Signorine povere/Terza parte/VI
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VI.
La notizia del fallimento di Augusto Klein e della fuga di Eugenia fulminò i Valmeroni. La lettera dell’avvocato Pagliardi che Antonietta dovette mostrare a suo padre, inasprì la ferita. Il sarcastico Amilcare non sapeva trattenersi dal ricordare le sue profezie. Non l’aveva egli detto che potevano recitare il De profundis sul loro credito? Soggiungeva poi ironicamente: „Mio cognato si consolerà perchè gli ritorneranno in casa alcuni dei suoi vecchi quadri, e sarà tutto quello che potrà cavare dal famoso rogito“.
Riccardo pensava tra sè che la profezia era facile e che egli pure l’aveva fatta; non lo disse per non rattristare di più suo padre che pareva annientato. Non potè tuttavia trattenersi dall’osservare che egli aveva sempre predicata l’economia prevedendo quella disgrazia.
— Non ne abbiamo fatte abbastanza delle economie?... Non abbiamo pagato tanti debiti?
— Non abbastanza, cara mamma. Mi duole dirtelo: tu hai speso cinquemila lire in pochi mesi e hai un conto di mille lire tra abiti e cappelli.
La signora Elisa impallidì.
— Chi te l’ha detto?
— Ho ricevuto il conto stamattina dalla casa Lombardi. Non t’hanno vista più, e naturalmente vogliono essere pagati.
Leonardo ascoltava trasognato. Nuova debiti? Sua moglie faceva nuovi debiti?... E lui aveva fatto tanti sacrifizi: si era privato delle cose più care, sacri ricordi di famiglia, opere d’arte preziose... per nulla, per nulla!... Ora tornavano allo stesso punto, con nuovi debiti e senza i quadri!..
Se ne andava per la casa a grandi passi, barcollando, le mani alzate, con gesti tragici di preghiera e d’imprecazione.
Non sapendo che far di meglio, la signora Elisa si mise a piangere e a strillare. Tutti l’avevano con lei, come se fosse lei sola che aveva rovinato la casa... come se i Valmeroni non fossero stati pieni di debiti prima che ella entrasse nella famiglia.
Riccardo si era seduto, aveva preso un lapis e segnava delle cifre nel suo libretto d’appunti.
Antonietta e Maria si guardavano in silenzio. Angelica piangeva vicino a sua madre. Ella esclamò ad un tratto:
— E l’Eugenia che è scappata con l’amante!... Questa notizia non ha colpito nessuno: non vi siete affannati che per i denari!...
In un impeto di sincerità, sua madre gridò:
— La mia Eugenia! la mia povera Eugenia! È per lei che io piango, non per i denari. I denari per me non hanno nessun valore, se non li posso spendere a modo mio.
Leonardo ritornava a passi lenti dalla sua corsa forsennata traverso la casa.
— Cosa avete detto di Eugenia?...
Nessuno osò rispondergli.
— Cosa avete detto?.. Ha fatto una pazzia?
I suoi occhi, dilatati dallo spavento, si fissarono su Antonietta.
— Una pazzia... come la tua! Di’?
— No, babbo, Eugenia sta benissimo; ma non vuol più stare con suo marito. Lo ha piantato.
— Ah!... Ila fatto bene... quella canaglia se l’è meritata.
— Ha fatto benissimo — ripeteva Angelica singhiozzando. — Avrei fatto anch’io lo stesso. Ma intanto io non mi marito più. Chi mi deve pigliare?... Cosa farò io senza dote, con la fama che si sono fatta le mie sorelle?... Io sono la vittima di tutti...
— Taci, antipatica! — le gridò Riccardo guardandola di traverso.
A questo grido, la incorreggibile monella gli si slanciò contro come una vipera.
— Antipatica?... Vuol dire che sono proprio tua sorella, odioso, prepotente, egoista!
— Zitti! — gridò il signor Leonardo. — Non vi vergognate di bisticciarvi mentre la sventura ci colpisce?... Oh, la mia povera vecchia, sono quattordici mesi che l’abbiamo portata al cimitero; ma il suo spirito è certo in mezzo a noi, e chi sa come soffre delle nostre afflizioni. Siamo almeno degni di lei.
— Sì, babbo, hai ragione. Bisogna essere forti. Se Amilcare non arriva stasera, bisogna che tu vada a Pavia domattina per pregarlo di assumere la nostra parte: per farci ricuperare quel poco che si può. Non c’ è altri che lui che ci possa aiutare.
— Andrò, sebbene mi pesi. Dopo quello che m’ha scritto...
— Non bisogna badarci. Parla così perchè non si può trattenere dal lanciare le sue frecciate, ma in fondo è meglio di tanti.
— Lo so. Cosa hai notato lì?
— Il nostro dare e avere. Andiamo di là, ti mostrerò.
Quando i due uomini si furono allontanati, Angelica ricominciò ad inveire contro le sue sorelle, contro suo fratello, contro tutti.
Ella voleva andarsene: avrebbe più fortuna fuori di casa. Tanto e tanto, un marito come si deve non lo trovava più; non voleva stare a casa a muffire.
— E cosa conti di fare? — le dimandò Maria.
Voglio andare sul teatro. Sicuro. Ho una bella voce, una bella figura e conosco abbastanza la musica per cantare nelle operette...
— Nelle operette! — esclamò sua madre trasalendo. — Tu vuoi essere una cantante di operette?
— E perchè no? — Trovami un marito se non ti piace. Dovrei forse pretendere di diventare una prima donna di cartello?... Con la bella istruzione che mi avete data!... Dovevi farmi studiare al Conservatorio o farmi prendere la patente di maestra, come Maria, o farmi imparare un mestiere. Ma che!... Noi si era le signorine Valmeroni, si doveva stare a casa nostra, col nostro decoro, e attendere un buon partito!... Ma dove sono i buoni partiti?... Eugenia ha dovuto sposare un vecchio per aiutare la famiglia e farsi una posizione. Antonietta ha trovato l’amore e il suicidio. Maria almeno fa la maestra e il suo stipendio rappresenta una dote; potrà sposarsi se vorrà; io, se non me ne vado sarò in eterno la signorina che non trova da collocarsi, come si dice: la vecchia zitella, la serva di casa. No, no, preferisco essere una cantante d’operetta, o magari da caffè... già che non ho nessun altro mestiere a portata di mano. Forse farò fortuna.
A sera, il Pagliardi arrivò con Paolo Venturi. Era dispostissimo ad aiutare il cognato, prevedendo peraltro che il denaro era perduto. Secondo lui, Leonardo avrebbe ricuperato una parte dei quadri, vale a dire quelli non rivenduti.
Molti particolari venivano fuori ora su Augusto Klein. Il negozio di Berlino non era più suo da un pezzo; aveva dovuto cederlo ai suoi creditori; ma lo dirigeva. Era abilissimo nel vendere e nel comperare; come stimatore di quadri antichi non aveva rivali: così aveva guadagnato molti denari, ma volendola scialare da gran signore si era rovinato...
Lo scultore ungherese, il rapitore di Eugenia, lo avevano conosciuto a Venezia. Klein gli doveva ventimila lire di una statua. Non potendo avere il denaro, gli prendeva la moglie!
Leonardo ascoltava esterrefatto. Sua figlia era scappata con un amante? La sua Eugenia? Prima non aveva capito bene: ora la cosa gli riusciva nuova e lo colpiva crudelmente.
— Ma egli dov’è? — domandavano gli altri. — Dov’è andato Klein?
C’è chi pretende che sia fuggito in America; altri vogliono far credere che si è suicidato. Ma nessuno ci crede. Dev’essere ritornato a Berlino dove si rimetterà a fare il piccolo commercio: il rivenditore, o meglio, il sensale di belle arti.
L’avvocato nominò Faustino Belli. Leonardo trasalì. Oh, come avrebbe voluto vederlo in quel momento! I suoi occhi pieni di tristezza si rivolsero a Maria, quasi implorando.
— Povero Faustino! — sospirò.
— Perchè lo compiangi? Ora che si è attaccato al Ministero dell’istruzione riescirà a farsi dare una cattedra.
— Gli auguro tutte le felicità.
E da capo guardava Maria che fingeva di non vedere quelle occhiate.
Paolo Venturi ricondusse la conversazione alle belle arti. Era stato recentemente nel negozio Klein e nominava le tele che si potevano ricuperare. Leonardo subito si rianimò. Non lo diceva, ma si capiva benissimo che quella speranza gli faceva dimenticare i suoi dispiaceri. Peccato che i migliori quadri, il Sassoferrato, la testa colossale del Correggio, il Breughel, il Ferramola erano stati venduti fin dai primi giorni.
Ci vollero quasi quattro mesi prima che l’affare Klein fosse liquidato. Quattro mesi di noie, di angoscie, di visite d’uscieri, di comparse, e di continui contatti con la carta bollata. Verso la fine di luglio finalmente quella lunga tortura ebbe un termine.
Valmeroni ricuperò una trentina di quadri tra buoni, mediocri e insignificanti e un certo numero di oggetti: bronzi, statuette, vecchie lampade, vasi, ceramiche.
Augusto Klein non comparve mai alle udienze: fu dichiarato irreperibile e condannato in contumacia.
Felice di riavere quei suoi vecchi amici, menticando il denaro perduto, Leonardo pensava di tirarseli tutti in casa. Ma la famiglia protestò.
Dove voleva metterli i suoi trenta quadri? L’appartamento al secondo piano era affittato a un professore che pagava puntualmente. Non si poteva mandarlo via. Erano ottocento lire l’anno e volevano dire nelle presenti ristrettezze. Dunque? Leonardo obbiettava che nelle stanze della loro abitazione poteva collocarne una quindicina, e si affannava a misurare le pareti. Gli altri per intanto, li avrebbe mandati in campagna.
— E se li vendesse? — domandò una sera Paolo Venturi. — Non sarebbe meglio?
Leonardo non rispose e una viva fiamma gli salì alla fronte.
Venderli?... Oh! come gli sembrava dura quella parola! Venderli, dopo averli riconquistati con tanta fatica!... Non osando esprimere il proprio sentimento, taceva.
— Non è facile venderli — osservò Riccardo.
— Devi dire che è difficilissimo — rincalzò suo padre, subito rianimato.
— Invece, se non vi dispiace, il compratore è pronto.
— Davvero?
— E possibile?
— Li compero io.
— Lei, signor Paolo?... Oh!... A lei sono felice di venderli. Potrò sempre venirli a vedere da lei, credo.
— Altro che! Anche tutt’i giorni. Dunque, siamo intesi? Io chiamerò tre artisti che s’intendono anche di quadri antichi e li pregherò di fare una stima complessiva in base alla quale stabiliremo i prezzi. Va bene?
— Benissimo. È un modo di procedere molto diverso da quello di Klein — osservò Leonardo.
Maria, Angelica e la signora Elisa, presenti a questo discorso, esternarono la loro approvazione, la loro gioia. La prima ne era lieta per il bene dei suoi parenti; le altre due per la speranza che una parte del denaro sarebbe finita nelle loro mani, e per odio verso i vecchi dipinti e gli altri oggetti della raccolta, alla quale l’Elisa attribuiva tutta la rovina dei Valmeroni. Comoda attribuzione e mirante a sollevarla da ogni responsabilità personale. Antonietta e Riccardo tacevano, commossi e feriti nella loro fierezza. Ad essi riesciva evidente che Paolo voleva aiutarli, beneficarli nel modo più delicato.
— E cosa ne farai di tanti quadri? — domandò Riccardo all’amico, senza poter dominare il leggero fremito della sua voce.
— Cosa ne farò?... Se li compro vuol dire che ho piacere di averli. Che credi?... Non sono i primi che acquisto e non saranno gli ultimi. La mia casa è molto grande: tu l’hai vista una volta. Bene. Siccome non ho intenzione di metter famiglia, voglio popolarla di figure dipinte o scolpite, eternamente giovani e eternamente belle. Ciò per il piacere degli occhi e dell’intelletto. Ma non basta. Tu sai che aspiro a non vivere proprio come un essere inutile: un po’ di bene lo vorrei fare... E poi non bisogna dimenticare che sono un annoiato. Lo sport mi distrae, ma non mi occupa. A trent’anni voglio esser deputato per battermi contro gli avversari dei miei principi ai quali dedicherò tutte le mie forze. Per intanto studio: ho cinque anni avanti a me. Ma non basta studiare: voglio farmi conoscere, prepararmi il terreno. Sarò un deputato democratico, naturalmente: sosterrò la causa del popolo. Ora, perchè il popolo mi elegga, bisogna che sappia chi sono. Una galleria di belle arti, aperta al pubblico sarà uno dei mezzi che ho immaginato a quest’effetto. Il nostro popolo ama l’arte, ma le Esposizioni gli sono raramente aperte, e quando per caso vi può entrare, deve percorrerle in fretta, pigiato, confuso, e non ci capisce nulla. La mia galleria, oltre essere aperta tutto l’anno, sarà illustrata da appositi conferenzieri, che io sceglierò e compenserò degnamente pur che parlino chiaro, semplice, in modo da farsi comprendere da tutti. Queste conferenze dovranno essere, secondo il mio piano, una sorta di lezioni elementari, aneddotiche e riassuntive di storia patria, di storia dell’arte, con qualche semplice accenno di estetica naturale, quando il caso lo conceda. Oltre a ciò, col tempo, farò dare anche dei concerti e istituirò una scuola agraria, gratuita, con premi. Io credo nell’efficacia dell’educazione estetica. Vedremo se riescirò.
Leonardo faceva grandi cenni di approvazione. Altro che riescire: non c’ era dubbio. Un’idea eccellente!
Antonietta e Riccardo si erano rischiarati. Sentivano sempre che in fondo Paolo voleva beneficarli, ma il beneficio veniva accompagnato da tanta grandezza d’animo, e dissimulato con una delicatezza così squisita, che il loro orgoglio per quanto suscettibile non poteva in alcun modo adontarsene.
— È bello ciò che intendete di fare, è grande, e anche se il successo non dovesse coronare il tentativo, sarà sempre glorioso di averlo tentato...
Questo disse Antonietta e il suo pallido viso si era illuminato e nei suoi occhi sfavillava un lampo d’entusiasmo.
Era la prima volta ch’ella mostrava d’interessarsi così ai nobili progetti del giovine. Egli la ringraziò con un sorriso, felice di avere ottenuto la tanto desiderata approvazione.
In altre serate successive, i particolari e le forme esteriori del progetto fornirono argomento a lunghe discussioni. Intanto venne fatta la stima di tutto ciò che Leonardo aveva ricuperato della sua raccolta, e dei quadri della galleria, e Paolo Venturi, attenendosi scrupolosamente al parere degli artisti stimatori, pagò in contanti e in valori la somma complessiva di trentaseimila lire.
Nelle lunghe conversazioni Paolo Venturi tornò a parlare di un altro progetto suo, già noto agli amici: quello del podere modello. Podere modello, non soltanto per la coltivazione intensiva e scientifica, ma ben anche per la maniera di vivere e di alloggiare dei contadini e per le mercedi.
Questo entusiasmava specialmente Riccardo, che aveva ereditato dai suoi antenati la passione della terra, resa in lui più nobile e pura dalla luce scientifica e dalle tendenze umanitarie. Anch’egli voleva fare qualcosa di simile con la sua terra di Malgrate, allargando il fondo con qualche opportuno acquisto. E Paolo lo incoraggiava.
Tali progetti e le relative discussioni occuparono molto i due giovani; e Leonardo, Antonietta e Maria vi presero larga parte.
Era come una nuova aurora, una aurora di pace che sorgeva sulla famiglia dopo tante tempeste.
Nel frattempo Angelica aveva messo alla porta Luciano Monti. Non voleva assolutamente che egli la compromettesse colle sue assiduità.
Monella! — esclamò il dottore Melchiorre quando lo seppe. — Vuol farmelo impazzire perchè la sposi. E lui è capace di cascarvi.
A parare il colpo egli pensò di far viaggiare Luciano. Ma Luciano non partì, e se non osava entrare dai Valmeroni, Angelica lo trovava dalla Bergamini, dagli Ermondi e lo incontrava per le scale. Se si chiudeva in casa, non poteva affacciarsi alla finestra senza vederlo passeggiare in via Monforte, o sulla terrazza del fotografo che dominava tutte le finestre verso corte.
Insomma, egli era sempre là: stregato! — come diceva il dottore. Il quale poi se la prendeva con tutti i Valmeroni, e diradava le sue visite, o stava lì immusonito. E cotali atteggiamenti di padre severo stonavano comicamente con le sue guance imbellettate, i capelli e i baffi ritinti fino al delirio, col fiore all’occhiello e la incorreggibile posa di vecchio donnaiolo.
Una mattina, Luciano Monti trovò Angelica sulla scala mentre saliva con la piccola Erminia, e la obbligò a fermarsi, sbarrandole il passo.
— Come siete bella! Ma perchè tanto cattiva con me?
La fanciulla, che era quel giorno più irritata del solito, gli rispose bruscamente, fissandolo coi suoi occhi raggianti di giovinezza:
— Finisca di seccarmi. Se la vedessi morire ai miei piedi non le crederei e non mi commuoverci. Stupisco che non si vergogni di fare queste figure, dopo che l’ho messo alla porta.
E con una mossa rapida tentò di aprirsi un varco per fare i pochi scalini che la separavano dal primo piano.
Egli la agguantò e la serrò contro il muro senza riguardo per la piccina che cominciava a piagnucolare.
Doveva ascoltarlo, doveva. Era una civetta: l’aveva stregato: doveva accontentarlo.
Senza dargli risposta, Angelica lo cacciò in là e si chinò verso la sua sorellina che si era messa a piangere, spaventata.
— La finisca, via. Mi lasci entrare in casa. Viene gente. No?... Se mi vuole proprio, sa cosa deve fare. Ma si spicci, se mai, perchè io ho stabilito di andare sul teatro. E quando fossi lanciata non tornerei più indietro, neppure per diventare la signora Monti.
— Sul teatro?... Ma che!... E in quale compagnia, di grazia?...
— Questo non la riguarda.
— Cattiva! Ma sul teatro non potrà difendersi dagli adoratori. Perchè non vuol cominciare da me? Le farei un magnifico corredo.
Un potente ceffone punì lo stupido insulto.
Egli mandò un urlo; la bimba si mise a strillare. Sentendo quel chiasso, Leonardo Valmeroni aprì l’uscio di casa.
— Cos’è? Cosa fate sulle scale?
— Io salivo con la bambina. Il signore mi ha fermata a forza per insultarmi...
— Non è vero, signor Valmeroni. Sua figlia mi ha fatta una certa carezza. Guardi!
E gli mostrò la guancia tutta rossa, con l’impronta della mano.
— Dentro tu, birichina. Quanto a lei, signor Monti, se lo sarà meritato lo schiaffo.
E chiuse l’uscio senz’altro.
Poche settimane dopo questa scena, tutto pareva deciso. Angelica entrava con Lucia Gerletti nella compagnia Tomba. Nessuno poteva strapparla a quella fissazione. Ella diceva:
— Se non mi lasciate andare, scappo. E già che la compagnia Tomba non mi accetta senza il consenso paterno, mi costringerete ad entrare in una compagnia di secondo rango, meno scrupolosa... e sarà peggio per tutti.
Non ci fu verso di smoverla. E si raccomandava che non le facessero perdere la buona occasione di avere per compagna una brava ragazza come la Gerletti. Costei si buttava in quella carriera per disperazione, avendo capito che sua zia non aveva voglia di mantenerla a studiare. Per l’operetta ne sapeva abbastanza. Il direttore della compagnia aveva arricciato il naso vedendola così bruttina. Poi, la bella voce, stupendamente intonata e un certo spirito comico, che scattava dalla stessa timidezza della fanciulla, l’avevano determinato a prenderla.
Ella diceva all’Angelica:
— So che sono brutta, ma non me ne porta: farò carriera lo stesso. Anzi meglio, perchè gli uomini mi lascieranno stare e le donne, non essendo gelose, non mi faranno tanta guerra.
— Sei fine tu e punto grulla. Ma il cuore? Non ce l’hai il cuore? — chiedeva l’Angelica sorridendo.
La Negrottella — come la chiamava la Bergamini — restò un momento sopra pensiero, quasi che avesse voluto rendersi ben conto del cuore suo prima di rispondere. Rispose finalmente:
— Sono sempre stata infelice e ho visto tanta miseria, che... ciò che tu chiami „il cuore“ non si è mai sviluppato in me.
Mentre Angelica si preparava a firmare la sua scrittura con la compagnia d’operette, Riccardo volle tentare ancora una volta se gli riesciva di indurla almeno ad attendere un anno.
Ella gli rise in faccia.
— Attendere? No, caro... A meno che tu non m’assicuri una dote di trentamila lire, di quelle che Paolo Venturi pagò per i quadri ricuperati...
— Questo non è possibile: tu sai. Ho già parlato col nostro ultimo creditore, per fargli levare l’ipoteca della casa, e pagargli le ventiquattromila lire che ancora gli dobbiamo...
— In questo caso, lasciami al mio destino.
E il suo nome fu messo sul cartellone; e Luciano Monti lo vide. Fu il colpo di grazia.
— Ciò non sarà mai! — gridò stringendo i grossi pugni. E andò a parlare a suo padre.
— Ho ventisei anni — gli disse — e ho deciso di prender moglie.
— Tu?... E chi vuoi sposare?
— Angelica...
— Sei pazzo.
— Tutt’altro. Voglio la mia parte dell’eredità della mamma. Devi darmela, altrimenti...
— Che cosa?
— Mi scritturo anch’io con Tomba. Non ridere: ho un bel vocione di basso, una bella figura e non sono un imbecille. Farò il buffo, il caratterista, il pagliaccio, quel diavolo che vorranno, pur di vivere vicino ad Angelica che sposerò subito.
Il dottore montò sulle furie. Per alcuni giorni dimenticò perfino il rossetto e apparve pallido, invecchiato.
Proprio una Valmeroni doveva sposare suo figlio; una di quella razza di pazzi; e proprio la peggiore di tutte, la più male educata, la più bighellona...
— Dovresti dire la più spiritosa, la più positiva c anche la più bella. Vedrai che brava donnina diventerà quando sarà sicura del fatto suo: quando avrà un buon marito, bello, ricco e giovane, come ha sempre detto che lo voleva.
— Sfacciata! — brontolava il dottore.
— Sincera e avveduta e onesta, perchè conosce se stessa, sa i suoi bisogni e vuole amarlo il marito.
Tre giorni durarono le dispute, e il dottor Monti non si capacitava di trovare tanta eloquenza in quel suo figliuolone dalle spalle grosse, che egli stimava unicamente per la sua forza fisica.
Alla fine dovette cedere, visto che non gli conveniva di vedere il suo unico figlio, il suo erede, fare da buffo in una compagnia d’operette, o magari da forzatore! Era capace di tutto colui.
A malincuore dunque, ma facendo buon viso alla cattiva fortuna, l’eterno corteggiatore di donne, si ripresentò nella casa dei suoi amici decaduti, a chiedere la mano di Angelica, della birichina, della monellaccia, per il suo Luciano, per l’erede di tutti quei bei denari accumulati con tanta tenacia.
E quando l'ebbe ottenuta gli toccò di pagare la penale per liberare la sua futura nuora dall’obbligo di cantare che la legava alla compagnia Tomba. Stizzito, brontolava.
— Anche questa! Anche la penale. Ne vedremo di belle: povera casa!
Intanto Angelica, felice del suo trionfo, rideva, cantava, batteva le mani alla propria bravura. Questa volta la signorina povera vinceva: sposava un ricco, giovane, bello e innamorato.
— E tu l’ami poi? — le domandò Maria.
— L’importante è di essere amate. Ma io ho un cuore tenero. Quando avrò cessato di odiarlo, ciò che avverrà indubbiamente il giorno delle nozze, credo che l’amerò.
Pochi giorni dopo che Angelica era fidanzata, Lucia Gerletti partiva con la compagnia.
Era stata occupata a provare tutta la settimana, dovendo debuttare a Torino. L’ultima sera scese dai Valmeroni per salutarli. Oltre Luciano Monti, che non si allontanava un momento dalla promessa sposa, c’erano i soliti amici e vicini di casa. Cecilio Festi li faceva ridere raccontando le continue visite e le lunghe soste di Luciano nella fotografia di Ermondi.
— Un vero incubo, vi dico. Non si sapeva più come liberarsene; non si faceva più nulla; egli era sempre là, sulla terrazza. L’abbiamo fotografato in tutte le pose; il peggio è che in tutte le fotografie di questi ultimi mesi egli c’entra con una parte di se, là con un piede, qua con un braccio; e se non c’è lui, c’è il suo cappello!
Camillo Bressani, il tenorino, prese a parte la Gerletti e le disse che faceva malissimo a interrompere gli studi per mettersi in una carriera così meschina, con la sua voce tanto bella e intonata.
Ella si strinse nelle spalle. Che fare? Quando non si hanno denari e bisogna pesare sugli altri?... Quando non si ha fortuna, bisogna rassegnarsi.
La invitarono a cantare ed ella cantò subito, senza farsi pregare, come era sua abitudine.
Sul pianoforte era lo spartito del Barbiere. Lo prese e l’aprì a quella deliziosa uscita della donna: „Una voce poco fa...“. Pregò Antonietta di volerla accompagnare e cantò come poche sanno e possono cantare. Allora tutti compresero fino a qual punto la povera creatura fosse nata artista. E osservarono tutti che quella fanciulla senza grazia, con quella faccetta di topo, con quegli occhietti neri, quella pelle scura, quella figura tozza, dalle gambe troppo corte, dal busto troppo lungo, si trasformava cantando, forse si alzava in punta di piedi, chissà?
Pareva più alta, pareva perfino più elegante, e nel viso non le si vedevano che gli occhi lucenti come stelle, la bocca rossa e i denti bianchi.
Quand’ebbe finito, tutti le furono intorno per lodarla, per stringerle la mano.
Camillo Bressani disse coraggiosamente alla Bergamini:
— Ma sa, signora, che è un gran peccato fare interrompere gli studi a una signorina che possiede i mezzi vocali e il talento di sua nipote?
La Bergamini si difese. Non era lei che l’obbligava ad interromperli; anzi, lei avrebbe fatto qualunque sacrifizio; ma sua nipote non voleva: era orgogliosa e le premeva di esser libera, indipendente.
Lucia non aprì bocca di fronte a tali accuse; non protestò. Solo i suoi occhi fissi in quelli di Antonietta dicevano il suo pensiero: si può forse studiare sentendosi rinfacciare tutti i giorni quello che si mangia, quello che si costa?
Nel prender congedo, quando si trovò davanti all’Angelica, la serrò al suo cuore, e la tenne alcuni momenti abbracciata.
— Tu dovevi essere la mia compagna... e invece mi tocca partire sola. Beata te!... Io sono contenta della tua felicità!... Addio. Ricordati di me qualche volta.
Anche le altre l’abbracciarono.
Gli uomini le strinsero la mano. Ella salutò tutti con serena cordialità; era tornata padrona di sè. Andava coraggiosamente incontro al suo destino di fanciulla povera, senza bellezza, invano baciata in fronte dal genio.