ed Ettore. È il mondo della grande poesia, della epopea e della tragedia. E ora quale contrasto! Lasciamo appena le falde dilatate di foco e la rena che s’infiamma come esca sotto fucile, e ci troviamo in una pozzanghera che fa zuffa con gli occhi e col naso. Lasciamo i tragici demòni dell’antichitá, i centauri e le arpie; e incontriamo diavoli con le corna e armati di frusta, e vilissimi uomini che alle prime percosse scappano senza aspettar le seconde né le terze. In luogo di Capaneo con la fronte levata, il primo che vediamo ha gli occhi bassi, vergognoso di mostrarsi; e Dante, cosí riverente e pietoso finora e anche sdegnoso, diviene maligno e sarcastico, e compone per la prima volta il labbro ad un sorriso sardonico. Chiama «salse pungenti» quel letamaio

                                         che dagli uman privati parca mosso.      
[p. 189 modifica]Un altro lo sgrida:
                                                                       Perché se’ tu si ingordo
di riguardar piú me che gli altri brutti?
     
E Dante, che lo vede col capo lordo, tanto che non parea «s’era laico o cherco», gli ricorda crudelmente di averlo veduto in terra co’ capelli asciutti. E quegli esprime il suo dolore «battendosi la zucca». Tutto è mutato: natura, demonio e uomo, immagini e stile. Cadiamo in pieno plebeo. Chi sono questi uomini? Sono adulatori e meretrici dannati alla stessa pena: gli uni vendono l’anima, le altre vendono il corpo. Sentite che noi passiamo in un altro mondo, nel mondo de’ fraudolenti.

Esteticamente, il mondo de’ fraudolenti è la prosa della vita, precipitata dal suo piedistallo ideale e divenuta volgaritá. È la passione che si muta in vizio, il carattere che diviene abitudine, la forza che diviene malizia. La passione è poetica, perché ha virtú di concitare tutte le forze dell’anima, si ch’elle prorompano di fuori liberamente: il vizio è la passione fatta abitudine, ripetizione degli stessi atti, un fare perché si è fatto: è l’artista divenuto artefice, l’arte divenuta mestiere. L’uomo appassionato spiritualizza la sua azione, ci mette dentro se stesso; ma nel vizioso l’anima è sonnolenta, la sua azione è stupida materia, atto meccanico a cui lo spirito rimane estraneo. La passione produce il carattere, la forte volontá, che è la stessa passione in continuazione; il vizio ha compagna la fiacchezza e bassezza dell’anima, non essendo altro la bassezza che l’abdicazione e l’apostasia della propria anima. I grandi caratteri sicuri di sé hanno a loro istrumento la forza, impetuosi fino all’imprudenza, semplici fino alla credulitá; gli animi fiacchi hanno a loro istrumento la malizia, coscienza della loro impotenza, e, pipistrelli notturni, assaltano alle spalle e non osano guardare in viso.

In questo mondo il di fuori è mutato, perché mutato è il di dentro, ove non trovi piú caratteri e passioni, ma vizio, bassezza e malizia; lo spirito oscurato e materializzato, la dissoluzione della vita. A quei cerchi indeterminati, a quella cittá rosseggiante di Dite, nomi e figure terrene, succede un non so che, una cosa senza nome, che il poeta chiama bizzarramente [p. 190 modifica]«Malebolge»; una natura sformata e in dissoluzione: ripe scoscese, scogli mobili che fanno da ponticelli, e giú valloni paludosi, dove le acque finora impetuose e correnti stagnano e si putrefanno, valloni angusti, bolge, valigie, borse, che, stringendosi piú e piú, vanno a finire in un pozzo: natura piccola, in rovina e in putrefazione. Al demonio mitologico, iroso e appassionato, succede il diavolo cornuto, essere grotteeco, o piuttosto i diavoli che vanno in frotte, e si mescolano in ignobili parlari con la gente piú abietta, e canzonano e sono canzonati, maliziosi, bugiardi, plebei, osceni. Al vivo movimento delle bufere e delle grandini e delle fiamme succede la materia in decomposizione, quanti strazi di carne umana ti offrono i campi di battaglia e quante malattie ti offre lo spedale. Tali la natura, il demonio, le pene. Vedi ora l’uomo. La faccia umana è rimasta finora inviolata; innanzi all’immaginazione la passione invermiglia la faccia di Francesca, e la grandezza dell’anima pare nella faccia dell’uomo che si leva dritto dalla cintola in su. Qui la faccia umana sparisce: hai caricature e sconciature di corpi. Uomini cacciati in una buca, capo in giú, piedi in su; vólti travolti in su le spalle, si che il pianto scende giú per le reni; visi, occhi e corpi imbacuccati e incappucciati; musi umani fuor della pegola a modo di ranocchi; corpi, altri smozzicati, accismati, altri marciti e imputriditi, scabbiosi, tisici, idropici. Di questa figura umana deturpata e contraffatta l’immagine piú viva è Bertram dal Bornio, il cui busto si fa lanterna del suo capo che porta pesol per le chiome. In questo mondo prosaico e plebeo, che comincia con Taide e finisce con mastro Adamo, la materia ovvero la parte bestiale prevale tanto, che spesso siamo in sul domandarci: — Costoro sono uomini o bestie? — Non sono ancora bestie, e l’uomo giá muore in loro:

                                         Che non è nero ancora, e ’l bianco muore.      
Sono figure miste in una faccia tra bestiale e umana; e la piú profonda concezione di Malebolge è questa trasformazione dell’uomo in bestia e della bestia in uomo: hanno l’appetito e l’istinto della bestia, hanno la coscienza dell’uomo. Si sanno uomini e sono bestie; e qui è la pena: nella coscienza umana che loro è rimasta.
[p. 191 modifica]

La forma estetica di questo mondo è la commedia, rappresentazione de’ difetti e de’ vizi. Fra tanta fiacchezza della personalitá, il grande uomo, l’individuo, è gittato nell’ombra, e vien sii il descrittivo, l’esterioritá. Nell’inferno tragico le descrizioni sono sobrie e rapide, l’interesse principale è negli attori che prendono la parola: qui è un gregge muto, visto da lontano. Virgilio dice a Dante: — Vedi lá Mirra, vedi Giasone, vedi Manto. — Appena è se qualche epiteto ti segna in fronte alcuno de’ piú grandi personaggi, come si fa di Giasone:

                                         E per dolor non par lacrima spanda.      
Prima dite: «il canto di Francesca, di Farinata, di ser Brunetto Latini»; ora dite: «il canto de’ ladri, de’ falsari, de’ truffatori»: vi sono gruppi, non individui; vi è il descrittivo, manca il drammatico. Manca la grandezza negli attori e manca la pietá negli spettatori. La figura umana cosí torta, che il pianto degli occhi bagnava le natiche, cava a Dante lacrime; l’«homo Sum» si sente colpito in lui: ma Virgilio lo sgrida:
                                         ... Ancor se’ tu degli altri sciocchi?
     Qui vive la pietá, quand’è ben morta.
     
Abbonda il descrittivo: l’immaginazione di Dante è cosí robusta, che, avendo a fare con oggetti cosí fuori della natura, non che sentirsi impacciata, pare che scherzi, con tanta facilitá e spontaneitá esprime le piú varie e strane attitudini: la fiamma parla come lingua d’uomo, le zanche piangono e fremono. Il piú grande sforzo dell’immaginazione umana è la trasformazione di uomini in bestie, nel canto ventesimoquinto, quantunque la soverchia minutezza generi sazietá.

Fra tanti gruppi sorge qua e lá alcuno individuo in cui si sviluppa con piú chiara coscienza il concetto di Malebolge. Un lato serio di questo concetto è lo spirito che varca il limite assegnatogli. Se la ragione potesse

                                                                            veder tutto,
mestier non era partorir Maria.
     
[p. 192 modifica]L’esperienza avea le sue colonne d’Ercole; la ragione avea pure le sue colonne. Questo concetto qui è serio, non è sublime né tragico; perché l’uomo, che con la temeritá oraziana sforza la natura, è qui, non dirimpetto a Dio come Prometeo e Capaneo, ma colpito e soggiogato, senza che in lui paia vestigio di ribellione, di orgoglio e di violenza:
                                                                            Dove rui,
Anfiarao? perché lasci la guerra?
E non restò di ruinare a valle,
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
     
L’uomo di Orazio è sublime, perché lo vedi nell’opera, senti in lui la voluttá del frutto proibito, malgrado Dio e la natura. Anfiarao è un puro nome: sublime di terrore è quel suo precipitare a valle, mostrandocelo successivamente inabissarsi; ma il grottesco vien subito dopo:
                                              Mira c’ha fatto petto delle spalle:
perché volle veder troppo davante,
clirietro guarda e fa ritroso calle.
     
Ulisse, che ha varcato i segni di Ercole, è travolto nelle acque per giudizio di Dio, «come a lui piacque». Pure un po’ dell’audacia di Ulisse è ancora in Dante, che gli mette in bocca nobili parole, e ti fa sentire quell’ardente curiositá del sapere che invadeva i contemporanei. Ti par di assistere al viaggio di Colombo. Il peccato diviene virtú. Se la logica ghibellina pone in inferno l’autore dell’agguato contro Troia, radice dell’impero sacro romano, la poesia alza una statua a questo precursore di Colombo, che indica col braccio nuovi mari e nuovi mondi, e dice a’ compagni:
                                              Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtude e conoscenza.
     
[p. 193 modifica]
Ulisse è il grand’uomo solitario di Malebolge: è una piramide piantata in mezzo al fango. Il comico penetra da tutt’i lati,traendosi appresso il lordo, l’osceno, il disgustoso: lo spirito, divenuto malizia, è qui decaduto, degradato; e con lui si oscura la nobile faccia umana. Ulisse stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e fasciata dalle fiamme. Siamo in un mondo comico.

La regina delle forme comiche è la caricatura, il difetto còlto come immagine e idealizzato. Al che si richiede che il personaggio operi ingenuamente e brutalmente, come non avesse coscienza del suo difetto, a quel modo che si vede in Sancio Panza e in don Abbondio, eccellenti caratteri comici. I dannati di Malebolge sono cosí fatti: essi sono cinici e perciò ridicoli, come i diavoli nel canto ventesimosecondo, rissosi, abietti, vanitosi, bassamente feroci ne’ loro atti. Cosi sono i ladri, i truffatori, i barattieri; plebe in cui il vizio è cosí connaturato, che non se ne accorge piú. Tale è Nicolò terzo, vano del suo «papale ammanto», che crede Dante venuto nell’inferno apposta per veder lui. Tali sono pure Sinone e maestro Adamo. Essi si mostrano nella loro naturalezza, e possono essere rappresentati nella forma diretta e immediata, isolando il difetto dagli accessorii e idealizzandolo, divenuto un contromodello, l’immagine opposta a quel tipo, a quel modello di perfezione che ciascuno ha in mente: qui è la caricatura. Le concezioni di Dante sono di un comico plebeo della piú bassa lega: sia esempio la rissa tra Sinone e maestro Adamo. Si rimane nel buffonesco, l’infimo grado del comico. Quest’uomo, cosí possente creatore d’immagini nell’inferno tragico, qui si sente arido, freddo, in un mondo non suo. Le situazioni sono comiche, ma il comico è rozzamente formato e non è artistico: non ha la sua immagine, che è la caricatura, né la sua impressione, che è il riso. Due persone in rissa cadono in un lago d’acqua bollente che li divide. Situazione comica, se mai ce ne fu. Il poeta dice:

                                         Lo caldo sghermidor subito fue.      
[p. 194 modifica]
Espressione vivace, ma che non sveglia nessuna immagine e ti lascia freddo. Non ha saputo cogliere quel movimento, quella
smorfia che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono. La pancia di maestro Adamo, che sotto il pugno di Sinone «sonò come fosse un tamburo», è una felice caricatura; ma è una

freddura il dire:

                                         E mastro Adamo gli percosse ’l volto
col pugno suo, che non parve men duro.
     
Manca spesso a Dante la caricatura, e i suoi versi piú comici non fanno ridere. Perché, a fare la caricatura, bisogna fermare l’immaginazione nell’oggetto comico, spassarcisi, obbliarsi in quello, alzarlo a contromodello. Dante non ha questo sublime obblio comico, non ha indulgenza né amabilitá. Teme di sporcarsi tra quella gente; e se ode, se ne fa rimproverare da Virgiglio; e se ci sta, se ne scusa:
                                         Ahi fiera compagnia! ma nella chiesa
coi santi ed in taverna coi ghiottoni.
     
Il suo riso è amaro; di sotto alla facezia spunta il disdegno, e spesso nella mano la sferza gli si muta in pugnale.

Il riso muore quando il personaggio comico ha coscienza del suo vizio e, non che sentirne vergogna, vi si pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo. Allora non sei tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo proprio artista, che si orna del suo difetto come di un manto reale, e se ne incorona e se ne fa un’aureola, atteggiandosi e situandosi nel modo piú acconcio a dire: — Miratemi; — piú acconcio a dare spicco al suo vizio. La bestia non cela il suo vizio e non arrossisce: il rossore è proprio della faccia umana. L’uomo, consapevole del suo difetto, che vi si pone al di sopra, rinuncia alla faccia umana e dicesi «sfacciato» o «sfrontato». Qui la caricatura uccide se stessa: il comico, giunto alla sua ultima punta, si scioglie; e n’esce un sentimento di supremo disgusto e ribrezzo, che è il sublime del comico: la propria abiezione, predicata e portata in trionfo, aggiunge al disgusto un sentimento che tocca quasi l’orrore. Qui Dante è nel suo campo. Il suo eroe è Vanni Fucci. Maestro Adamo è come animale, senza coscienza della sua bassezza; [p. 195 modifica]Vanni Fucci ha avuto la coscienza e l’ha soffocata. Sono i due estremi nella scala del vizio: l’uno non è mai salito fino all’uomo; l’altro è passato per l’uomo ed è ricaduto nella bestia. Si sente bestia, e si pone come tipo bestiale, e sceglie le circostanze piú acconce a darvi risalto:

                                              Vita bestiai mi piacque e non umana,
si come a mul ch’io fui. Son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.
     
Ecco l’uomo che fa le fiche a Dio, il Capaneo di Malebolge, l’umano divenuto bestiale e idealizzato come tale.

Ma l’umano non muore mai in tutto. L’uomo diviene bestia, ma la bestia torna uomo. E, con senso profondo, Dante anche sulla faccia sfrontata di Vanni Fucci scoperto ladro gitta il rossore della vergogna:

                                         E di trista vergogna si dipinse.      
L’uomo che ha coscienza del suo vizio e se ne vergogna, in luogo di mostrarlo al naturale (ciò che produce la caricatura), cerca occultarlo sotto contraria apparenza: il poltrone fa il bravo. Nasce il contrasto tra l’essere e il parere: la situazione divien comica, e la sua forma è l’ironia. Lo spettatore indulgente e che vuole spassarsi a sue spese finge di crederlo e di secondarlo, accetta come seria l’apparenza che si da, anzi la carica ancora di piú: fa il bravo, ed egli lo chiama un «Orlando», ma accompagnando le parole di un cotale ammiccar d’occhi che esprima scambievole intelligenza, di un tuono di voce in falsetto, di un riso equivoco, che vuol dire: — Io ti conosco. — Perciò l’essenziale dell’ironia non è nell’immagine ma nel sottinteso: è il riflesso che succede allo spontaneo; immagine sottilizzata nel sentimento. Forma delicata, perché lo spettatore, alla vista del difetto che altri cerca di mascherare, non sente collera, non gli strappa la maschera dal viso, anzi se la mette egli stesso e serba una compostezza e una pulitezza, equivoca ne’ movimenti e ne’ gesti. Forma di tempi civili, assai rara nelle etá barbare e nelle poesie primitive. Dante, accigliato, brusco, tutto di un pezzo, com’è ne’ suoi ritratti, ha troppa bile e collera, e non è buono né alla caricatura né all’ironia. Ma dalla sua fantasia d’artista è uscita una di quelle creazioni che sono le grandi scoperte nella storia dell’arte, un mondo nuovo; il «nero cherubino», che strappa a san Francesco l’anima di Guido da Montefeltro, è il padre di Mefistofele. Egli crea il diavolo, gli dá il suo concetto e la sua funzione. Il diavolo è l’ironia incarnata: non ci è uomo tanto briccone che il diavolo non sia piú briccone di lui; e capite che non è disposto a guastarsi la bile per le bricconerie degli uomini. L’uomo può ingannare un altro uomo, ma non può ficcarla al diavolo, perché il diavolo nel suo senso poetico è lui stesso, la sua coscienza che risponde con un’alta risata a’ suoi sofismi, e gli fa il controsillogismo, e gli dice beffandolo:
[p. 196 modifica]
                                                                                 Forse
tu non pensavi ch’io loico fossi!
     

Il brutto come il bello muore nel sublime. E il brutto è sublime quando offende il nostro senso morale ed estetico e ci gitta in violenta reazione. Scoppia la collera, l’indignazione, l’orrore: il comico è immediatamente soffocato. Quando veggo un difetto rivelarsi all’improvviso, uso la caricatura. Quando veggo un difetto che cerca mascherarsi, prendo la maschera anch’io e uso l’ironia. Ma quando quel difetto mi offende, mi sfida, mi provoca, si mette dirimpetto a me come contraddizione al mio intimo senso, la mia coscienza, cosí audacemente negata e contraddetta, reagisce: io strappo al vizio la maschera e lo mostro qual è, nella sua laida nuditá. La caricatura e l’ironia si risolvono in una forma superiore, il sarcasmo: la porta per la quale volgiamo le spalle al comico e rientriamo nella grande poesia.

Nel sarcasmo caricatura e ironia riappariscono, ma per morire: nasce la caricatura, ed è guastata; spunta la maschera, ed è strappata. E la morte viene da questo: che nella forma sarcastica del brutto ci è l’idea che l’uccide, il suo contrario. Nel canto de’ simoniaci il sarcasmo fa la sua splendida apparizione. Il comico muore sotto l’ira di Dante. L’antitesi tra quello che [p. 197 modifica]è di fuori e quello che è nella sua anima scoppia in ravvicinamenti innaturali, come «calcando i buoni e sollevando i pravi», «Dio d’oro e d’argento»; e spesso in parole a doppio contenuto, che è l’immagine del sarcasmo. Tale è la parola rimasa proverbiale, con che è qualificata la servilitá della Chiesa. Parimente chiama «adulterio» la simonia e «idolatria» l’avarizia; parole nelle quali entrano come elementi la santitá del matrimonio e il vero Dio: in una sola immagine c’è il brutto e ci è l’idea che lo condanna.

Ma il sarcasmo dee purificare e consumare se stesso. Finché rimane nel particolare e nel personale, il linguaggio è acre, bilioso: hai Giovenale e Menzini. Il poeta, non che rimanere imprigionato in quello spettacolo, dee spiccarsene, porcisi al di sopra, allargare l’orizzonte, essere eloquente, voce di veritá, espressione impersonale della coscienza. Certo, in quel canto de’ simoniaci vive immortale la vendetta dell’uomo ingannato che anticipa a Bonifazio l’inferno, e del ghibellino e del cristiano che vede nel papato temporale una pietra d’inciampo e di scandalo. Ma i sentimenti e le passioni personali, se hanno ispirato il poeta e resa terribilmente ingegnosa la sua fantasia, non penetrano nella rappresentazione. Bisogna sapere la storia per indovinare i terribili incentivi dell’alta creazione. Ciò che qui senti è la convinzione, la buona fede del poeta, la sinceritá e l’impersonalitá della sua collera: onde sgorga dal suo labbro eloquente tanta magnificenza d’immagini e di concetti. Prima Dante è in collera con Niccolò, pinto, in pochi tratti, vano, piccolo, col cervello e co’ sensi nel piede. E comincia col «tu», e l’assale corpo a corpo, con ironia amara che si trasforma nel pugnale del sarcasmo:

                                              E guarda ben la mal tolta moneta,
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.
     

Ma nel pendio dell’ingiuria si contiene d’un tratto; passaggio meritamente ammirato: la piccola persona di Niccolò scomparisce; sottentra il «voi», i papi, il papato; le idee guadagnano di ampiezza senza perdere di energia, e da ultimo la collera [p. 198 modifica]svanisce in una certa tristezza pura di ogni stizza; è un deplorare, non è piú un inveire:

                                              Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!
     

Tale è Malebolge: miniera inesausta di caratteri comici, concezione delle piú originali, dove il comico è posto ed è sciolto. Poco felice nel maneggio delle forme comiche, il poeta è insuperabile quando se ne sviluppa, mutato il riso in collera, come nella sua invettiva, nella pena di Bertram dal Bornio, nella rappresentazione di Vanni Fucci. Rimane un fondo comico che aspetta ancora il suo artista. Pure in quella materia appena formata vive immortale il suo «nero cherubino».

Nel pozzo de’ traditori la vita scende di un grado piú giú: l’uomo bestia diviene l’uomo ghiaccio, l’essere petrificato, il fossile. In questo regresso dell’inferno, in questo cammino a ritroso dell’umanitá, siamo giunti a quei formidabili inizi del genere umano, regno della materia stupida, vuota di spirito, il puro terrestre, rappresentato ne’ giganti, figli della terra, nella loro lotta contra Giove, natura celeste e spirituale, inferiore di forza fisica, ma armato del fulmine:

                                                                                 cui minaccia
Giove dal cielo ancora, quando tuona.
     
Con questo mito concorda la storia biblica degli angeli ribelli. Qui all’ingresso trovi i giganti; alla fine Lucifero: mitologia e Bibbia si mescolano, espressioni della stessa idea. La lotta è finita: i giganti sono incatenati; Lucifero è immenso e stupido carname, il gradino infimo nella scala de’ demòni. Il gigantesco è la poesia della materia; ma qui, vuoto e inerte, è prosa. Tra’ giganti e Lucifero stanno i dannati fitti nel ghiaccio. Le acque putride di Malebolge, ventate dalle enormi ali di Lucifero, si agghiacciano, s’indurano, diventano mare di vetro, di dentro a cui traspariscono come festuche i traditori contro i congiunti nella Caina, contro la patria nell’Antenora, contro gli amici nella Tolomea, e contro i benefattori nella Giudecca. La pena è una, ma graduata secondo il delitto. II movimento si estingue a poco a poco, la vita si va petrificando, finché cessa in tutto la lacrima, la parola e il moto. L’immagine piú schietta di questo mondo cristallizzato è il teschio dell’arcivescovo Ruggieri, inanimato e immobile sotto i denti di Ugolino.
[p. 199 modifica]

L’Ugolino è una delle piú straordinarie e interessanti fantasie. È per lui che la vita e la poesia entra in questo mare morto, dove la natura e il demonio e l’uomo é materia stupida e senza interesse. Come concetto morale, il tradimento è la colpa piú grave; ma qui manca l’organo della colpa: il grido della coscienza sembra agghiacciato insieme col colpevole. Questo grido può uscire dal petto concitato di Dante spettatore, come è giá avvenuto in Malebolge, dove l’invettiva di Dante risolve il comico. Qui ci è di meglio. Tra questi esseri petrificati Dante gitta il suo Ugolino, ghiacciato con gii altri, come traditore egli pure; ma col capo sul capo di Ruggieri, perché insieme egli è il suo tradito e il suo carnefice. È la vittima che qui alza il grido contro il traditore, e gli sta eternamente co’ denti sul capo, saziando in quello il suo odio, istrumento inconscio della vendetta di Dio. Cosi è nato l’Ugolino, il personaggio piú ricco, piú moderno, piú popolare di Dante, dove l’analisi è piú profonda e piú sviluppata, nelle sue straordinarie proporzioni cosí umano e vero.

Prendete ora una carta topografica dell’inferno, e guardate questa piramide capovolta, a forma d’imbuto. Vedete l’immensa base alla cima, senza figura altra che di cerchi, fra le tenebre eterne; e poi quei cerchi prendon figura di cittá rosseggiante di fiamme, e la cittá di bolgia putrida e puzzolenta, e la bolgia di pozzo entro il quale è petrificata la natura: in cima l’infinito, alla fine il tristo buco

                                         sovra ’l qual puntali tutte l’altre rocce;      
e voi avete cosí l’immagine visibile di questo inferno estetico. Gli è come nelle rivoluzioni. Nel primo entusiasmo tutto è grande; poi vien fuori il sanguinario, il feroce, l’orribile; finché da’ piú bassi fondi della societá sale sú il laido, l’abietto e il plebeo. Questa decomposizione e depravazione successiva della vita è l’Inferno.
[p. 200 modifica]

L’Inferno è l’uomo compiutamente realizzato come individuo, nella pienezza e libertá delle sue forze. E può misurare la grandezza dell’opera chi vede gli abbozzi di Dino Compagni, o lo scarno Ezzelino, o le rozze formazioni de’ misteri e delle leggende. L’individuo era ancora astratto e impigliato nelle formole, nelle allegorie e nell’ascetismo. In quelle vuote generalitá ci è la donna e l’uomo, come genere, come simbolo, come l’anima: manca l’individuo. E manca tanto, che spesso non ha un nome, ed è la «mia donna» o «un giovine», «un santo uomo». Non un nome solo era rimasto vivo nel mondo dell’arte, fra tante liriche e leggende. Dante volea scrivere il mistero dell’anima; si cacciò tra allegorie e formole: ed ecco uscirgli dalla fantasia l’individuo, valente e possente, nel rigoglio e nella gioventú della forza, spezzato il nòcciolo dove lo avea chiuso il medio evo. I pittori disegnavano santi e cupole, i filosofi fantasticavano sull’ente, i lirici platonizzavano, gli ascetici contemplavano e pregavano: Dante pensava l’inferno; e lá, tra’ furori della carne e rinfuriar delle passioni, trovava la stoffa di Adamo, l’uomo com’è impastato con la sua grandezza e con la sua miseria, e non descritto ma rappresentato e in azione, e non solo ne’ suoi atti ma ne’ suoi motivi piú intimi. Cosi apparvero sull’orizzonte poetico Francesca, Farinata, Cavalcanti, la Fortuna, Pier delle Vigne, Brunetto, Capaneo, Ulisse, Vanni Fucci, il «nero cherubino», Niccolò terzo e Ugolino. Tutte le corde del cuore umano vibrano. Vedi, attorno a questa schiera d’immortali, turba infinita di popolo nella maggior varietá di attitudini, di forme, di sentimenti, di caratteri, che ti passano avanti, alcuni appena sbozzati, altri numero e nome, altri segnati in fronte di qualche frase indimenticabile, che li eterna, come Taide, Mosca, Giasone, Omero, Aristotile, papa Celestino, Bonifazio, Clemente, Bruto, Bocca degli Abati, Bertram dal Bornio.

Nel regno de’ morti si sente per la prima volta la vita del mondo moderno. Come è bella la luce, «il dolce lome», a Cavalcanti! Quanta malinconia è in quella selva de’ suicidi, spogliata del verde! Come è commovente Brunetto, che raccomanda [p. 201 modifica]a Dante il suo Tesoro, e Pier delle Vigne che gli raccomanda la sua memoria! Come ride quel giardino del peccato innanzi a Francesca! Col vivo sentimento della dolce vita, della bella natura, è accompagnato il sentimento della famiglia. Quel padre che cade supino udendo la morte del figlio; e Ugolino che, dannato a morire di fame, guarda nel viso a’ figliuoli; e Anselmuccio che gli domanda: — Che hai? — e Gaddo che gli dice: — Perché non mi aiuti? — sono scene solitarie della poesia italiana. Ciascuno è in una situazione appassionata. I sentimenti, spinti alla punta, idealizzano e ingrandiscono gli oggetti. Tutto è colossale, e tutto è naturale. E in mezzo torreggia Dante, il piú infernale, il piú vivente di tutti; pietoso, sdegnoso, gentile, crudele, sarcastico, vendicativo, feroce; col suo elevato sentimento morale, col suo culto della grandezza e della scienza anche nella colpa, col suo dispregio del vile e dell’ignobile; aito sopra tanta plebe; cosí ingegnoso nelle sue vendette, cosí eloquente nelle sue invettive.

Queste grandi figure, lá sul loro piedistallo rigide ed epiche come statue, attendono l’artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto della vita, e le faccia esseri drammatici. E l’artista non fu un italiano: fu Shakespeare.