Specchio di vera penitenza/Trattato della superbia/Capitolo terzo

Trattato della superbia - Capitolo terzo

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Trattato della superbia - Capitolo terzo
Trattato della superbia - Capitolo secondo Trattato della superbia - Qui si pone un’altra distinzione della superbia, la quale si distingue per dodici gradi
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CAPITOLO TERZO.


Dove si dimostra quante sono le spezie e' modi della superbia.


La terza cosa che si vuole dire della superbia, si è in quante ispezie si distingue; cioè dire quanti sono i modi e’ gradi di questo vizio, e in quante maniere ci si pecca. Dove è da sapere, secondo che dice san Gierolimo,1 che sono due superbie: l’una buona e l’altra rea. La buona si è quand’altri non degna di sottometersi alla viltà del peccato, e ha a schifo e in abominazione la sozzura; come dice il profeta: Iniquitatem odio habui, et abominatus sum: Io ho avuto in odio e in abominazione il peccato. Per la qual cosa interviene che la persona fugge le cagioni e le opportunitadi de’ peccati; come sono le male usanze, i luoghi disonesti, lo stare a piazza, alli usci, alle finestre a vedere e udire le cose vane, i motti [p. 193 modifica]e le parole disoneste e dissolute,2 che hanno a corrompere e viziare l’onestà e’ buoni costumi; i giuochi, i toccamenti, i ruzzi e gli scherzi3 delle mani: e stassi la persona sola per sé medesima nella chiesa o nella camera, ôrando, leggendo e lavorando; e perché non è usante, ma vive a riguardo, curando di mantenere e conservare sua puritade e sua onestade, la quale tra la gente si smaga e perde, e però è tenuta e reputata altiera e superba. E sogliono dire quelle cotali persone la cui usanza ella ischifa: – Ella non degna sì basso, e le pare essere sì grande, che le viene ischifo delle sue pari; – e simili parole: delle quali la persona non si dee curare, ma spregiarle; e non avvilirsi, ma perseverare in quella santa superbia, la quale nasce da mente virtuosa e gentile; non dalla propia volontà, ma dall’amore di Dio e dalla carità; e non s’ha a schifo il prossimo, ma il difetto e ’l vizio. Onde santo Ierolimo, nella Pistola che mandò a quella santa vergine Eustochia, dove le ’nsegna conservare la verginitade4 e fuggire le cose contrarie; poi che l’ebbe ammaestrata che fuggisse l’usanza e la compagnia delle donne secolaresche e vane, acciò ch’ e’ loro reggimenti e’ loro ragionamenti delle cose mondane e carnali non viziassono la sua puritade, disse: Disce in hac parte sanctam superbiam: scito te esse illis meliorem: Appara in questa parte la santa superbia, e sappi che tu se’ migliore di loro. È un’altra superbia rea; e questa si puote considerare in due modi. In prima, in quanto ella ha una generale influenza in tutti i vizi de’ quali ella è originale principio e cagione: e in questo modo è una cosa colla cupiditade; della quale dice l’Appostolo: Radix omnium malorum est cupiditas: Radice di tutti i mali è la cupiditade; e di [p. 194 modifica]questa non è da parlare qui, ma nel seguente capitolo. L’altro modo si puote considerare in quanto è uno vizio speziale, distinti dagli altri vizi capitali; il quale, come è detto di sopra, è uno amore disordinato della propia escellenzia: e di questa cotale superbia dobbiam5 dire qui. Della quale dice il Maestro delle sentenzie, e prendela da santo Gregorio, che quattro sono le spezie della superbia. La prima si è quando alcuno bene o alcuna bontà che la persona ha, l’attribuisce a sé: la seconda spezie si è quando la persona crede bene avere da Dio ogni bene ch’egli ha, ma crede che Dio glie l’abbia dati per suoi meriti: la terza si è quando altri si vanta d’avere quello ch’ e’ non ha: la quarta spezie della superbia si è quando altri desidera di parere e di mostrare singularmente di avere quello ch’egli ha, dispregiando gli altri. Contro la prima spezie della superbia parla san Paolo, e dice: Quid habes, quod non accepisti? Che ha’ tu, o uomo, che tu non abbia ricevuto da Dio? quasi dica: nulla. Onde san Bernardo contro a questo vizio dice: Chi è sì stolto che creda avere altronde che da Dio quello ch’egli ha? Almeno non doverebbe essere peggiore che quello fariseo del Vangelo, il quale riconosceva d’avere da Dio quello ch’egli avea, e dicea: Gratias tibi ago Domine; e quello che séguita: Io ti rendo grazia, Signore Iddio: e diceva quello che non avea di male, e quello ch’egli avea di bene. Sì che almeno egli dava ad intendere che, avvegna che in altra spezie di superbia offendesse, non peccava in ciò, che non gli paresse avere da Dio quello bene ch’egli avea; come fanno quegli superbi che non riconoscono i beni che hanno, e non ne rendono grazie a Dio, e così diventano ingrati: ch’ è uno grande vizio, a Dio e agli uomini spiacevole. Del quale dice san Ierolimo, che grande superbia è essere ingrato. Questi cotali, come dice san Gregorio, da che non rendono grazie a Dio de’ beneficii ricevuti, [p. 195 modifica]non sono degni di riceverne più, ma d’essere privati di quegli c’hanno ricevuti. E veríficasi verso loro quello che dice san Bernardo: che la ingratitudine è uno vento che riarde e secca la fontana della pietade, la rugiada della misericordia e ’l fiume della divina grazia. Contro alla seconda spezie della superbia per la quale stima l’uomo d’avere per li suoi meriti quello ch’egli ha, dice san Paolo: Gratia Dei sum id quod sum: Per la grazia di Dio io sono quello ch’io sono; quasi dica: S’io sono6 alcuna cosa, e ho niente di bene, è per la grazia di Dio, e non per gli miei meriti. Altrimenti, la grazia non sarebbe grazia: come se l’uomo pagasse uno lavoratore dell’opera e della fatica sua, non gli farebbe grazia veruna, ma serverebbegli il debito della giustizia; così se Dio ci desse i beneficii suoi per li nostri meriti, non ci farebbe grazia, ma giustizia: e così tôrrebbe via la grazia di Dio; ch’è errore a dire o a credere, con ciò sia cosa che la grazia sia principio e cagione d’ogni bene. Potrebbe altri dire: – Dunque non merita l’uomo niente, quantunqu’egli adoperi bene e virtuosamente, da che sola la grazia lo fa? – Dove si risponde, che l’uomo, bene adoperando, merita in virtù della grazia che Dio liberamente gli dà, e non per le sue operazioni, le quali, senza la grazia fatte, non varrebbono nulla appo7 Dio. Onde, avendo l’uomo la prima grazia da Dio, la quale non si merita d’avere, ma liberamente si dona; e operando secondo quella cotale grazia; merita, per quella grazia che fa l’opere sue essere meritorie e a Dio accette e grate, d’avere maggiore grazia, e anche la gloria secondo la grazia. E questo volle dire san Paolo, quando avendo detto: Gratia Dei sum id quod sum, aggiunse: et gratia eius in me vacua non fuit. E la grazia sua non è stata in me vôta e vana; dando ad intendere ch’egli [p. 196 modifica]avea bene operato secondo la grazia che Dio gli avea data, colla quale egli avea, operando, meritato. E a ciò fare n’ammaestra noi, dicendo: Hortamur vos, ne in vacuum gratiam Dei recipiatis: Noi vi confortiamo che voi non riceviate in vôto e in vano la grazia di Dio. Coloro ricevono in vôto la grazia di Dio e in vano, i quali non sono solleciti di bene opereare secondo la grazia ricevuta. Potrebbesi qui fare una quistione: – Se la grazia non si dà per li meriti, ma liberamente si dona; perché la dà Iddio più a uno che a un altro; e perché all’uno, e non all’altro? – Rispondono alcuni, e dicono: che avvegna che Iddio dia più grazia a uno che a un altro, tuttavia dà a ciascheduno tanta grazia, ch’egli puote meritare e essere salvo, pure che non ci dia dalla sua parte impedimento, non disponendosi a riceverla, o non operando secondo quella grazia. Alcuni altri dicono, che tutta la massa dell’umana natura è peccatrice per lo peccato del primo padre, e però degnamente8 e giustamente è privata della grazia di Dio e dannata: ma Iddio ne elegge alquanti secondo il beneplacito della sua volontà, a’ quali dà la grazia sua, avendoli predestinati a vita eterna; gli altri lascia perire, secondo che merita la corrotta natura. A’ primi fa grazia e misericordia: agli altri non fa ingiuria, ma giustizia, benchè non dia loro la grazia. Ma ancora rimane la quistione in piede; cioè: – perché dà la grazia all’uno, e non all’altro; ad alquanti, e non a tutti? con ciò sia cosa che tutti igualmente, e non più l’uno che l’altro, né meno, sieno peccanti9 del peccato originale della corrotta natura. – A ciò rispondono alcuni, e dicono: che Iddio dà la grazia a coloro ch’egli sa che la debbono bene ricevere e bene usare, e non agli altri che sa che non l’userebbono bene, e però non la dà loro. Questa risposta non è sana e contiene errore, però che pone legge alla grazia, volendo che dipenda da’ meriti dell’uomo; dicendo che però la dà [p. 197 modifica]Iddio, perché sa ch’ella si dee bene usare: con ciò sia cosa che sola la liberale volontà di Dio la doni, e ella medesima è cagione d’essere bene ricevuta e bene usata. E che sola la volontà di Dio sia cagione della grazia, Iddio lo dice per la Iscrittura: Miserebor cui voluero, et misericors ero in quem mihi complacuerit: Io farò misericordia a cui io vorrò, e sarò misericordioso di cui mi piacerà. E ciò diede Iesu Cristo ad intendere nel santo Vangelo per quella parola della vigna, dove si conta che dando il signore della vigna tanto a colui ch’era entrato a lavorare la vigna la sera a vespro, quanto a colui ch’era venuto la mattina per tempo; e mormorando alcuno contro al signore, disse a quel cotade: – Amico, io non ti fo ingiuria; chè io do a te quello che tu hai meritato, e che fu mio patto e tuo. Io voglio dare a costui che venne tardi, del mio a mio senno, avvegna che non l’abbia meritato. – Dove si dimostra, che non il merito nostro, ma la volontà di Dio è cagione della grazia. Onde alla quistione che si fa, perché Dio dà la grazia all’uno e non all’altro, o più a uno che a un’altro, dirittamente e sanamente si risponde: – perché Dio vuole così fare. – E se più oltre si domandasse: – perché vuole Iddio? – anche si dee rispondere: – perché Dio sì vuole; – e non andare più innanzi. perché alla divina volontà non si puote assegnare cagione niuna, se non la sua medesima volontade, della quale dice il Profeta: Omnia quoecumque voluit fecit: Iddio ha fatte tutte quelle cose ch’ egli volle. Non dee, adunque, la persona attribuire superbamente a’ suoi meriti qualunche bene abbia; ma alla grazia e alla misericordia di Dio. Onde dice san Paolo: Apparuit gratia Dei Salvatoris nostri, non ex operibus iustitioe quoe fecimus nos, sed secundum suom misericodiam salvos nos fecit: Egli è apparita la grazia di Dio Salvatore nostro, non per le opere della giustizia che abbiamo fatte noi,10 ma secondo la sua misericordia ci ha fatti salvi. E Isaia dice: Omnia opera nostra operatus es in nobis, Domine: Tutte le opere nostre [p. 198 modifica]hai adoperate in noi, Signore Iddio. Chiunche crede o dice altro, fa ingiuria alla grazia di Dio, e villaneggia la sua misericordia; e fa Iddio iscarso venditore della grazia sua, quello che n’è larghissimo e liberalissimo donatore. La quale egli ci conceda e doni: qui est benedictus in secula seculorum, amen. La terza specie della superbia si è quando altri si vanta d’avere quello che non ha: e ciò puote intervenire in due modi. Il primo modo si è quando altri crede avere quello che non ha; il secondo modo si è quando altri sa bene che non ha quel cotale bene di che egli vanamente si loda e vanta. Il primo modo interviene11 da grande cechità; il secondo da grande vanità. Grande cechità, per certo, è che paia all’uomo avere quelle vertude e quelle bontade le quali in veruna maniera non ha. E non è da maravigliarsi, se noi consideriamo quello che dice san Gregorio, el quale dice che la superbia della mente accieca altrui, e non lascia conoscere la verità. E interviene questo vizio per lo disordinato amore propio di sé medesimo, il quale accieca l’uomo, e non gli lascia conoscere la sua cechitade. Onde dice santo Ambruogio: L’amor tuo inganna il giudicio tuo di te medesimo. E però è il proverbio comune che dice. E’ te ne inganna amore. Nasce ancora questa cechitade dalla negligenzia di non pensare lo stato suo e’ propi difetti; i quali se bene e spesso si considerassono, terrebbono l’uomo in umiltà, e non lo lascerebbono levare in superbia. E a ciò vale molto specchiarsi ispesso, leggendo la santa Iscrittura, la quale per dottrina e per essemplo insegna conoscere sé medesimo, e aprire gli occhi a vedere la sua miseria e ’l propio difetto, e a correggerlo; secondo che dice san Gregorio. Ancora è cagione di tale cechitade dare volentieri gli orecchi alle lode12 de’ lusinghieri: de’ quali dice Seneca, che loro propietade è d’ingannare altrui, e di fare che l’ [p. 199 modifica]uomo creda di sé quello che non è. La qual cosa non interverrebbe se altri non gli udisse volentieri e dilettevolmente; chè, come dice santo Ierolimo: Nullo parla volentieri al mutolo e al sordo uditore. Onde Salomone dice ne’ Proverbi: Princeps qui libenter audit verba mendacii, omnes ministros habebit impios: Il signore che volentieri ode le parole bugiarde,13 averà tutti i suoi ministri bugiardi e rei. È anche grande vanità vantarsi d’avere quello che l’uomo sa per certo che non ha; del quale dice santo Iob: Vir vanus erigitur in superbia: L’uomo vano si leva in superbia. Dove dice la Chiosa: Quello uomo è detto vano, il quale mostra d’avere quello che non ha, e móntane in superbia. E secondo che dice san Tommaso, quello vantarsi è spezie di bugiarda menzogna. La quarta spezie di superbia si è quando la persona vuole parere, e mostra d’avere singolarmente quello ch’egli ha, spregiando gli altri; e inchiude questa superbia due mali: lo spregio del prossimo, e il fare mostra di sé.14 Lo spregio del prossimo è contra la carità, per la quale l’uomo dee amare il prossimo come sé medesimo; il quale, spregiando, offende. Questa superbia avea quello fariseo del Vangelo, il quale, lodando sé, dicea: Non sum sicut ceteri hominum; e quello che séguita: Io non sono come gli altri uomini ingiusti e peccatori. E spregiava il prossimo dicendo: Non15 sono come questo pubblicano. È ancora tale spregio contro alla carità di Dio; però che dispregiare16 altrui è giudicare che per alcuno male o difetto che sia in lui, egli sia degno d’essere spregiato. Giudicare altrui è contro al comandamento di Dio, il quale dice nel santo Vangelo: Nolite iudicare, et non iudicabimini: Non vogliate giudicare, e non sarete giudicati. E l’Appostolo dice: Tu chi se’, [p. 200 modifica]che giudichi altrui? Il secondo male che inchiude questa superbia, è il fare mostra di sé: la qual cosa quanto sia vana, si manifesta per quello ch’è detto di sopra, e più innanzi se ne dirà. Contro a ciò parla Iesu Cristo nel Vangelo, e dice: Attendite ne iustitiam vestram faciatis coram hominibus ut videamini ab eis: Guardatevi di fare la giustizia, cioè l’opere giuste e buone, innanzi agli uomini per essere veduti da loro. E in un altro luogo, contro a coloro che fanno mostra delle loro opere, dicea: Amen dico vobis, receperunt mercedem suam: In verità, vi dico che egli hanno ricevuto la loro mercede; quasi dica: Non aspettino altra mercede da Dio dell’opere ch’ e’ fanno per essere veduti; chè l’essere veduti è la mercè loro.

Note

  1. La pronunzia espressa per lettera dal nostro amanuense, era qui: Gielolimo.
  2. L'edizione del 95 e, in parte, anche quella del Salviati: le cose vane, immonde, et le parole vane et dissolute. La trasformazione grafia d' i motti in immonde è palpabile.
  3. Ediz. 25: gli scerzi; 95 e 85: gli scherzamenti.
  4. Il Testo: d'osservare verginitade.
  5. Dobbian, nel Manoscritto: e così spessissimo, tanto se la voce sia intera quanto se troncata ovvero unita ad affissi.
  6. Il nostro Codice (valga per quel che può l'avvertenza): io so quello ch'io so; quasi dire: S'io so.
  7. Ediz. 95: appresso a. E così altre volte per questa preposizione, e pel modo di costruirla.
  8. Ragionevolmente, le stampe.
  9. Così, a parer nostro, assai bene nel Manoscritto.
  10. Il Manoscritto: che noi abbiam fatte.
  11. Così concordamente, le stampe; e il nostro Testo: si viene; proseguendo, non meglio: da vana ec.
  12. Nel Codice è l'arcaico-plebeismo: lable.
  13. L'edizione degli Accademici aggiunge: dei lusinghieri. E il nostro apografo pone: le parole dei bugiardi.
  14. Nel Manoscritto: e fare di sè mostra.
  15. Le stampe, concordamente: Nè.
  16. Il Codice: dispregiando. Nè sarebbe il primo caso di gerundio posto a far le veci del nome.