Sogno (Prati)
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III
SOGNO
Il giovin lasso
dormia profondo, e gli crescea negli occhi,
nei vigili occhi della mente, un sogno
lucido e strano.
5Ei vide. Un’ombra ei vide
(era la Vita), olimpica fanciulla,
nelle mani recante un negro velo
e ramuseelli di virginee rose
sulla nitida fronte. Il piè vocale
10mosse intorno la dea, tutta odorando
l’aura del loco. Al taciturno capo
quindi d’Amleto la celeste impose
il funereo velame; e, appena il sasso
ne fu coperto, il piè dei simulacri
15ella sfiorò coll’indice divino.
A quel segno di lei, mirabilmente
s’animarono tutti, e il loco apparve
un magnifico Olimpo. In guisa arcana
grandeggiaron di gesto e di sembianza
20le magnanime forme, e all’assopito
cantò ciascuna il salutar suo canto.
achille
Figlio de’ tempi novi,
tu dormi; e me la Parca
e l’irsuto Chiron crebbe alla lode.
25In mar d’oblio tu movi
la piccioletta barca;
10la gran vela alle dardanie prode.
Né giá Briseide tolta
dal dispettoso acheo
30indugiò l’ire della mia quadriga.
Risvegliati una volta,
c del divino Egeo
ribevi l’aura che alla gloria instiga.
Agita i nervi e Possa
35di Febo il raggio, e chiama
sin dalla tarda fossa
11defunto a gioir della sua fama.
Te la mia lancia o il canto
di Chio petrosa rifará gentile:
40chi muor nell’ozio è vile,
e non ode sull’urna inno né pianto.
iside
O del saturnio seme,
tu giaci; e indarno io grido
fuor dalla notte che di sé m’ingombra.
45Chi solitario geme,
casa mutando o lido,
e me spregia od oblia, passa nell’ombra.
Deh! torna ai sassi e all’onde,
deh! torna a interrogarmi;
50e me, se vali, non avrai noverca.
Dal vel, die mi nasconde,
mormoro austeri carmi;
ma sorrido da madre a chi mi cerca.
Stolto chi il lin mio sacro
55con empia man rimove,
o, per vigilie macro,
da me sogna strappar quel ch’è di Giove.
Né il pallid’Orco informe,
nè il vago Olimpo mi fu chiuso a spalle;
60ma per lo doppio calle
meno chi sa, non chi folleggia o dorme.
psiche
Te de’ celesti al regno,
te condurrò ben io,
di lá da questa fulminata stella.
65Ché si placò lo sdegno
del fuggitivo iddio
contra l’ingiuria del la mia facella.
Amor dell’universo
mi stampa e mi figura,
70e parlo con chi dorme e non mi sceme.
Parlo; e nel lin mio terso
lo chiudo, e dalla scura
notte lo levo nelle plaghe eterne.
Casta son io: ben vedi
75come dai fiori emergo.
Fratello, i santi piedi
non maculiamo in questo basso albergo.
Di lá giá non s’arriva,
fratei, che sulle bianche ale di Psiche.
80Alle dolcezze antiche
torniam, fratello, e alla gioconda riva.
ausonia
Con Psiche ai cieli, o figlio;
ma qua tu resta meco,
ché antico e grande è dell’Ausonia il fato.
85Me sull’idèo naviglio
per mare immenso e bieco
chiese un fuggiasco, e a lui Giove m’ha dato.
Ma tu che fai, da Niso
degenere, in tua terra,
90uom semispento in non canuta chioma?
Giacque Pallante ucciso,
mori Cammilla in guerra,
e fu morte gentil vita di Roma.
Benedetto chi passa
95coll’asta il suo tiranno,
o muor pugnando e lassa
di sé ne’vivi la memoria e il danno!
Odi il lion, che rugge
a’ miei piedi e t’addestra al suo ruggito.
100Non m’è dal grembo uscito
chi non per me nel tristo erebo fugge.
il tempo
La mia danza dell’Ore
in bruna vesta o bianca
lieta in parte è per tutti e mesta in parte.
105Mal fa chi il primo fiore
strugge degli anni e manca
senza lampo di gloria o segno d’arte.
Mal fa chi s’addormenta
sulla foglietta verde:
110s’io la do, la ritoglio ai neghittosi.
La stirpe è sonnolenta,
e sua virtú disperde;
ma il prode emendi i barbari riposi.
Coi rari in questa landa
115ti sveglia e fa’ tua strada:
necessitá comanda
che verso morte senza tregua io vada.
Sorgi! Che fai? Vergogna
t’inspiri il fantolin che si travaglia,
120e mena razzi e scaglia
di fionda; e caro è a noi piú di chi sogna.
momo
Vedete il giovinello
che il naso imbarbugliando
s’andò d’inchiostri e visse in libreria!
125Per Giove, è bello, è bello,
e si nomina Armando,
ma non s’arma che d’ozio e di follia.
Rimaso è a mezzo il corso
per una Circe onesta,
130che con un riso gli levò la nuca.
Come gli balla in dorso
il panno della vesta,
e il suo tarlo le polpe gli manuca!
Col veder d’una spanna,
135cento dotti mortali
dicean, seggendo a scranna,
che questo gufo avea d’aquila l’ali.
Ecco il Prometeo in cura
alta di Giove. Sul triclinio ei giace.
140Oh! lasciamolo in pace,
ché negli orti di Circe e’s’infutura.
Prometeo
Dalla plebe de’ numi
disceso è cotestui.
Dormente pellegrin, premi il cordoglio.
145Torta ha la bocca e i lumi;
tutto è deforme in lui,
vile irrisor d’ogni domato orgoglio.
Ma guarda alla mia corda
qui sull’infame pietra,
150e vedi lo sparvier che di me pasce.
Ti leva, e ti ricorda
che i fulmini dall’etra
saetta Giove su chi ferreo nasce.
Però non ti sorrida
155giacer su questo letto;
ed anco in cima all’ida
non ti paia stupendo il mio dispetto.
Solo un mortai funesto
potea fare il gran furto, ed io lo fei.
160Tu, cogli ardiri miei,
non rincrescere a Giove e tenta il resto.
mnemosine
Figlio, me pure ascolta,
me, che nei dolci inganni
dell’etá prima ogni dolor rimeno.
165Quanti soavi in vòlta
fantasmi di quegli anni
potrò mostrarti, onde il mio regno è pieno
li tuo borgo selvaggio
non obliar, fanciullo,
170né l’atrio casalingo e V’esta e il foco.
Del sol piú dolce è il raggio,
piú vivo ogni trastullo,
piú caldo ogni desio nel patrio loco.
Ripiglia i dì giocondi
175chi alle mie labbra vola:
ridono immensi mondi
chiusi nell’auia della mia parola.
Di prodi e di pastori
vedrai fortune, udrai leggende ignote.
180Mnemosine ti puote
ridar la luce dell’Olimpo e i fiori.
la forza
Bando alla cura acerba,
che in groppa ti cavalca,
e spregia i culti indegni e i tempi ladri.
185O anima superba,
dalla profana calca
esci e favella co’ vetusti padri.
Meglio che cianee vane,
odi il rumor del piombo
190tonante ai colli nell’irsuta fèra,
o in cima all’erte frane
de’ grigi falchi il rombo
e de’ frassini il fischio alla bufera.
Cresceano al cesto e all’arco
195dell’Atiica i garzoni,
poi sull’ellenio varco
pugnavan, con Tirteo, fatti leoni.
Il diro Ercole vedi,
che. schiavo inerte in molli abiti chiuso.
200scorda Erimanto, e il fuso
torce della ridente Onfale ai piedi.
polinnia
Piú fresca e piú serena
nel pigro capo ornai
la invocata de’ forti aura ti spira;
205qual per occulta vena
rapidi, or mesti, or gai,
tornano i suoni in una vacua lira.
L’ombra de’ boschi sacri
io lascio, e de’ tuoi passi
210in dolce compagnia mi ti concedo:
ché, ai nitidi lavacri
di Dirce, i membri lassi
mirabilmente rinnovar ti vedo.
La bionda Ebe ti mesce;
215e dal pettine d’oro
della tua Parca or esce
tela ben altra, ed io veglio al lavoro.
Buona umiltá ti morde,
o sognator, di tua desidia tanta;
220a te Polinnia canta:
svegliati al suon delle mie dolci corde.
Scorrea dalla dorata arpa in quel punto
per le dita celesti una profonda
maestosa armonia. L’opra del sogno
225era compiuta, e il sognator d’un balzo
in piè levossi, di sidereo lume
la persona raggiando. I simulacri
taciturni sorgean senza vestigio
di mutamento; ma sorgea l’infermo
230da sé ben altro. Attonito sull’orma
egli rimase: gli fluia nel seno
a balsamiche e larghe onde dai vetri
l’aura d’aprile, e in cima ai flessuosi
pioppi trillava il rosignol, divino
235re della nota. Per le aperte imposte
girò gli sguardi; e in mezzo alle eminenti
pergole vide un guarnelletto bianco
ed una chioma in fior; vide una vaga,
men fanciulla che dea, simile in tutto
240all’ombra della Vita. Eri tu, Arbella,
tu, giovinetta Arbella; insigne figlia
dello scultore. Attratto in rapimento,
v’affisò gli occhi, e in sé trasfigurarsi
senti l’anima e il sangue. Una per una,
245corse alle statue, sue celesti amiche
in quell’ora di grazia: i santi piedi
n’abbracciò, lacrimando. E sulla verde
cima de’ pioppi il rosignol cantava
la rinascente gioventú dell’anno.