Simpatie di Majano/VI
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VI.
Come? Ella non ha ancora a sufficienza di amori platonici, di amori mitologici, di amori umani?...
Si vede proprio che in fatto d’amore le donne sono lupe insaziabili, almeno collo spirito.
Ne vuol dell’altro? Ebbene: a Majano ci sarebbe dell’altro. Majano avrebbe nientemeno che un Dante: un Dante minuscolo, ma tutto suo, Dante da Majano. La sua Beatrice sarebbe stata una calda Siciliana, probabilmente amabilissima, certo così bene amata che la chiamavano la Nina di Dante.
Nina! nome da cavalla, se vuole; nomignolo da sgualdrinella, se vuole: ma pure un nome tenero, un nomignolo pieno di carezze: fatto apposta per una donnina vulcanica; come Beatrice sta bene alla vaporosa sublimità di un essere librato fra la terra e il cielo, che ha conosciuto la terra solo per lasciarla e che chiama il suo poeta agli amori infiniti; i quali, se infiniti, non dovrebbero neppur principiare....
Se Dante da Majano ha veramente esistito (dico così perchè c’è chi, non senza fondamento, sostiene immaginari lui e i suoi versi e la sua Nina), avrebbe trovato più sugo nei suoi amori colla Nina che il gran Dante coll'eterea Beatrice.
Ma è altrettanto vero che come poeta il Dante da Majano sarebbe stato appunto quel tanto che ci voleva per essere un Dante, a Majano: e però ci è lecito invidiare i suoi solidi godimenti amorosi, ma non paragonare le sue pallide rime coi fulgori del colosso fiorentino.
Sarebbe stato certo un onore per il problematico Dante da Majano che il suo grande omonimo lo avesse avuto in pregio, che il Petrarca avesse imitato alcuna delle sue trovate, che i professori di letteratura lo siano andati studiando come uno dei fondatori della lingua, e anatomizzando le ingegnose strutture delle sue rime. A noi, gente alla buona, giova risparmiarci la faticosa lettura, e ci contentiamo di un solo dei versi a lui attribuiti:
Innamorar d’amare ogn’uom dovria.
Innamorar d’amare! ecco un lampo veramente dantesco.
Trecento anni dopo una carmelitana, ardente, estatica, nel monastero fiorentino di Santa Maria degli Angioli a San Frediano, si metteva a suonare le campane a distesa e gridava alle suore: — Venite tutte ad amar l'amore.
La monachella, invasa d’amore divino, trovava la stessa frase che fu affibbiata al poeta acceso della Nina siciliana.
La monaca in discorso era nientemeno che Maria Maddalena de’ Pazzi: e quando vedo nei ritratti ufficiali della santa quegli occhioni suoi profondi, il naso affilato e la bocca sottile, immagino il suo temperamento soprannaturale, le sue tentazioni impossibili, i suoi spasimi per l’invisibile, la sua estrema sensibilità rivolta all’insensibile, i rapimenti, l’esuberanza degli affetti che turbano il cervello, i connubi con Cristo e le vittorie contro il diavolo, una vita frenetica in tutto ciò che non vive, la morte continua della vera vitalità, tutti i fenomeni di una sublime pazzia. Gesù amante e sposo, crocifisso coronato di spine: i gesuiti, allora in tutto il fervore dei primi tempi loro, per confessori: la voluttà cercata nelle estreme angosce di un’anima che si pasce continuamente dell’assurdo: annichilire il corpo e dar corpo all’idee: la fantasia che si spossa in uno sforzo senza risultato. Quale terribile, pauroso, spaventoso paradiso trovavano in terra quelle sante vergini!... Anche Maria Maddalena la peccatrice amò il Salvatore: ma lei lo aveva conosciuto, uomo, vivo e vero: la divinità del suo spirito, del suo cuore poteva essere da lei creduta, ma la sua umanità era per lei un fatto senza dubbio più evidente... Per questa Maria Maddalena che si tuffa nell’acqua gelata a spegnere l’incendio che la divora, che corre per le celle della clausura proclamando che vengano ad amar l'amore quelle suore alle quali ella nega qualunque più innocente, umano e vero affetto, quale supplizio!
Io non invento nulla, mia signora; anzi le trascrivo ben poco di quello che racconta il confessore della santa, perchè non voglio offendere con troppo colore il suo rispettabile rispetto alla santità: perchè non voglio tradurre in parole la Santa Teresa del Bernino che si sviene d’amore divino sotto l’influsso sensuale e lo sguardo equivoco e il sorriso provocante d’un angelo vezzoso in viso e bello di forme e galante nell'attitudine; perchè non voglio imitare quel religioso panegirista di Maria Maddalena che lavorò tutto il suo ingegnoso panegirico sul concetto pazza sapienza e sapiente pazzia. E se Ella volesse leggere quelle che sono pubblicate come opere della santa de’ Pazzi, cioè gli sfoghi delle sue estatiche contemplazioni, Ella vedrebbe che è molto pallido ciò che le scrivo.
Tutta santa e mistica, e votata a Cristo fin da bambina, Caterina dei Pazzi passò nel mondo la prima gioventù: non diventò suor Maria Maddalena che a sedici anni. Ed è tradizione che da fanciulla venisse spesso qui in questa villa di Majano: che allora apparteneva certamente ai Pazzi, come poi diventò villa Tolomei, e ora villa Leader.
In villa ella esercitava la penitenza rifiutando al suo gusto infantile fino gli acquosi e refrigeranti cocomeri: si occupava a insegnar la dottrina cristiana alle bambine dei paesani, regalando le più meritevoli; intesseva ghirlande di spinoso melarancio per tormentarsi le carni innocenti; il giorno di Sant’Andrea pensando alla croce cadeva in deliquio per esuberante amor di Dio; impiegava le passeggiate a recitare fervorose orazioni...
Non è vero, Contessa, che simili fanciullezze sovrumane mettono paura? La poverina fu presto così mal ridotta di salute che i genitori la trattennero quassù a fare la cura dell’acciaio, che allora si usava come ora il ferro, per infondere un po’ di forza naturale allo scarso sangue...
Pure i sensi li aveva, e nelle sue opere si trova qualche reminiscenza campestre. Essa osserva che «chi fa il suo albergo nei monti conserva il suo corpo più sano perchè quivi l’aria è più pura, e i frutti che vi sono, sono più rari... non ci arrivando tante nebbie e così folta caligine.» E pare che non le fosse sfuggita l’industria dell’ortolano: perchè discorrendo degli alberi fruttuosi dice: «alcuni non bisogna che siano lasciati sfiorire, perchè si perderebbero i frutti, e in alcuni bisogna lasciare i frutti per molto tempo, innanzi che si colgano, acciò che si maturino.» Le cose della natura, l’aquila, il pellicano, le tortore, lo sparviere, le appaiono di solito a traverso le favole dei libri: essa crede che il corallo s’abbellisca o si oscuri secondo la sanità dei bambini che lo portano. Ma non ha dimenticato i cardellini e gli altri piccoli uccelli dilettevoli: essa ricorda con gentilezza da San Francesco d’Assisi, le dimestiche colombe, «il cui canto è il gemere, però che gemendo canta, e cantando geme. » Essa ha notato che la colomba «non mangia di quei frutti che sono in alto, ma si ciba di semi che sono radicati in terra.» Ha assistito a qualche caccia d’autunno, e dice della starna: «volendo pigliarla, bisogna appuntare il luogo dove abita nella luce del dì, e nella notte andare a pigliarla con luce particolare... »
Lei, mia signora, sente di certo la serenità di queste troppo rare impressioni naturali, di queste simpatie di Majano che fanno capolino nelle estasi soprannaturali della santa; ella gusta la soavità del come sono dette. E per quanto sia lieta di poter venerare sugli altari una santa di più, forse in fondo al cuore sentirà umana compassione che quella squisita creatura di Caterina dei Pazzi sia stata una donna di meno.