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come una sorella; vestiva semplicemente, e trovava un gran piacere a conversare così alla buona con le persone della fattoria ed anche con le comari delle vicinanze, facendo uso del suo nativo dialetto che era rimasto nella sua memoria ad onta della straniera educazione, ed ora nel riudirlo e nel tornare a parlarlo le pareva di rivivere gli anni beati della sua infanzia.

Alzarsi a bruzzolo per respirare l’aria balsamica dell’alba e per godere lo spettacolo del sole che sorge; vederlo tramontare assisa in riva al torrente, le cui onde illuminate dagli ultimi raggi le passavano dinanzi tinte d’oro e di porpora; bere gli effluvi dei tanti fiori che in quell’ora malinconica prima di chiudere al riposo le loro vaghe corolle sogliono esalarli più delicati come un addio alla luce moribonda; contemplare nei notturni silenzi l’immenso stellato del cielo e il dolce chiarore argenteo dei raggi lunari, quando si diffondono sulla terra vaporosa, erano le delizie ch’ella preferiva a tutti gli spettacoli che l’arte più raffinata avesse potuto offrirle nella società in cui aveva fino allora vissuto. Ma anche un’altra sorta di piaceri assai più cari al suo cuore ella sapeva procurarsi in quella solitudine. La sua ricca condizione e la liberalità dello zio la ponevano in grado di poter soccorrere molti disgraziati, ed ella, come angiolo consolatore, volava dappertutto dove sapeva di poter tergere una lagrima. In breve si sparse in quei dintorni la fama della sua beneficenza, e fu molto amata, e si acquistò il bel nome di «madre dei poveri».

Un giorno, nell’ora del tramonto, verso la fine d’autunno, ella sedeva, come spesso soleva fare, su una pietra dirimpetto al pozzo col suo cestellino accanto e agucchiava, ricambiando di tratto in tratto