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E i cartoncini crescevamo, crescevamo ancora, crescevamo a migliaia ogni giorno; sicché in breve spazio di tempo tutto il palazzo della Luna piena altro non fu che un laberinto di paraventi. Commossa, maravigliata, ma non ancora confusa, la bella Khia-fu-ssè smise di far paraventi, e pensò di tappezzar le pareti. N’ebbero le sale, n’ebbero i corridoi, n’ebbero le scale, n’ebbero i porticati. Ma continuavano a venire i biglietti di visita: venivano a sporte, a sacca, a carrettate, d’ora in ora, quante erano le distribuzioni quotidiane delle poste imperiali. Non c’era più modo di collocarli al coperto: se ne fecero mucchi nei cortili del Palazzo. Per fortuna, la stagione piovosa non era ancora incominciata: altrimenti quelle montagne di carta si sarebbero convertite in poltiglia.

L’imperatore guardava, e batteva le labbra. Ma di tanto in tanto esciva in esclamazione, suggerite da quel continuo rovesciarsi di cartoncini e di augurii. «Il troppo stroppia» diceva egli, sospirando; «s’intende acqua e non tempesta». Queste ed altrettali massime, ugualmente profonde, uscivano dalle labbra del figlio del cielo.

Nè solamente sul palazzo imperiale si rovesciava tutta quella grazia di Dio. La moda della carta a fiori d’oro inondava d’ogni parte la capitale e le provincie tutte dell’impero. Tutti mandavano, tutti si ricambiavano il saluto del nome e l’augurio del cartoncino, con