Storia della geografia e delle scoperte geografiche (parte seconda)/Capitolo VI/Cina propria
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34. Cina propria. — In questa immensa regione dell’Asia Orientale Marco Polo distingue due parti, il Cataio cioè e la provincia di Mangi, la prima delle quali a settentrione, la seconda a mezzogiorno dell’Hoang-ho o Fiume Giallo. Dell’una e dell’altra egli descrive con colori vivaci le ricchezze naturali, i poderosi fiumi, le smisurate città, i prodotti industriali, la densa popolazione, le grandi flotte che ne percorrevano i mari e le acque interne, le opere pubbliche destinate a mettere tra loro in comunicazione le arterie fluviali che formano uno dei principali caratteri della geografia cinese. Nel capitolo dedicato alla provincia di Setsciuen, che Marco chiama Sindafa (Sindinfu nel testo Ramusiano), ed ha per capoluogo Tscingtu-fu (Sardafu o Sindinfu del Polo), si legge che «per questa città scorrono molti grandi fiumi, che discendono dai monti dì lontano, e corrono per la città intorno, e per mezzo in molte parti. Questi fiumi sono larghi per mezzo miglio, altri per dugento passi, e sono molto profondi... E quando i detti fiumi si partono dalla città, si ragunano insieme e fanno un grandissimo fiume che viene detto Quian, quale scorre per cento giornate sino al Mare Oceano»1. Il fiume di cui è parola, non è il Kincia-Kiang o Jang-tse-Kiang, bensì il Min, che scorre da settentrione a mezzodì, e, quantunque semplice affluente del gigantesco fiume della Cina centrale, venne per grandissimo tempo considerato come la principale arteria fluviale di quel grande bacino; del che debbesi ricercare la ragione nella comunanza di civiltà tra gli abitanti della valle del Min e quelli dello Jang-tse-Kiang inferiore, di guisa che il gran fiume, proveniente dalle alpestri regioni del Tibet orientale popolate da famiglie selvaggie e temute, pareva ai Cinesi che provenisse da una specie di mondo a parte, e il Kiang «Fiume per eccellenza» dovesse scorrere tutto quanto nel dominio di paesi civilizzati. Nelle antiche carte si vede difatti soppresso tutto il corso superiore del Kincia-Kiang, mentre l’Hoang-ho è tracciato in maniera da apparire molto più importante del suo fiume gemello. Del resto la descrizione di Marco Polo è precisamente conforme al vero, giacchè la pianura nel cui centro è la città di Tscingtu, a mezza distanza dalla riva sinistra del Min alla destra del To-kiang, altro affluente considerabile dello Jangtse, è irrigata da numerosi fiumi, i principali dei quali, riunendosi in un solo letto, tributano al Min, ed anzi a questi fiumi e ai canali che ne derivano essa pianura deve in gran parte la sua fertilità prodigiosa.
La somma importanza dello Jangtse nel commercio interno della Cina è resa manifesta nel capitolo LXIII, in cui si legge: «Il fiume nominato Quian è il maggior fiume che sia in tutto il mondo: la sua larghezza è, in alcuni luoghi, di dieci miglia, in altri otto e sei. E per lunghezza fin dove mette capo al mare Oceano sono da cento e più giornate. In detto fiume entrano infiniti altri fiumi che scorrono da altre regioni, tutti navigabili, che lo fanno esser così grosso. E sopra quello infinite città, e castella, e vi sono oltre dugento città, e provincie sedici, che partecipano sopra di quello, per il quale corrono tante mercanzie d’ogni sorta, che è quasi incredibile a chi non l’avesse vedute. Ma avendo sì lungo corso, dove riceve (come abbiamo detto) tanti numerosi fiumi navigabili, non è meraviglia, se la mercanzia, che per quello corre da ogni banda di tante città, è innumerabile e di gran ricchezza».
Più che in qualsiasi altro luogo del Libro, l’ammirazione e lo stupore di Marco si manifestano nella descrizione di Quinsay, che egli chiama «la nobilissima città, senza fallo la più nobile e la migliore che sia al mondo», ed anzi i particolari che ce ne fornisce sono tali, che possiamo spiegarci facilmente lo scherno con cui i suoi racconti furono accolti in Europa. «Questa città, egli dice, ha per comune opinione cento miglia di circuito, perchè le strade ed i canali sono molto larghi ed ampli. Poi vi sono piazze dove fanno mercato, che per la grandissima moltitudine che vi concorre è necessario che siano grandissime e amplissime... E le strade e canali sono larghi, e grandi, che comodamente vi possono passar barche e carri a portar le cose necessarie agli abitanti, ed è fama che vi siano dodicimila ponti fra grandi e piccoli. Ma quelli che sono fatti sopra i canali maestri e le strade principali sono stati voltati tanto alti e con tanto magistero, che una nave vi può passare sotto senz’albero, e nondimeno vi passano sopra carrette e cavalli, talmente sono accomodate piane le strade con l’altezza, e se non vi fossero in tanto numero, non si potria andare da un luogo all’altro. Ciascuno dei dodicimila ponti è guardato da dieci uomini di dì e di notte... Vi si contano ben tremila bagni che sono i più belli del mondo, e i più grandi, essendo capaci ciascuno di cento persone... Ivi sono dieci piazze principali che sono quadre, cioè mezzo miglio per lato. E dalla parte davanti di quelle v’è una strada principale, larga quaranta passi, che corre dritta da un capo all’altro della città; e ogni quattro miglia si trova una di queste piazze che hanno di circuito (come è detto) due miglia. Vi è similmente un canale larghissimo che corre all’incontro di detta strada dalla parte di dietro delle dette piazze, sopra la riva vicina del quale vi sono fabbricate case grandi di pietra, dove ripongono tutti i mercanti, che vengono d’India, e d’altre parti, le loro robe e mercanzie, acciocchè le siano vicine e comode alle piazze. E in ciascuna di dette piazze, tre giorni alla settimana, vi è concorso di quaranta in cinquantamila persone, che vengono al mercato, e portano tutto ciò che si possa desiderare al vivere... Essendosi trovato M. Marco in questa città di Quinsai quando si rendè conto ai fattori del Gran Can delle entrate, e numero degli abitanti, ha veduto, che sono stati descritti 160 toman di fuochi, computando per un fuoco la famiglia che abita in una casa; e ciascun toman contiene diecimila, sì che in tutta la città sariano famiglie un milione e seicentomila».
Prima di chiudere la lunga descrizione di Quinsai (Hangceu della geografia cinese), il Polo dice che essa è lontana dal mare 25 miglia tra greco e levante, e che sulle rive del mare è la città detta Gampù con un bellissimo porto al quale arrivano tutte le navi che vengono dall’India con mercanzie, e aggiunge: «Il fiume che viene da Quinsai entrando in mare fa questo porto; e tutto il giorno le navi di Quinsai vanno su e giù con mercanzie, e ivi caricano sopra altre navi, che vanno per diverse parti dell’India e del Cataio». Una città murata sulla riva settentrionale della baia dello Tsciekiang porta ancora il nome di Kanpu, ma si crede che l’antica città di Ganfu, Gampu o Kanpu, della quale parla Marco Polo come porto marittimo di Quinsay e di tutto il paese circostante, sia stata coperta dalle acque della baia, essendosi in questo luogo esteso il mare notabilmente a spese della terraferma.
Per la importanza del suo commercio marittimo, la città di Zaitum o Zaiton (Tsuantscieu) superava la stessa Quinsai. «Zaitum, dice Marco Polo, ha un porto sopra il Mare Oceano molto famoso per il capitare, che fanno ivi tante navi con tante mercanzie, le quali si spargono per tutta la provincia di Mangi: e vi viene tanta quantità di pepe, che quella che viene condotta da Alessandria alle parti di Ponente è una minima parte, e quasi una per cento a comparazione di questa, e sarìa quasi impossibile di credere il concorso grande di mercanti, e mercanzie a questa città per essere questo uno dei maggiori, e più comodi porti, che si trovino al mondo»2. Ibn Batuta (secolo XIV), il più celebre di tutti i viaggiatori arabi, dice pure di questa città di Zaiton: «Il porto di Zaiton è uno dei più grandi del mondo, ed anzi, ne sono certo, il più grande di tutti». In allora esso poteva contenere tante navi, che i suoi mercanti, in occasione di una guerra col Giappone, si vantavano di poter gettare un ponte di battelli tra il loro porto e l’arcipelago del Sole Levante. Ma la rada di Tsuantscieu a poco a poco venne colmata dalle sabbie, ed il commercio si rivolse più al sud nella vasta baia di Amoi, la quale pare fosse nota egualmente sotto il nome di Zaiton, come dipendenza commerciale di Tsuantscieu, al cui distretto essa appartiene.
Il fiume, detto dai Cinesi Hoang-ho, il quale divide collo Jangtse il primato fra tutti i fiumi della Cina, porta nel Libro di Marco Polo il nome di Caramoran (Charamera, Caracoron, ecc. in altri Codici), e vi è descritto come tanto grande, largo e profondo, che sopra di esso non si può formare alcun ponte: appresso questo fiume sono molte città e castella, nelle quali sono molti mercanti, e vi si fanno molte mercanzie3. E, in un altro luogo si legge: «Compiute le dette sedici giornate (dalla città di Singuimatu nella direzione del sud) si trova di nuovo il gran fiume Caramoran, che scorre dalle terre del Re Umcan, nominato di sopra il Prete Gianni di tramontana, quale è molto profondo, che vi può andare liberamente navi grandi, con tutti i suoi carichi. In questo fiume appresso al Mare Oceano una giornata, si trovano da quindicimila navili, che portano ciascuno di loro quindici cavalli e venti uomini, oltre la vettovaglia, e li marinari che li governano, e questi tiene il Gran Cane, acciocchè siano apparecchiati per portare un esercito ad alcuna delle isole che sono nel mare Oceano, quando si ribellassero, ovvero in qualche regione remota e lontana»4.
Antichi autori Cinesi chiamano l’Hoang-ho col nome di Nihho, che vale il «Fiume incorreggibile», e ciò per causa delle piene disastrose cui esso va soggetto: probabilmente più che al colore delle acque, allude ai suoi temuti straripamenti il nome di Kara-muren o Fiume nero, col quale lo conoscono comunemente i Mongoli, e che vediamo, con poca variante, usato dal nostro immortale viaggiatore.
Dei canali artificiali che, alimentati dai numerosi affluenti dell’Hoang e dello Jangtse, intersecano, in ogni direzione, la Cina propria, e favoriscono straordinariamente le relazioni commerciali tra i più lontani luoghi di questa vasta regione, Marco discorre ampiamente in diversi capitoli del Libro. Valga, a solo esempio, ciò che egli dice a proposito del canale famoso, comunemente detto Canale Imperiale. «Dentro la città di Singuimatu, dalla banda di mezzodì, passa un fiume grande e profondo, quale dagli abitanti è stato diviso in due parti, una delle quali, che scorre alla volta di levante, tende verso il Cataio, e l’altra, che va verso ponente, alla provincia di Mangi. In questo fiume vi navigano tanto numero di navili, che pare incredibile, e si portano da queste provincie, cioè dall’una all’altra, tutte le cose necessarie». E, più avanti: «Chaygui (Kuatsceu) è una piccola città appresso il sopradetto fiume (Jangtse) verso la parte di scirocco, dove ogni anno si raccoglie grandissima quantità di biade e risi, e portasi la maggior parte alla città di Cambalu (Khanbalik, Peking), per fornire la corte del Gran Can, perciocchè passano da questa città alla provincia del Cataio per fiumi e per lagune, e per una fossa profonda e larga, che il Gran Can ha fatto fare, acciocchè le navi abbiano il transito da un fiume all’altro, e che dalla provincia di Mangi si possa andare per acqua fino in Cambalu senza andar per mare»5. Come bene osserva il Reclus, «questa via di navigazione non è come i nostri canali d’Europa, il Canal du Midi quello del Göta, una trincea da versante a versante, che sale per gradini successivi e ridiscende nello stesso modo; è invece una serie di letti fluviali abbandonati, di laghi di paludi riuniti gli uni agli altri mediante tagli di poca importanza. Kublai Khan non ebbe che da riunire fiume a fiume, stagno a stagno per farne un corso navigabile, il Jun-ho o Fiume dei Trasporti. Del resto, molto prima di quel tempo, i battellieri trasportavano le loro derrate dalla regione dell’Jangtse a quella del Pei-ho, ma dovevano scaricare le barche in molti punti e continuare penosamente il trasporto a piedi sopra le conche. Secondo le alternative delle piene e delle magre, la via doveva essere spostata: l’itinerario tra il Jangtse e la Cina settentrionale non era mai esattamente lo stesso. Ma, quantunque il canale fosse, già per se stesso, indicato da laghi e da rami fluviali, e fosse stato più o meno utilizzato in ogni tempo, il lavoro speso per la manutenzione di questa via navigabile non è però meno prodigioso....»6.
A favorire il commercio tra paese e paese concorrevano, insieme coi canali e coi fiumi navigabili, le numerose strade maestre e secondarie, le quali, partendo da Cambalu, conducevano alle diverse provincie. Di questo importante servizio parla lungamente Marco Polo nel Capitolo XX del Libro 2°, dal quale togliamo le cose che seguono: «Uscendo dalla città di Cambalu, vi sono molte strade e vie per le quali si va a diverse provincie; e in ciascuna strada, dico di quelle che son le più principali e maestre, sempre in capo di venticinque miglia, o trenta, e più meno, secondo le distanze delle città, si trovano alloggiamenti, che nella loro lingua si chiaman Jamb, che nella nostra vuol dire poste, dove sono palazzi grandi e belli.... Quivi sono di continuo apparecchiati quattrocento cavalli, acciocchè tutti li nunzi ed ambasciatori che vanno per le faccende del Gran Can possano smontare quivi, e lasciati i cavalli stracchi pigliarne dei freschi. Ne’ luoghi veramente fuor di strada e montuosi, dove non sono villaggi, e che le città siano lontane, il Gran Can ha ordinato, che vi siano fatte le poste, ovvero palazzi similmente fomiti di tutti gli apparecchi, cioè di cavalli quattrocento per posta, e di tutte le altre cose necessarie..... E questa è la maggiore eccellenza e altezza che giammai avesse alcun imperatore re ovvero altro uomo terreno, perchè più di dugentomila cavalli stanno in queste poste per le sue provincie, e più di diecimila palazzi forniti di così ricchi apparecchi».
Note
- ↑ Cap. XXXVII e LXIII del Testo Ramusiano (Libro 2°).
- ↑ LXXVII del Testo Ramusiano.
- ↑ Cap. XXXII.
- ↑ Cap. LIV.
- ↑ Cap. LIII e LXIV del Testo Ramusiano.
- ↑ Reclus, Géographie universelle, vol. VII.