Sotto la tenda/Nei domini dell'Oceano
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NEI DOMINI DELL'OCEANO
Da Azila a Laraishe: una gita d’una quarantina di chilometri lungo la riva dell’Atlantico. Si cammina fra le colline quando la marea è alta, e si scende sulla spiaggia quando il mare ritirandosi la lascia scoperta.
Il mordere assiduo delle tempeste ha roso le alture, le ha tagliate, ha fatto della loro costa una nuda muraglia a picco coronata di cespugli. Nelle ore del riflusso si cavalca ai piedi di queste pareti scoscese, invadendo i domini dell’Oceano ancora tutti bagnati e ruscellanti. Sulla sabbia fine le orme profonde delle cavalcature si riempiono d’acqua appena lo zoccolo le lascia; in certi punti si cammina sopra alghe odoranti; altrove si cerca un passaggio fra scogliere che il mare ha scolpito stranamente, coperte di molluschi. È un singolare viaggio, che si fa a cavallo alla mattina e si potrebbe fare in barca alla sera quando la marea torna a ricoprire ogni cosa ed a gettare le sue ondate contro la ripa scoscesa con la regolarità d’un lavoro.
Il paesaggio è d’una desolazione grandiosa, e un santo sceriffo d’altri tempi, che detestava la compagnia dei suoi simili quanto amava la meditazione, Sidi Bu Mghaitz, ebbe ragione di scegliere questi luoghi per trascinarvi le catene della esistenza umana. I suoi simili però, indiscreti, venivano in folla a chiedere la sua benedizione, finchè il buon santo si decise ad isolarsi di più, e morì. E fu un grande miracolo la sua morte, poichè egli ne predisse il giorno e l’ora con una esattezza che ai nostri tempi è una prerogativa dei soli suicidi. La sua Kubba – la tomba dei santi marocchini – leva la sua cupoletta candida fra le asperità della costa, allo sbocco d’una valletta, ed è oggetto di un culto speciale per le tribù del Khlot. Esse vanno una volta all’anno a farvi un così chiassoso pellegrinaggio, che il corpo di Sidi Bu Mghaitz, tanto amante della solitudine, deve pentirsi d’aver fatto il miracolo di morire, il quale gl’impedisce di compire un altro miracolo: quello di fuggire. Dopo la Kubba di Bu Mghaitz (cioè di "papà Mghaitz»), la solenne monotonia della costa è rotta, alla foce d’un fiumiciattolo il –il Wad el-Sebs – da un meraviglioso boschetto d’oleandri giganteschi che chiudono con il loro folto fogliame un delizioso e fresco rifugio, una specie di grande caverna verde in mezzo alla quale mormora una limpida sorgente. In fondo all’acqua si agita pigramente una tartaruga, che non ha paura degli uomini; è un’annosa tartaruga che tutti i carovanieri conoscono, nutrono e rispettano. Il boschetto è un luogo di tappa, e chi vi sosta ne ha cura. Vi si trovano piccole comodità messevi da mani ignote, come segni di una ospitalità misteriosa. Sul bordo della fonte sono disposte vecchie travi perchè chi si prostra a bere non tocchi il fango; un’altra asse serve da sedile. Le travi così adoperate sono avanzi di naufragi, avanzi che abbondano sulla riva. Ad ogni passo s’incontrano resti di navi gettate dalle bufere su queste solitudini; e sono lugubri come ossami, come tutto ciò che è morto.
Quando la marea comincia a crescere, bisogna fuggire la spiaggia per non correre il rischio di essere presi dal mare - cioè di naufragare a cavallo. Allora si rimonta qualche valle, e si riprende la via delle colline. Partendo alla mattina da Azila, si lascia il mare nel pomeriggio; ed è l’ultima parte del viaggio che si percorre così, fra enormi cespugli di biancospino, ciuffi di palmetto e di ginestra, radure piene d’iris minuscole e azzurre come pervinche.
Mentre traversavamo questa regione, ad un certo punto abbiamo sentito un fruscio fra le piante, poi uno stormire violento di sterpi schiantati. "Il cinghiale! il cinghiale! ", ha gridato Mustafà, il mio capo carovaniere. L’incontro non stupisce nessuno in queste località. In un momento tutti i miei uomini, e i soldati di scorta, si sono gettati alla battuta, urlando come indemoniati, bastonando i cespugli con i calci dei fucili, tirando sassate nel folto dei roveti, incitando la fiera a mostrarsi, chiamandola coi nomi più ingiuriosi. Ma il cinghiale è un animale prudente, anche quando è ingiuriato in arabo, e il nostro perseguitato si è guardato bene dal rivelarci il suo nascondiglio.
Non importa: i soldati di Sid Ben Abd el-Halak hanno sparato egualmente delle fucilate, chiudendo la caccia con un’allegra fantasia, e sono tornati a fiancheggiare la carovana con aria soddisfatta. Nemico fugato non è nemico vinto?
Poco dopo, dalla vetta d’una collina, abbiamo scorto Laraishe lontana, arrampicata sulla costa di un’altura, candida come una frana di marmo. Sotto alla città luccicavano le acque del fiume Lukkus, che si fa pigro e tortuoso verso alla foce quasi per ritardare la sua fine. Ad oriente la pianura d’Alkazar, uno sfondo luminoso velato di azzurro.
Laraishe, Lukkus, Alkazar, tutti questi sono nomi sbagliati; rappresentano una pietosa imitazione delle parole arabe. Laraishe, che i francesi dicono Larache, si chiama in realtà El Araish, e significa il giardino di piacere Il Lukkus si chiama Waad (fiume) El-Kus. Alkazar si chiama El-Ksar, cioè il Castello ed ha l’appellativo di El-Kebir, ossia " il grande Sono gli spagnuoli che ci hanno regalato questa nomenclatura storpiata, che ha fatto di Fas Fez, di Marrakesh Marocco, di Meknes Mequinez, e della quale un esempio tipico è nelle parole Waad el-Kebir "il fiume grande, trasformate nel nome Guadalquivir. Del resto, se gli spagnuoli nei sette secoli di dominazione araba avessero imparato l’arabo, a quest’ora sarebbero maomettani, porterebbero il turbante, e l’Europa avrebbe probabilmente un’altra forma; sopportiamo e rispettiamo dunque questi sacri spropositi che hanno avuto tanta influenza sui destini dei popoli.
Ma io tenevo a restaurare il nome arabo di El-Araish per il suo poetico significato, il quale sembra confermare una tradizione abbastanza diffusa. Secondo questa tradizione, il " Giardino di piacere „ sorgerebbe sui luoghi del favoloso Giardino delle Esperidi, delle brune figlie di Atlante. Il drago che custodiva il suo accesso potrebbe essere un simbolo del sinuoso Lukkus; la foce del fiume infatti si chiama in arabo fum, nome che significa bocca del mostro. E i famosi frutti del mitologico giardino, frutti dalla scorza d’oro rilucente e dalla polpa dolcissima e fragrante, potrebbero benissimo essere stati gli aranci. L’umile arancio deve aver ben colpito l’immaginazione dei primi navigatori, con l’eleganza delle sue piante, la stranezza del suo colore, il profumo dei suoi fiori. E Atlante? Vi sono presso Azila, a M’zora, dei meravigliosi avanzi d’opere megalitiche, degli enormi macigni eretti, perenni monumenti lasciati da un popolo di ciclopi. Chi sa che la presenza in questi luoghi d’uomini giganteschi, che maneggiavano con tanta facilità delle pietre immani, non abbia originato la leggenda di Atlante che sollevava il mondo sulle sue spalle? Con un po’ di buona volontà si può spiegare tutto ciò che si vuole....
Ma è meglio non abusarne. E lasciamo in pace le Esperidi, il loro padre, e il. giardino dai frutti d’oro. Tanto più che El-Araish, da vicino, non è quel luogo di delizie che il nome promette. Come in tutte le città che le guerre e i pericoli hanno costretto dentro a mura fortificate, le case si sono affollate, accavalcate, sovrapposte fino all’inverosimile, la sciando fra loro vicoli tenebrosi; e gli abitanti si sono am massati nelle case. Con l’abitudine tutta orientale di confidare la nettezza delle vie ai cani ed agli scarabei stercorari, il "giardino di piacere„ tramanda emanazioni detestabili; un coro completo di cattivi odori con i suoi acuti ed i suoi bassi.
Vista dalla riva opposta del fiume — Laraishe è alla sinistra del Lukkus — la città ha un aspetto quasi imponente. Scende dalla cima d’una collina fino all’acqua come una v langa di case bianche. La loro forma a dado, la deficienza di finestre sulle pareti quadrate e liscie, le numerose cupolette gonfie basse, dànno agli edifici una non so quale severità, quella maestà da mausoleo che hanno quassi tutte le città arabe. L’architettura moresca, con le sue linee esterne semplici, le sue muraglię cieche, rivela che v’è una vita sepolta dentro alle case della quale nulla deve apparire al di fuori, una vita misteriosa che oppone alla curiosità l’impenetrabile ed impassibile eguaglianza d’un muro candido, una esistenza che appare sacra perchè interdetta, e paurosa perchè ignorata.
Le vecchie mura di cinta, le quali dalla sommità della collina vanno a sprofondare i loro speroni nelle acque del Lukkus, che li accarezzano e li anneriscono, sono mura spagnuole. Anche Laraishe ha avuto una esistenza abbastanza agitata. Fu un covo di pirati, ebbe una parentesi spagnuola, subì parecchi attacchi francesi e arabi, e tornò ad essere un covo di pirati. Le ultime navi corsare si vedono ancora.
Venendo da Azila si passa vicino a questi avanzi di navi da preda. Sono mezzo sepolti nel fango, fra i giunchi che inverdiscono la riva destra del fiume dove era il porto. Hanno perduto il fasciame, corroso dalle maree, e, come cadaveri che abbiano perduto le carni, mostrano l’ossatura. Non sono più che travature nere disposte come il costato d’uno scheletro. Poco lontano emergono le àncore, tuttora fortemente aggrampate con le loro zampe rugginose, simili ad enormi ragni. E possibile che queste navi abbiano potuto spargere il terrore sui mari?
Di esse è rimasto il modello nelle quattro grandi barche governative a venti remi, le quali fanno a Laraishe il servizio di scarico e carico dei vapori in rada. La pirateria ha lasciato delle curiose eredità. La prima è nella tradizionale costruzione di queste forti imbarcazioni che vincono i marosi dell’Atlantico portando fino ad ottanta tonnellate di carico attraverso la difficilissima imboccatura del Lukkus. Un’altra eredità è nella straordinaria destrezza dei Mori di questa costa al maneggio del remo lungo, da secoli in disuso fra noi. Essi conservano intatta la manovra della galea: una vogata ampia che nella trazione getta i rematori supini l’uno sull’all’altro ad un tempo; e l’urlo della ciurma -un urlo ritmico che disciplina gli sforzi nel quale pare di risentire il grido di: Arranca! Arranca!; e il muoversi maestoso ed uniforme dei lunghi remi simile al battere di ampie pinne poderose aperte sui fianchi della nave.
Ma l’eredità più strana della pirateria è nel monopolio del Governo marocchino dei lavori di carico e scarico delle navi. Dopo la conquista di Laraishe, Mulei Ismail, che fu detto il "Re Sole, del Marocco, fece della pirateria, prima libera, un cespite finanziario del Makhzen, una risorsa ordinaria del Governo, una specie di tributo regolare imposto alla navigazione straniera. Il Sultano ebbe diritto a tutti gli schiavi, e al decimo del bottino. La corsa cessò di essere una industria privata, ed i pirati diventarono quasi funzionari sceriffiani, dei fedeli esecutori di legge incaricati di determinate riscossioni in alto mare. Navi corsare e flotta del Sultano furono da allora tutt’uno; la marina marocchina battè bandiera nera. Quando l’Europa fece cessare questi piccoli proventi marittimi del Marocco una bella parte in tale azione il Ducato di Toscana ebbe e dei porti furono aperti al commercio, che cosa poteva fare il Governo Imperiale dei suoi battelli da preda e dei suoi buoni equipaggi? Si riserbò il diritto di abbordaggio, ma fu un abbordaggio pacifico, un arrembaggio onesto. Il monopolio del carico e dello scarico delle navi fu stabilito di fatto. Col tumultuoso e disordinato trasbordo delle mercanzie rimase così una illusione di saccheggio, e rimase soprattutto un certo utile, che per essere piccolo, non è però disprezzabile.
Ecco perchè vi sono a Laraishe quattro imbarcazioni governative a venti remi, nelle cui larghe pancie passa esclusivamente tutto il commercio del porto. sopra una di queste barche che ho attraversato il Lukkus, dalla riva destra a quella sinistra, insieme agli arabi, ai muli, ai cavalli, ai soldati ad una numerosa famiglia di capre condotta da un dignitoso pastore.
Siamo stati sbarcati ad una banchina di pietra, presso ai magazzini della Dogana, in mezzo a casse, balle e barili dalle più svariate provenienze. Un’occhiata a quegl’ingombri e si ha un’idea del commercio d’importazione marocchino. E interessante, e mi prendo la libertà di intrattenere un po’ il lettore in Dogana, presso ai tre Umana - i commissari che valutano la merce e impongono i pagamenti con la so lennità di tre giudici supremi, avvolti negli ksa come in sacri paludamenti, assistiti dagli adul gli scriba che registrano gli atti sopra scartafacci pieni dei più leggiadri can.pioni di calligrafia araba, benchè quegli scartafacci siano avviliti dal nomignolo di “carte sporche” — “uaraqat uasakh”.
A Laraishe entra di tutto. È il porto più vicino a Fez ed a Mequinez, e il suo movimento supera talvolta quello di Tangeri. Disgraziatamente il Lukkus forma alla foce la così detta "barra (come l’Hun-ho a Ta-ku e il Yan-tze-kiang a Shanghai, nostre vecchie conoscenze), cioè, risospinto dal flusso del mare, deposita le sue sabbie, formando un bassofondo che le navi difficilmente possono superare. Il Lido a Venezia non è che la "barra, del Po, emersa a poco a poco.
Una buona draga potrà facilmente rendere il porto di Laraishe accessibile alla navigazione, che per ora deve essere limitata a piccole navi ed a determinate stagioni. Tuttavia il movimento di merci supera i venti milioni di franchi all’anno.
Le cifre sono una cosa noiosa, lo sappiamo dall’infanzia, e nessun giornale pubblicherebbe della matematica in appendice per distrarre i lettori. Ma sono una cosa utile facendone un uso moderato, ed io mi permetto di raccoglierne qualcuna fra le “carte sporche” degli adul.
Il commercio dei diversi paesi a Laraishe è nelle seguenti proporzioni: Inghilterra 10, Francia 4, tutte le altre nazioni insieme 1. Noi apparentemente non entriamo neppure in quell’uno.
Ma queste proporzioni si modificano rapidamente: la Germania nel 1901 sbarcò tre balle di cotonate; l’anno dopo ne sbarcò 164; nel 1904 ne sbarcò 242; nel 1905 ne sbarcò 600. Rispettabile progressione. Eccone un’altra, austriaca questa. Nel 1901 l’Austria mandò per un valore di 14 mila pesetas di zucchero, nel 1902 ne mandò per 110 mila pesetas, nel 1904 per 800 mila, nel 1905 per un milione e duecentomila pesetas. Un bel progresso, non c’è che dire; se continua così la nostra alleata in dieci anni inzucchererà tutto il Marocco come un frutto candito. Questi aumenti si ritrovano nell’importazione del tè, delle candele, degli oli.... L’importazione tedesca guadagna terreno su quella inglese e francese, la belga va di pari passo con la tedesca, la spagnuola pure aumenta. Vi è l’interesse d’una battaglia nelle cifre degli adul, una grande battaglia di prodotti nella quale.... nessuno perde, salvo chi non ci prende parte.
Delle grandi casse di forme singolari giacciono alla rinfusa sopra un punto della banchina e nei magazzini; sono lì da anni, e le pioggie le hanno annerite e mezzo sfasciate. Contengono macchine e pezzi di macchine destinati all’Imperatore, avanzi delle famose ordinazioni del giovane Sovrano che dovevano trasformare il Marocco, rimasti bloccati dalla rivolta, e dimenti cati completamente dall’imperiale padrone come vecchi giuocatoli. C’è un canotto automobile smontato, vi sono dei grandi candelabri in ghisa per lampade ad arco, e poi un motore elettrico, un pallone che ha la presunzione di dirsi dirigibile contenuto in varie casse, delle grandi ruote imballate, e varî oggetti strani ingabbiati, i quali mantengono il più me
profondo mistero sul loro uso, macchine in incognito. E sulla via di Fez, abbandonato in mezzo alla campagna, vi è qualche altro apparecchio meccanico che ha subito un tentativo di trasporto sopra degl’informi carrocci rimasti anch’essi per la strada. Pietre miliari sul cammino della civiltà, fermatasi alla prima tappa.
Nessuno attribuisce valore a tutta questa roba che è costata denaro, intelligenza, e lavoro, e che si dissolve prima
L. Barzini. Sollo la Tenda. | 5 |
Le popolazioni, in quei pesanti e misteriosi involucri trascinati attraverso le loro terre, hanno visto un’insidia, una specie di cavallo di Troja dal quale sarebbe balzata fuori una magica forza conquistatrice, e si sono sollevate e li hanno arrestati.
E forse i rudi campagnoli arabi hanno avuto l’intuizione d’una grande verità.
Se quelle macchine ora prigioniere, inesorabilmente chiuse nelle casse come bestie feroci nelle loro gabbie, se quelle macchine agissero, non pulserebbe un poco della vita e del cuore dell’Europa nel loro moto gagliardo?