Sorrisi di gioventù/Hoa-tsien-ki

Hoa-tsien-ki

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Hoa-tsien-ki.

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I.


I cinesi nelle loro maravigliose scoperte....

A proposito, che cosa non hanno scoperto i Cinesi? Tralasciando le minuzie di cui sogliono lodarsi i tempi progressivamente mediocri, e solo parlando delle cose più importanti secondo i moderni criterii europei, la stampa, la polvere da cannone, la bussola, son tutte invenzioni cinesi. Su questo tema, oramai, la dotta Europa è tutta quanta d’accordo, e il senso commendevole di modestia con cui essa ha riconosciuto di non avere inventato niente, neanche la carta moneta, la renderà simpatica alle future generazioni.

Ma l’Europa, nel suo impeto di sincerità, non ha voluto o saputo dir tutto. Essa non ha detto per esempio, che i Cinesi, dopo avere scoperte tante cose mirabili, le hanno prudentemente ricoperte, assai prima che a noi venisse in mente di scoprirle da capo. «Questo non è buono!» debbono aver sentenziato [p. 234 modifica]parecchie volte nel corso dei secoli i concittadini di Confucio; e in virtù di questa sentenza hanno accortamente seppellito tutto ciò che poteva bensì parer nuovo ai curiosi, ma che non si dimostrava egualmente utile alla educazione del popolo e alla prosperità dell’impero.

Vedete infatti la polvere da cannone. L’avevano scoperta, a quanto sembra, fin da mille anni avanti Cristo; ma non se ne sono serviti nè allora, nè poi. Per difendere l’impero sulla terra e sul mare hanno preferito di far dipingere dei draghi, delle chimere, dei mostri fantasticamente terribili sui merli della Grande Muraglia e sul capo di banda delle loro navi da guerra. Così facendo, ricordarono evidentemente la bella massima di Fo-kien, uno dei loro filosofi piú insigni: «Vuoi tu far male al nemico, quando è bastante il fargli paura?» Fedeli a questo concetto, i Cinesi hanno cercato di far paura al nemico, e per parecchie migliaia d’anni non hanno avuto ragione di pentirsene. Del resto, salvo qualche piccolo incidente transitorio, l’impero di mezzo è vivo ancora. Un po’ male in gambe, Dio buono! Ma vorrei veder voi, con una fede di nascita antica come la sua! E ci voleva un vicino, un concorrente in porcellane, per fargli il gambetto, esponendo alle difese interessate e alle curiositá insalubri dell’Europa civile.

Dite lo stesso della bussola. I Cinesi la conobbero e non la usarono, viva la faccia loro. [p. 235 modifica]Perchè allontanarsi dai porti e dalle spiagge del felice Ciung-ko? Che necessità di vedere altri lidi? Tutto il mondo è paese. Ma nessun paese vale il Tin-scian (traducete Celeste Impero) dove gli alberi danno fiori senza foglie, dove le donne hanno gli occhi tagliati a mandorla, e dove la bevanda del tè basta a conciliare un buon sonno, senza mestieri di libri, di giornali, di discorsi parlamentari e di tornate accademiche.

Così la stampa; eccellente per imprimere sulle stoffe dei graziosi disegni bizzarramente intrecciati, che piacciono all’occhio con la loro novità e lo riposano con la regolarità delle loro ripetizioni: ma fermi lì, e niente riproduzione del pensiero. Che bisogno c’è di fissare l’idea in una forma, che può di volto in volto migliorarsi? A che pro’ rendere comuni le sentenze dei dotti? Quanto più saranno esse comuni, tanto minore sarà il numero dei ver sapienti, perchè il fiotto della mediocrità affogherà tutti i più nobili ingegni.

I Cinesi, chi non lo sa? hanno scoperto anche i biglietti di visita. Ma sia soggiunto, ad onor loro, che sono stati anche i primi ad abolirli.

La cosa merita d’essere raccontata; e si può farlo facilmente ora, che il dottissimo professore Tiglat-Pileser, della università di Tubinga, ha dato all’Europa la sua bella traduzione dall’«Hoa-tsien-ki», pubblicata lo scorso anno a Lipsia, coi tipi della Sterndeuter. [p. 236 modifica]tsien-ki (in italiano: Storia della Carta a fiori d’oro) fu scritto in un tempo abbastanza recente, nel secolo XVII, poco dopo il rovesciamento dell’ultima dinastia dei Ming; ma sembra riferirsi ad un dettato anteriore di Pan-hoei-pan, sorella dello storico Pan-ku, vivente sotto Ho-ti, verso la fine del primo secolo dell’Era non a torto chiamata volgare.


II.


Chiunque ne sia stato l’autore, la storia risale al 213 innanzi Cristo, epoca memorabile nei fasti della letteratura cinese per la strana persecuzione dell’Imperatore Khi-hoang-ti contro i letterati del suo regno, avendone egli fatti sotterrar vivi quattrocento e sessanta. Si era creduto, fino a questi ultimi tempi, sulla fede dei «San-ci-Hung-Kian (specchio universale ad uso dei governanti), che l’Imperatore Khi-hoang-ti si fosse lasciato trascorrere a quella giustizia sommaria, per la ostinazione con cui i letterati dell’impero volevano salvar dalle fiamme i libri da lui condannati al fuoco nel maggior numero possibile, affinchè mancassero ai suoi avversarii politici le fonti a cui attingere gli argomenti per combattere le sue riforme. Ma il professore Tiglat-Pileser ha [p. 237 modifica]messo in chiaro che nessuna riforma essenziale era stata fatta da Khi-hoang-ti, e che lo «Specchio universale», opera di Ze-makuang, un abborracciatore del secolo XI, non meritava nessuna fede, altro non essendo che un corso frettoloso e sommario di storia, per un periodo di 1362 anni, compilato con poco soccorso di documenti autentici e senza alcun lume di critica; Laddove la «Storia della carta a fiori d’oro», offre una spiegazione assai più ragionevole della giustizia sommaria di Khi-hoang-ti; e il riferirsi ch’ella fa ad un’opera di Pan-hoei-pan, quantunque ai dì nostri perduta, gli conferisce un autorità senza pari.

Narra, adunque la «Storia della cartel a fiori d’oro» che l’Imperatore Khi-hoang-ti fosse innamoratissimo dell’Imperatrice Khia-fu-ssè. La bella donna (il cui nome, secondo alcuni interpetri par die significhi «Vita sul verde» e secondo altri «Maraviglia del secolo») era oppressa, ad onta di questo grande amore del suo imperiai consorte, da una profonda malinconia, e niente poteva distrarnela. I bonzi, invitati a pubbliche supplicazioni per la salute della eccelsa Khia-fu-ssè, altro non facevano da un anno che ardere carta dorata, nei plenilunii e nei novilunii, all’altare della Luna, detto «Yue-tan», e a quello del Sole, detto Ge-tan, senza pregiudizio dei grandi olocausti di buoi, maiali, pecore e capre, nel massimo tempio del «Tien-tan», o Eminenza del cielo, e nell’altro del Ti-tan», o Eminenza [p. 238 modifica]della terra. Ma niente facevano i sacrifizi, o non se ne vedeva ancora un costrutto. I medici, a lor volta, chiamati a consulto, non osando parlare di cambiamenti d’aria, interdetti dal cerimoniale di corte, avevano sentenziato: per guarire l’imperatrice, bisogna tenerla allegra, bisogna divertirla ad ogni costo.

Il consiglio era savio; ma in che modo metterlo in pratica? Concerti di tam-tam, passeggiate dal palazzo della Luna a quello del Sole, pranzi solenni a cui partecipavano tutti i grandi dell’impero, si era provato ogni cosa. Finalmente un editto imperiale, apparso nella «Gazzetta di Sciunt-hyen-fu» (leggete Pekino) invitò i sudditi meglio forniti di studi e di fantasia, ad escogitare qualche divertimento che valesse a dissipare la profonda malinconia della Figlia del cielo.

Piovvero le proposte; ma parve più bella, più nuova, più utile fra tutte, quella di un giovane mandarino della provincia di Sciantung, che tutti coloro i quali avevano uso di scrittura mandassero in segno di augurio i lor nomi alla imperatrice; la quale avrebbe, a questa prova di devozione, noverati i suoi sudditi, e in pari tempo avrebbe passate le ore della giornata osservando la varietà dei caratteri.

Così, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’editto, incominciarono a giungere nel palazzo della Luna piena, dove alloggiava l’imperatrice, i quadratini di carta d’ogni genere, [p. 239 modifica]coi nomi dei mandarini d’ogni grado e dei cittadini d’ogni classe, pennelleggiati di nero e di rosso, con bei svolazzi d’oro all’intorno.

Khia-fu-ssè gradì molto l’omaggio, s’interessò alla lettura dei nomi, ammirò la bellezza dei caratteri e degli ornati, e incominciò a riacquistare il suo bel colore di zafferano. Tutti i giorni, sulle coltri di seta del letto imperiale erano monti di cartoncini. Che farne, dopo averli osservati? Khia-fu-ssè era donna di altissimo ingegno, e non istette molto ad immaginare che con l’aiuto d’un po’ di gomma e di qualche limbello di carta velina si sarebrebbe potuto foggiare con quei quadratini dei piccoli scrigni, scatole, ed altri gingilli di salotto.


III.


Ma i cartoncini crescevano; mensole, scaffali e cantoniere, tutto era ingombro di quei ninnoli graziosi. Khia-fu-ssè fu costretto a pensare dell’altro. La eccelsa donna inventò allora i paraventi di biglietti di visita: una vera trovata, che fece andare in visibilio tutta la corte e crescere nel cuore di Khi-hoong-ti la venerazione e l’affetto per la sua divina compagna. [p. 240 modifica]

E i cartoncini crescevamo, crescevamo ancora, crescevamo a migliaia ogni giorno; sicché in breve spazio di tempo tutto il palazzo della Luna piena altro non fu che un laberinto di paraventi. Commossa, maravigliata, ma non ancora confusa, la bella Khia-fu-ssè smise di far paraventi, e pensò di tappezzar le pareti. N’ebbero le sale, n’ebbero i corridoi, n’ebbero le scale, n’ebbero i porticati. Ma continuavano a venire i biglietti di visita: venivano a sporte, a sacca, a carrettate, d’ora in ora, quante erano le distribuzioni quotidiane delle poste imperiali. Non c’era più modo di collocarli al coperto: se ne fecero mucchi nei cortili del Palazzo. Per fortuna, la stagione piovosa non era ancora incominciata: altrimenti quelle montagne di carta si sarebbero convertite in poltiglia.

L’imperatore guardava, e batteva le labbra. Ma di tanto in tanto esciva in esclamazione, suggerite da quel continuo rovesciarsi di cartoncini e di augurii. «Il troppo stroppia» diceva egli, sospirando; «s’intende acqua e non tempesta». Queste ed altrettali massime, ugualmente profonde, uscivano dalle labbra del figlio del cielo.

Nè solamente sul palazzo imperiale si rovesciava tutta quella grazia di Dio. La moda della carta a fiori d’oro inondava d’ogni parte la capitale e le provincie tutte dell’impero. Tutti mandavano, tutti si ricambiavano il saluto del nome e l’augurio del cartoncino, con [p. 241 modifica]grande soddisfazione dei mercanti di carta e della nobilissima classe dei letterati, industri e solleciti pennelleggiatori dei nomi.

Ma un giorno capitò a palazzo il gran maestro delle poste imperiali.

— Figlio del cielo, — diss’egli a Khi-hoang-ti, dopo le genuflessioni di rito, — i tuoi cinquantamila ufficiali di posta non bastano più a tanta fatica. Una strana manía ha colto i tuoi sudditi. Essi mandano biglietti di visita, a centinaia di migliaia, in tutte le direzioni. Sono vere montagne di carta che bisogna far viaggiare. I mezzi di trasporto non sono sufficienti, e quelli che abbiamo non reggono più. Ieri due giunche, cariche di cartoncini, si sono affondate nel fiume giallo. Cinque carri di bambù sono andati in pezzi, sotto il gran peso, ed ingombrano coi loro frantumi la strada. —


IV.


Il Figlio del cielo chiamò i suoi ministri a consiglio. Erano costernati. Anch’essi avevano le case piene zeppe di biglietti di visita. E il guaio più grave era questo, che, non essendo essi della famiglia imperiale, erano [p. 242 modifica]stretti a ricambiare la cortesia a tante migliaia e centinaia di migliaia. Nè più potevano bastare all’ufficio gl’impiegati in pianta, nè i centomila straordinarii addetti ad ogni ministero. Peggio ancora, non era sempre possibile ricambiare il cartoncino, non essendo chiaro nel timbro postale il nome del paese donde veniva l’augurio.

L’imperatore ascoltò, poi diede fuori un editto:

«Ben presto il filugello, onore della nostra dinastia, non basterá più a dar cascami, nè il bambù a dar fiori, quanto basta alla fabbricazione della carta. Similmente, non daranno tanto midollo le piante dell’ho-hiang e del kang-sung, nè tanta corteccia l’arbusto sciuhia-tsaoko, nè tanto succo lo zenzero, quanto basti alla distillazione dell’inchiostro, Popolo avvisato, mezzo salvato. D’ordine dell’imperatore si smetta l’usanza dei biglietti di visita.»

Un grido d’angoscia si levò da tutte le quindici provincie dell’Impero di mezzo.

— Figlio del cielo, — gridarono i mercanti di carta, — tu rovini con un editto la più fiorente tra le industrie cinesi. —

Ma l’imperatore non diè retta alle lagnanze dei mercanti di carta. Khi-hoang-ti pensava al bene del popolo, e non isfuggiva alla sua perspicacia che la salute del popolo è legge suprema di un impero ben costituito. Del resto, una industria nata il giorno innanzi [p. 243 modifica]poteva morire il giorno dopo, senza troppo grave nocumento alle turbe.

Allora si mossero i letterati, cioè a dire tutti coloro che vivevano pennelleggiando i caratteri. Costoro, mal consigliati, si avvisarono di congiurare per il rovesciamento della dinastia degli Han. Egli fu allora che Khi-hoang-ti, pronto come la folgore, aggravò la sua mano imperiale sulla classe ribelle. E tanto per cominciare, ne fece seppellir vivi quattrocento sessanta, sotto i mucchi di cartoncini che essi avevano pennelleggiati.


V.


Si dubitò per un tratto nel celeste impero che la razza dei letterati fosse sul punto di spegnersi. Ma non ne fu nulla: i letterati hanno l’anima dura, molto più dei bottoni. Del resto, sono essi la gloria degli imperi; l’Eminenza del cielo, Tien-tan, si accorda con l’Eminenza della terra, Ti-tan, per non lasciarne sparire la semenza.

Altri ha voluto (e se n’ha traccia nel «Pe-kuei-zi», ossia Tavoletta di diaspro giallo), che la giustizia sommaria di Khi-hoang-ti mirasse a colpire un ignoto, il quale aveva osato di scrivere in un biglietto di visita una dichiarazione d’amore, in versi, alla consorte del [p. 244 modifica]Figlio del cielo: delitto punito colla morte, come ogni altro di lesa maestà. Ma la cosa non ha ombra di probabilità. Se pure la dichiarazione d’amore fosse stata scritta da un letterato imprudente, come avrebbe potuto esser veduta e letta, fra cento cinquanta milioni di biglietti di visita, andati a far muro e spalto intorno ai palazzi imperiali?

È opinione generale che con quella giustizia sommaria l’Imperatore Khi-hoang-ti abbia preservato da un grande flagello il suo popolo. E la Storia della carta a fiori d’oro molto opportunamente cita a questo proposito gli armoniosissimi versi di Kon-fu-tse:

       Hiven pien-King tan pi-tsciang
       Si siu-ki hao-Khiou-cinang;

il che, tradotto in italiano, significa:

       “Lo stolto aperse il pozzo delle amarezze;
       Iddio sapiente si è affrettato a richiuderlo„.

Ahimè, solamente in Cina!