Siroe/Atto secondo

Atto secondo

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Atto primo Atto terzo
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ATTO SECONDO

SCENA I

Parco reale

Laodice, poi Siroe.

Laodice. Che funesto piacere
è mai quel di vendetta!
Figurata, diletta;
ma lascia, conseguita, il pentimento.
Lo so ben io, che sento
del periglio di Siroe in mezzo al core
il rimorso e l’orrore.
Siroe.  Alfin, Laodice,
sei vendicata: a me soffrir conviene
la pena del tuo fallo.
Laodice.  Amato prence,
cosí confusa io sono,
che non ho cor di favellarti.
Siroe.  Avesti
però cor d’accusarmi.
Laodice.  Un cieco sdegno
figlio del tuo disprezzo,
persuase l’accusa. Ah! tu perdona,
perdona, o Siroe, un violento amore:
mi punisce abbastanza il mio dolore.
Non soffrirai della menzogna il danno:
io scoprirò l’inganno.
Saprá Cosroe ch’io fui...

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Siroe.  La tua ruina
non fa la mia salvezza. Anche innocente
di questa colpa, io di piú grave errore
giá son creduto autor. Taci: potrebbe
destar la tua pietá nuovi sospetti
d’amorosa fra noi
segreta intelligenza.
Laodice.  E qual emenda
può farmi meritare il tuo perdono?
Tu me l’addita: a quanto
prescriver mi vorrai pronta son io;
ma poi scòrdati, o caro, il fallo mio.
Siroe. Piú nol rammento; e, se ti par che sia
la sofferenza mia di premio degna,
piú non amarmi.
Laodice.  Oh Dio! come potrei
lasciar sì dolci affetti in abbandono?
Siroe. Questo da te domando unico dono.
               Laodice. Mi lagnerò tacendo
          del mio destino avaro;
          ma ch’io non t’ami, o caro,
          non lo sperar da me.
               Crudele! in che t’offendo,
          se resta a questo petto
          il misero diletto
          di sospirar per te? (parte)

SCENA II

Siroe, poi Emira sotto nome d’Idaspe.

Siroe. Come quel di Laodice,
potessi almen lo sdegno
placar dell’idol mio.
Emira.  Férmati, indegno!

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Siroe. Ancor non sei contenta?
Emira. Ancor pago non sei?
Siroe.  Forse ritorni
ad insultare un misero innocente?
Emira. Vai forse al genitore
a palesar quel che taceva il foglio?
Siroe. Quel foglio in che t’offese? Io son creduto
reo del delitto, e mel sopporto e taccio.
Emira. Ed io, crudel, che faccio,
qualor t’insulto? Assicurar procuro
Cosroe della mia fé, piú per tuo scampo
che per la mia vendetta.
Siroe.  Ah! dunque, o cara,
fa’ piú per me. Perdona al padre, o almeno,
se brami una vendetta, aprimi il seno.
Emira. Io confonder non so Cosroe col figlio.
Odio quello, amo te; vendico estinto
il proprio genitore.
Siroe.  E il mio, che vive,
per legge di natura anch’io difendo.
Sempre della vendetta
piú giusta è la difesa.
Emira. La generosa impresa
dunque tu siegui; io seguirò la mia.
Ma sai però qual sia
il debito d’entrambi? A noi, che siamo
figli di due nemici,
è delitto l’amor: dobbiamo odiarci.
Tu devi il mio disegno
scoprire a Cosroe, io prevenir l’accusa;
tu scorgere in Emira il piú crudele
implacabil nemico, in Siroe io deggio
abborrir d’un tiranno il figlio indegno.
Cominci in questo punto il nostro sdegno.
 (in atto di partire)
Siroe. Mio ben, t’arresta.

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Emira.  Ardisci
di chiamarmi tuo bene? Unir pretendi,
il fido amante ed il crudel nemico;
e ti mostri a un istante
debol nemico ed infedele amante.
Siroe. A torto l’amor mio...
Emira.  Taci: l’amore
è nell’odio sepolto.
Parlami di furore,
parlami di vendetta, ed io t’ascolto.
Siroe. Dunque cosí degg’io...
Emira. Sì, scòrdati d’Emira.
Siroe.  Emira, addio!
Mi vuoi reo, mi vuoi morto:
t’appagherò. Del tradimento al padre
vado a scoprirmi autor: la tua fierezza
così sará contenta. (in atto di partire)
Emira. Sentimi. Non partir.
Siroe.  Che vuoi ch’io senta?
Lasciami alla mia sorte.
Emira.  Odi: non giova
né a me né a Cosroe il farti reo.
Siroe.  Ma basta
per morire innocente. Ascolta. Alfine
son piú figlio che amante: a me non lice
e vivere e tacer. Tutto palese
al genitor farò, quando non possa
toglierlo in altra guisa al tuo furore.
Emira. Va’ pur, va’, traditore!
Accusami, o t’accusa: a tuo dispetto
il contrario io farò. Vedrem di noi
chi troverá piú fede. (vuol partire)
Siroe. Il mio sangue si chiede:
barbara, il verserò. L’animo acerbo
pasci nel mio morir. (tira la spada)

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SCENA III

Cosroe senza guardie, e detti.

Cosroe.  Che fai, superbo?
Emira. (Oh dèi!)
Cosroe.  Contro un mio fido
stringi il brando, o fellon? Niega, se puoi:
or non v’è chi t’accusi. Il guardo mio
non s’ingannò. Di’ che mentisco anch’io.
Siroe. Tutto è vero; io son reo: tradisco il padre,
son nemico al germano, insulto Idaspe:
mi si deve la morte. Ingiusto sei
se la ritardi adesso.
Non curo uomini e dèi:
odio il giorno, odio tutti, odio me stesso.
Emira. (Difendetelo, o numi!)
Cosroe. Olá! costui s’arresti. (escono alcune guardie)
Emira.  Ei non volea
offendermi, o signor. Cieco di sdegno,
forse contro di sé volgea l’acciaro.
Cosroe. Invan cerchi un riparo
con pietosa menzogna al suo delitto.
Perché fuggir?
Emira.  La fuga
téma non era in me.
Siroe.  Taci una volta,
Idaspe, taci: il mio maggior nemico
è chi piú mi soccorre. Il mio tormento
termini col morir.
Cosroe.  Sarai contento.
Pochi istanti di vita
ti restano, infedel.
Emira.  Mio re, che dici?
Necessaria a’ tuoi giorni

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è la vita di Siroe. Ei non ancora
i complici scoprí: morrebbe seco
il temuto segreto.
Cosroe.  È vero. Oh quanto
deggio al tuo amor! Vegliami sempre a lato.
Siroe. Forse incontro al tuo fato
corri cosí. Non può tradirti Idaspe?
Emira. Io tradirlo?
Siroe.  In ciascuno
può celarsi il nemico. Ah! non fidarti:
chi sa l’empio qual è?
Cosroe.  Chètati e parti.
               Siroe. Mi credi infedele:
          sol questo m’affanna.
          Chi sa chi t’inganna?
          (Che pena è tacer.)
               Sei padre, son figlio;
          mi scaccia, mi sgrida:
          ma pensa al periglio,
          ma poco ti fida,
          ma impara a temer. (parte con guardie)

SCENA IV

Cosroe ed Emira.

Emira. (Pensoso è il re.)
Cosroe.  (Per tante prove e tante
so che il figlio è infedel; ma pur que’ detti...)
Emira. (Forse crede a’ sospetti,
che Siroe suggerí.)
Cosroe.  (Tradirmi Idaspe!
Per qual ragion?)
Emira.  (S’ei di mia fé paventa,

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perdo i mezzi al disegno. Or non m’osserva;
siam soli: il tempo è questo.)
Cosroe.  (Un reo l’accusa,
per render forse il fallo suo minore.)
Emira. (La vittima si sveni al genitore.)
 (snuda la spada per ferir Cosroe)

SCENA V

Medarse e detti.

Medarse. Signore...
Emira.  (Oh dèi!)
Medarse.  Perché quel ferro, Idaspe?
Emira. Per deporlo al suo piè. V’è chi ha potuto
farlo temer di me. Troppo geloso
io son dell’onor mio.
Io traditore! Oh Dio!
Nel piú vivo del cor Siroe m’offese.
Finché si scopra il vero,
eccomi disarmato e prigioniero.
Cosroe. Che fedeltá!
Medarse.  Forse il german procura
divider la sua colpa.
Cosroe.  Idaspe, torni
per mia difesa al fianco tuo la spada.
Emira. Perdonami, o signor; quando è in periglio
d’un sovrano la vita, ha corpo ogni ombra.
Prima dall’alma sgombra
quell’idea che m’oltraggia, e al fianco mio
poscia per tuo riparo
senza taccia d’error torni l’acciaro.
Cosroe. No, no: ripiglia il brando.
Emira. Ubbidirti non deggio.
Cosroe.  Io tel comando.

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Emira. Cosí vuoi: non m’oppongo. Almen permetti
ch’io la reggia abbandoni, acciò non dia
di novelli sospetti
colpa l’invidia all’innocenza mia.
Cosroe. Anzi voglio che Idaspe
sempre de’ giorni miei vegli alla cura.
Emira. Io?
Cosroe.  Sí.
Emira.  Chi m’assicura
della fede di tanti, a cui commessa
è la tua vita? Io debitor sarei
della colpa d’ognun. S’io fossi solo...
Cosroe. E solo esser tu dèi.
Fra le reali guardie
le piú fide tu scegli: a tuo talento
le cambia e le disponi; e sia tuo peso
di scoprir chi m’insidia.
Emira.  Al regio cenno
ubbidirò; né dal mio sguardo accorto
potrá celarsi il reo. (Son quasi in porto.)
               Sgombra dall’anima
          tutto il timor:
          piú non ti palpiti
          dubbioso il cor;
          riposa, e credimi
          ch’io son fedel.
               Se al mio regnante,
          se al dover mio
          per un istante
          mancar poss’io,
          con me si vendichi
          sdegnato il ciel. (parte)

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SCENA VI

Cosroe e Medarse.

Medarse. Non è piccola sorte
che uno stranier cosí fedel ti sia.
Ma non basta, o mio re; maggior riparo
chiede il nostro destin.
Cosroe.  Sarai nel giro
di questo di tu mio compagno al soglio:
e opporsi a due regnanti
non potrá facilmente un folle orgoglio.
Medarse. Anzi il tuo amor l’irrita. Ha giá sedotta
del popolo fedel Siroe gran parte.
Si parla e si minaccia. Ah! se non svelli
dalla radice sua la pianta infesta,
sempre per noi germoglierá funesta.
Atroce, ma sicuro,
il rimedio sará. Reciso il capo,
perde tutto il vigore
l’audacia popolare.
Cosroe.  Ah! non ho core.
Medarse. Anch’io gelo in pensarlo. Altro non resta
dunque per tua salvezza
che appagar Siroe e sollevarlo al trono.
Volentier gli abbandono
la contesa corona. Andrò lontano
per placar l’ira sua. Se questo è poco,
sazialo del mio sangue, aprimi il seno.
Sarò felice appieno,
se può la mia ferita
render la pace a chi mi die’ la vita.
Cosroe. Sento per tenerezza
il ciglio inumidir. Caro Medarse,

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vieni al mio sen. Perché due figli eguali
non diemmi il ciel?
Medarse.  Se ricusar potessi
di scemar, per salvarti, i giorni miei,
degno di sì gran padre io non sarei.
               Deggio a te del giorno i rai,
          e per te, come vorrai,
          saprò vivere o morir.
               Io vivrò, se la mia vita
          è riparo alla tua sorte;
          io morrò, se la mia morte
          può dar pace al tuo martír. (parte)

SCENA VII

Cosroe.

Piú dubitar non posso:
è Siroe l’infedel. Vorrei punirlo,
ma risolver non so; ché in mezzo all’ira
per lui mi parla in petto
un resto ancor del mio paterno affetto.
               Fra sdegno ed amore,
          tiranni del core,
          l’antica sua calma
          quest’alma perdé.
               Geloso del trono,
          pietoso del figlio,
          incerto ragiono,
          non trovo consiglio;
          e intanto non sono
          né padre né re. (parte)

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SCENA VIII

Appartamenti terreni corrispondenti a’ giardini.

Siroe senza spada, ed Arasse.

Arasse. Chi ricusa un’aita,
giustifica il rigor della sua sorte.
Disperato e non forte,
prence, ti mostri allor che in me condanni
un zelo, che fomenta
del popolo il favor per tuo riparo.
Siroe. L’ira del fato avaro
tollerando si vince.
Arasse.  Al merto amica
rade volte è Fortuna; e prende a sdegno
chi meno a lei che alla virtú si affida.
Siroe. L’alma, che in me s’annida,
piú che felice e rea,
misera ed innocente esser desia.
Arasse. Un’innocenza obblia,
che avria nome di colpa. Il volgo suole
giudicar dagli eventi, e sempre crede
colpevole colui che resta oppresso.
Siroe. Mi basta di morir noto a me stesso.
Arasse. Ad onta ancor di questa
rigorosa virtú, sará mia cura
toglierti all’ira dell’ingiusto padre.
Il popolo e le squadre
solleverò per cosí giusta impresa.
Siroe. Ma questo è tradimento, e non difesa.
               Arasse. Se pugnar non sai col fato,
          innocente sventurato,

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          basto solo al gran cimento,
          quando langue il tuo valor.
               Rende giusto il tradimento
          chi punisce il traditor. (parte)

SCENA IX

Medarse e detto.

Medarse. Come! Nessuno è teco?
Siroe.  Ho sempre a lato
la crudel compagnia di mie sventure.
Medarse. Son giá quasi sicure
le tue felicitá. Deve a momenti
qui venir Cosroe, e forse
a consolarti ei viene.
Siroe.  Or vedi quanto
sventurato son io: del padre invece,
giunse Medarse.
Medarse.  Il tuo piacer saria
poter senza compagno
seco parlar. Porresti in uso allora
lusinghe e prieghi, e ricoprir con arte
sapresti il mal talento.
Semplice, se lo speri! Io nol consento.
Siroe. T’inganni. A me non spiace
favellar, te presente:
chi delitto non ha, rossor non sente.
Pena in vederti è il sovvenirmi solo
ch’abbia fonte comune il sangue nostro.
Medarse. Sará mio merto e la corona e l’ostro.

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SCENA X

Cosroe, Emira col nome d’Idaspe, e detti.

Cosroe. Veglia, Idaspe, all’ingresso; e il cenno mio
nelle vicine stanze
Laodice attenda.
Emira.  Ubbidirò. (si ritira in disparte)
Cosroe.  Medarse,
parti.
Medarse.  Ch’io parta! E chi difende intanto,
signor, le mie ragioni?
Cosroe.  Io le difendo.
Siroe. Resti, se vuol.
Cosroe.  No, teco
solo esser voglio.
Medarse.  E puoi fidarti a lui?
Cosroe. Piú oltre non cercar. Vanne.
Medarse.  Ubbidisco.
Ma poi...
Cosroe.  Taci, Medarse, e t’allontana.
Medarse. (Mi cominci a tradir, sorte inumana!) (parte)

SCENA XI

Cosroe, Siroe ed Emira in disparte.

Cosroe. Siedi, Siroe, e m’ascolta. (Cosroe siede)
Io vengo qual mi vuoi, giudice o padre.
Mi vuoi padre? Vedrai
fin dove giunga la clemenza mia.
Giudice vuoi ch’io sia?
Sosterrò teco il mio real decoro.
Siroe. Il giudice non temo, il padre adoro. (siede)

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Cosroe. Posso sperar dal figlio
ubbidito un mio cenno? Infin ch’io parlo,
taci, e mostrami in questo il tuo rispetto.
Siroe. Fin che vuoi, tacerò; cosí prometto.
Emira. (Che dir vorrá?)
Cosroe.  Di mille colpe reo,
Siroe, tu sei. Per questa volta soffri
che le rammenti. Un giuramento io chiedo
per riposo del regno, e tu ricusi:
ti perdono, e t’abusi
di mia pietá. Mi fa palese un foglio
che v’è tra’ miei piú cari un traditore;
e, mentre il mio timore
or da un lato, or dall’altro erra dubbioso,
io veggo te nelle mie stanze ascoso.
Che piú? Medarse istesso
scopre i tuoi falli...
Siroe.  E creder puoi veraci...
Cosroe. Serbami la promessa: ascolta e taci.
Emira. (Misero prence!)
Cosroe.  Ognun di te si lagna.
Hai sconvolta la reggia; alcun sicuro
dal tuo fasto non è; Medarse insulti;
tenti Laodice e la minacci; Idaspe
infin sugli occhi miei svenar procuri.
Né ti basta. I tumulti a danno mio
ne’ popoli risvegli...
Siroe.  Ah! son fallaci...
Cosroe. Serbami la promessa: ascolta e taci.
Vedi da quanti oltraggi
quasi sforzato a condannarti io sono;
e pur tutto mi scordo e ti perdono.
Torniam, figlio, ad amarci: il reo mi svela
o i complici palesa. Un padre offeso
altra emenda non chiede
dall’offensor che pentimento e fede.

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Emira. (Veggio Siroe commosso.
Ah, mi scoprisse mai!)
Siroe.  Parlar non posso.
Cosroe. Odi, Siroe. Se temi
per la vita del reo, paventi invano.
Se quel tu sei, nel confessarlo al padre
te stesso assolvi e ti fai strada al trono.
Se tu non sei, ti dono,
purché noto mi sia, salvo l’indegno.
Ecco, se vuoi, la real destra in pegno.
Emira. (Aimè!)
Siroe.  Quando sicuri
siano dal tuo castigo i tradimenti,
dirò...
Emira.  Non ti rammenti
che il tuo cenno, signor, Laodice attende?
Siroe. (Oh dèi!)
Cosroe.  Lo so: parti.
Emira.  Dirò frattanto...
Cosroe. Di’ ciò che vuoi.
Emira.  T’ubbidirò fedele.
(Perfido! non parlar.) (a Siroe)
Siroe.  (Quanto è crudele!)
Cosroe. Spiégati e ricomponi
i miei sconvolti affetti. Or perché taci?
Perché quel turbamento?
Siroe.  Oh Dio!
Cosroe.  T’intendo:
al nome di Laodice
resister non sapesti. In questo ancora
t’appagherò: giá ti prevenni. Io svelo
la debolezza mia. Laodice adoro;
con mio rossore il dico: e pure io voglio
cederla a te. Sol dalla trama ascosa
assicurami, o figlio, e sia tua sposa.
Siroe. Forse non crederai...

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Emira.  Chiedea Laodice
importuna l’ingresso: acciò non fosse
a te molesta, allontanar la feci.
Cosroe. E partí?
Emira.  Sí, mio re.
Cosroe.  Vanne, e l’arresta.
Emira. Vado. (Mi vuoi tradir?) (a Siroe)
Siroe.  (Che pena è questa!)
Cosroe. Parla: Laodice è tua. Di piú che brami?
Dubbioso ancor ti veggio?
Siroe. Sdegno Laodice, e favellar non deggio.
Cosroe. Perfido! Alfin tu vuoi (s’alza)
morir da traditor, come vivesti.
Che piú da me vorresti?
Ti scuso, ti perdono;
ti richiamo sul trono;
colei che m’innamora
ceder ti voglio; e non ti basta ancora?
La mia morte, il mio sangue
è il tuo voto, lo so; saziati, indegno!
Solo e senza soccorso
giá teco io son: via! ti soddisfa appieno.
Disarmami, inumano! e m’apri il seno.
Emira. E chi tant’ira accende?
Cosí senza difesa
in periglio lasciarti a me non lice.
Eccomi al fianco tuo.
Cosroe.  Venga Laodice.
Siroe. Signor, se amai Laodice,
punisca il ciel...
Cosroe.  Non irritar gli dèi
con novelli spergiuri.

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SCENA XII

Laodice e detti.

Laodice. Eccomi a’ cenni tuoi.
Cosroe.  Siroe, m’ascolta.
Questa è l’ultima volta
che offro uno scampo. Abbi Laodice e il trono,
se vuoi parlar; ma, se tacer pretendi,
in carcere crudel la morte attendi.
Resti Idaspe in mia vece. A lui confida
l’autor del fallo. In libertá ti lascio
pochi momenti: in tuo favor gli adopra.
Ma, se il fulmine poi cader vedrai,
la colpa è tua, che trattener nol sai.
               Tu di pietá mi spogli,
          tu dèsti il mio furor;
          tu solo, o traditor,
          mi fai tiranno.
               Non dirmi, no, spietato.
          È il tuo crudel desio,
          ingrato! e non son io,
          che ti condanno. (parte)

SCENA XIII

Siroe, Emira e Laodice.

Siroe. (Che risolver degg’io?)
Emira.  Felici amanti,
delle vostre fortune oh quanto io godo!
Oh Persia avventurosa,
se, imitando la sposa,

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i figli prenderan forme leggiadre,
e se avran fedeltá simile al padre!
Siroe. (E mi deride ancor!)
Laodice.  Secondi il cielo
il lieto augurio. Ei però tace, e parmi
irresoluto ancor.
Emira. (a Siroe)   Parla. Saria
stupiditá se piú tacessi.
Siroe.  Oh dèi!
Lasciami in pace.
Emira.  Il re sai che t’impose
di sceglier, me presente,
il carcere o Laodice.
Laodice.  Or che risolvi?
Siroe. Per me risolva Idaspe: il suo volere
sará legge del mio. Frattanto io parto,
e vo fra le ritorte
l’esito ad aspettar della mia sorte.
Emira. Ma, prence, io non saprei...
Siroe.  Sapesti assai
tormentarmi finora.
(Provi l’istessa pena Emira ancora.)
               Fra’ dubbi affetti miei
          risolvermi non so.
          Tu pensaci; tu sei (ad Emira)
          l’arbitro del mio cor.
               Vuoi che la morte attenda?
          La morte attenderò.
          Vuoi che per lei m’accenda?
          Eccomi tutto amor. (parte)

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SCENA XIV

Emira e Laodice.

Emira. (A costei che dirò?)
Laodice.  Da’ labbri tuoi
ora dipende, Idaspe,
il riposo d’un regno e il mio contento.
Emira. Di Siroe, a quel ch’io sento,
senza noia Laodice
le nozze accetteria.
Laodice.  Sarei felice.
Emira. Dunque l’ami?
Laodice.  L’adoro.
Emira. E speri la sua mano?...
Laodice. Stringer per opra tua.
Emira.  Lo speri invano.
Laodice. Perché?
Emira.  Posso svelarti un mio segreto?
Laodice. Parla.
Emira.  Del tuo sembiante,
perdonami l’ardire, io vivo amante.
Laodice. Di me!
Emira.  Sí. Chi mai puote
mirar, senz’avvampar, quell’aureo crine,
quelle vermiglie gote,
le labbra coralline,
il bianco sen, le belle
due rilucenti stelle? Ah! se non credi
qual fuoco ho in petto accolto,
guarda, e vedrai che mi rosseggia in volto.
Laodice. E tacesti?...
Emira.  Il rispetto
muto finor mi rese.

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Laodice.  Ascolta, Idaspe:
amarti non poss’io.
Emira. Cosí crudele! Oh Dio!
Laodice.  Se è ver che m’ami,
servi agli affetti miei. L’amato prence,
con virtú di te degna, a me concedi.
Emira. Oh! questo no: troppa virtú mi chiedi.
Laodice. Siroe si perde.
Emira.  Il cielo
gl’innocenti difende.
Laodice.  E se la speme
me pietosa ti finge, ella t’inganna.
Emira. Tanto meco potresti esser tiranna?
Laodice. T’odierò fin ch’io viva; e non potrai
riderti de’ miei danni.
Emira. Saranno almen comuni i nostri affanni.
               Laodice. Amico il fato
          mi guida in porto,
          e tu, spietato!
          mi fai perir.
               Ti renda Amore
          per mio conforto
          tutto il dolore
          che fai soffrir. (parte)

SCENA XV

Emira.

Sì diversi sembianti
per odio e per amore or lascio, or prendo,
ch’io me stessa talor né meno intendo.
Odio il tiranno, ed a svenarlo io sola
mille non temerei nemiche squadre;

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ma penso poi che del mio bene è padre.
Amo Siroe, e mi pento
d’esser io la cagion del suo periglio;
ma penso poi che del tiranno è figlio.
Cosí sempre il mio core
è infelice nell’odio e nell’amore.
          Non vi piacque, ingiusti dèi,
     che io nascessi pastorella:
     altra pena or non avrei
     che la cura d’un’agnella,
     che l’affetto d’un pastor.
          Ma chi nasce in regia cuna,
     piú nemica ha la fortuna;
     ché nel trono ascosi stanno
     e l’inganno ed il timor.