Signorine povere/Seconda parte/V

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V.

Quella sera Riccardo non si fece vedere al desinare della famiglia. Andò in camera a cambiarsi d’abiti; avvertì sua madre che andava a mangiar fuori con un amico; e uscì.

Per nulla al mondo avrebbe voluto trovarsi di fronte a Maria. Si sentiva oppresso, avvilito. Pensava disperatamente che tutto era finito; che Maria era perduta per lui; che invece del suo amore si era meritato il disprezzo. Ora più che mai ella lo avrebbe trovato rozzo, sgarbato, confrontandolo con quell’uomo falso dalle apparenze corrette, dalle maniere squisite.

Abile nel torturarsi, egli si diceva: „Forse la mia pazza frenesia la spingerà più presto in potere di lui“.

Uscito di casa s’incamminò verso il ponte senza scopo, senza mèta. Era l’ora in cui le vie cittadine sono relativamente spopolate perchè quasi tutti si ritirano nelle case, o nei ristoranti, nei caffè, negli alberghi; l’ora gaia per le famiglie che si riuniscono, per gli amici che si ritrovano dopo una giornata di lavoro; ma triste assai per i disgraziati che nessuno [p. 216 modifica]aspetta, nessuno invita, e non hanno denari da spendere.

Sul ponte di via Monforte, Riccardo fu avvicinato da uno di questi infelici. Era un uomo non ancora vecchio, che ad una certa distanza pareva vestito civilmente. Ben presto però si vedeva tutta la miseria di cui era afflitto. Gli abiti, anticamente di stoffa fine, mostravano la corda, come si dice; il cappello — un cilindro — rosso e spelato, faceva pietà, ma non aveva macchie, e le scarpe, quasi senza suole e ricucite qua e là con lo spago, eran pulite, anzi lucide.

Certo quell’uomo faceva sforzi incredibili per mantenersi un aspetto decoroso; ma il momento fatale che doveva rendere inutile ogni suo sforzo si avvicinava rapidamente. Presto i suoi piedi nudi sarebbero usciti dalle scarpe sfondate e l’ultimo colpo di spazzola avrebbe portato via ogni rimasuglio di pelo dall’infelice cilindro. Gli abiti, con l’aiuto di abili rammendature, potevano sostenersi un poco più a lungo. Ma la mancanza delle scarpe e del cappello avrebbe resa inutile la loro faticosa resistenza.

Riccardo fece queste considerazioni mentre lo sconosciuto gli stava dinanzi col cappello in mano. Al primo momento s’aspettava che gli cercasse del denaro; ma l’atteggiamento non era da mendicante. Forse un aggressore? La via era deserta. No... Quel volto scarno, quei [p. 217 modifica]lineamenti aperti avevano un’espressione buona e un raggio d’intelligenza negli occhi stanchi, cerchiati da larghi lividori.

— Ebbene — domandò il giovine, avendo prima risposto cortesemente al saluto di quell’uomo. — Io non la conosco. Chi è? Cosa vuole?...

L’altro si fece animo.

— Scusi, la prego. Non sono un ladro, nè un mendicante: sono un artista decaduto. Una volta fui celebre. Permetta che non le dica il mio nome. Ora canto nei caffè, nelle osterie, per le strade, dove capita. Due disgraziati come me mi accompagnano con la chitarra e il violinosi vive... la mia voce, piace ancora. Ma sono stato poco bene e ho dovuto riposarmi. E ora vede come sono ridotto.

— Vedo... Ma io ho pochi denari in tasca....

— Oh, non le chiedo del denaro! Scusi... Non vorrei scendere a questo... Ella è della mia statura.... il suo piede mi pare della misura del mio... Se ella potesse favorirmi un paio di scarpe meglio che queste... e un cappelluccio... Scusi, sa!

Vi erano delle lagrime nella voce di quell’uomo.

— Avrei anche un vestito! — esclamò Riccardo sorridendo. — Deve andarle bene.

— Grazie, signore. E dove dovrò recarmi?...

Riccardo stava per dare il proprio indirizzo; una sottile diffidenza lo trattenne. [p. 218 modifica]

— Domani mattina qui; verso le nove. E dove va a cantare di solito? Mi piacerebbe sentirla.

Di solito egli poteva entrare nei caffè e nei ristoranti più in voga; ma in quell’arnese non affrontava la luce; perciò quella sera non avrebbe cantato che in qualche ritrovo fuori di mano; nella penombra di qualche giardino.

La strana avventura aveva distratto il giovine dalle sue personali tristezze. Quel disgraziato, quello ex-artista, bislacco ma sincero, che si esprimeva bene, da persona educata, ed era caduto in tale miseria, aveva destato in lui uno sgomento nuovo: come se da uno spiraglio avesse fissato lo sguardo in un abisso di miserie e di patimenti non mai pensati, quantunque le amarezze della vita non gli fossero ignote.

Varcato il ponte svoltò a sinistra, camminando lungo il naviglio. Giunto al ponte di porta Venezia entrò sul Corso e si diresse verso il centro.

Erano le sette e mezzo. Ricominciava il movimento; le carrozze del tramway non passavano più quasi vuote come mezz’ora prima; molti uomini uscivano, fumando, dalle case; alcuni in compagnia di signore. Certi negozi sfarzosamente illuminati attiravano la curiosità dei passanti. Altri parevano addormentati nella penombra. Le venditrici chiacchieravano tra loro. In un negozio di guanti una signorina, seduta [p. 219 modifica]dietro il banco, rileggeva attentamente una lettera.

Sotto il Portico dei Bocconi — dove l’entrata ai magazzini col grande cancello chiuso e l’interna illuminazione aveva più che mai l’aspetto funebre di un peristilio di necropoli — una vecchia fioraia, vedendo quel bellissimo giovine, gli corso incontro con un garofano rosso, facendo l’atto di infilarglielo all’occhiello. Infastidito, egli la respinse, ma si pentì subito dell’atto ruvido e le gittò alcuni soldi nel paniere, pensando che forse aveva fame.

In Galleria trovò già la folla solita. Dai grandi caffè aperti usciva un rumore confuso di voci misto al cozzare delle stoviglie, e in tutto il vasto ambiente fino ai lucernari alti, si spandeva un colossale ronzìo di giganteschi alveari.

Riccardo si ricordò di una sera di carnevale che erano andati a pranzo al Biffi, tutta la famiglia, meno la nonnina, rimasta a custodire i bambini; e Antonietta, già a Pavia dai Pagliardi. Era il primo anno che Maria aveva avuto un posto di maestra, appena finiti gli studi. Non si poteva veder sola a Saronno e appena aveva due giorni di vacanza correva a casa. In quel tempo egli aveva cominciato ad amarla. Prima la considerava come una sorella, più intelligente di Eugenia e più allegra di Antonietta, quindi sorella preferita. Quando veniva a casa dal convitto magistrale si godeva [p. 220 modifica]a giocare con lei, ed era felice di andarla a trovare la domenica, ma sempre con affetto di fratello. Quando fu lontana si accorse che gli era necessaria: la grande città popolosa gli pareva vuota e non sapeva come impiegare le sue domeniche. Pure non capiva ancora che quel sentimento fosse amore.

Quella sera al Biffi, quella sera di carnevale, gli era rimasta indelebilmente scolpita nella memoria. Poteva rievocarla con tutti i suoi particolari. Dopo il pranzo andavano al Manzoni, dove Faustino Belli, che era con loro, aveva procurato il palco — un bel palco di prospetto — e le ragazze avevano indossato i loro migliori abiti. Maria aveva fin d’allora quell’aria nobile, raccolta, quell’espressione vaga di sognatrice. In certi momenti gli dava soggezione; non gli pareva possibile di aver fatto tanto il chiasso con lei negli ultimi anni dell’infanzia. A tavola le sedeva vicino; era il suo cavaliere, ma non sapeva servirla, goffo e scontroso.

Faustino Belli si permetteva di canzonarlo ed egli fremeva di rabbia, ma non si faceva scorgere, pauroso del ridicolo. Nessuno di quelli che lo circondavano avrebbe immaginato ciò che egli pensava. Allora sua madre si lasciava corteggiare da Faustino, il quale, per adularla, accarezzandone la vanità, trattava Eugenia e Maria come due bambine, assumendo con esse una bell’aria paterna. Egli l’odiava di già. Era [p. 221 modifica]il punto nero di quella deliziosa serata. Ma lo dimenticava contemplando Maria. Ella era così bella, così distinta! Gli piaceva soprattutto perchè non aveva ombra di posa; la sentiva semplice e differente dalle altre. Eugenia cercava ai quattro venti se le spuntasse una promettente figura di marito. Nel palco, Angelica stava seria e impettita per sembrare una ragazza di almeno quindici anni. E in teatro le Eugenie e le Angeliche erano a diecine. E non solo le ragazze, ma anche le signore, anche gli uomini recitavano una parte, avevano un secondo fine in tutto quello che facevano. Sua madre voleva piacere a tutti, essere nominata fra le più eleganti e le più belle; Faustino voleva che tutti gli invidiassero le sue buone fortune.

Maria non aveva sottintesi. Durante il pranzo si divertiva ingenuamente allo spettacolo svariato che le si offriva, e rideva e parlava allegramente come in casa. A teatro non esistevano per lei che gli attori e la rappresentazione, profondamente interessata dal dramma e dal magistero artistico. Nessuna occhiata furtiva alla platea, nessun desiderio di farsi vedere. La vera donna intellettuale e pura: l’eletta. E una donna così, una creatura di quel valore doveva dare l’anima sua a Faustino Belli, al gaudente parassita, al fedifrago, all’imbroglione?

„Ed io dovrei tollerare una tale rovina? Non sarà mai.“ [p. 222 modifica]

Questa protesta che gli usciva dal cuore lo esaltò per un momento. Ma la riflessione atterrò ben presto quella baldanza. Come impedire che ella amasse quell’uomo? Come separarli se si erano già intesi? Camminando a caso, con tali pensieri nella testa, Riccardo svoltò nel braccio destro della Galleria e s’imbattè in un amico che lo fermò e gli chiese se aveva desinato. Sentito che no, lo pregò di fargli compagnia.

— Veramente io volevo andare laggiù in Foro Bonaparte, a un piccolo ristorante, per sentire un certo tenore...

— ..... un tenore che va a cantare per i caffè? Lo conosco. Lo sentirai un’altra volta; può darsi che capiti anche qui. Andiamo, sii buono, fammi compagnia.

Erano davanti alla Fiaschetteria Toscana. Vi entrarono.

— Sia fatta la tua volontà — disse Riccardo sorridendo all’amico.

Molte persone pranzavano nella vasta sala: in gran parte stranieri, specialmente tedeschi.

L’amico di Riccardo era un giovanotto allegro, che viveva del proprio e a tempo perso faceva il pittore. Quando Riccardo si lamentava della sua noiosa vita d’impiegato, il dilettante di pittura gli diceva sorridendo:

— Se tu fossi un pittore saresti più infelice: ne conosco tanti che accetterebbero subito un [p. 223 modifica]impiego come il tuo, se fossero capaci di fare l’impiegato. Per far l’artista bisogna esser ricchi, o almeno aver da vivere; senza denari quella dell’artista è una professione da pazzi... o da minchioni.

Quella sera inveiva contro se stesso: si dava dell’imbecille a tutto spiano, perchè si arrovellava da sette mesi su un quadro impossibile, che non poteva condurre a termine come intendeva lui, e che l’avrebbe reso bersaglio alle beffe dei colleghi.

Riccardo lo ascoltava con interesse, pure non riuscendo a distrarsi completamente dalle proprie inquietudini; delle quali naturalmente non parlava.

A un certo punto entrarono nella sala due suonatori vestiti con molto decoro. Uno era giovane e cieco; l’altro, vecchio, tutto bianco, con una bella barba, alto, imponente, ma paralitico. Un dolore concentrato traspariva dal viso pallido e macilento del cieco; l’altro manifestava in tutto il suo atteggiamento una profonda, ma dignitosa rassegnazione. Cominciarono a sonare un pezzo serio, più da concerto che da caffè; pareva musica tedesca, di un’infinita tristezza, piena di poesia.

— E’ un buon violinista — disse il pittore: — è un artista questo povero cieco. Peccato che gli tocchi sonare con uno strumento meschino; tuttavia fa miracoli. [p. 224 modifica]

E l’ascoltavano con raccoglimento, il povero cieco.

— E’ singolare che tremando così, il vecchio riesca a prendere le note giuste — osservò Riccardo. — Deve fare una gran fatica.

Nella sala piena di gente, dove i pranzi volgevano al loro termine e le conversazioni si animavano eccitate dai vini e dai liquori, quasi nessuno faceva attenzione ai due musicisti. Forse solo Riccardo e il pittore li ascoltavano con interesse. Era evidente che il cieco sonava per sè, senza darsi alcun pensiero di quel pubblico distratto e per lui invisibile. Il vecchio, invece, con tutta la sua rassegnazione, non sapeva frenare certe occhiate sdegnose. Al primo pezzo ne seguì un altro, originale, appassionato. Era il canto d’un’anima desolata che cercava uno sfogo al proprio dolore. A momenti le note sembravano schianti, singhiozzi, gridi disperati. Allora il povero violino di dozzina gemeva e pareva sul punto di spezzarsi. Certo, lo stile del violinista non era molto elegante, nè sempre corretto, ma in compenso quanto slancio, quanta passione, quanta vita! Dopo la tempesta seguì un motivo soave, nel quale si sentiva la stanchezza di un’anima torturata e un tenero abbandono. Il viso del cieco mutava espressione: diveniva dolce, estatico, come se egli avesse contemplato dentro di sè una visione di paradiso. [p. 225 modifica]

Quando l’ultimo accordo morì nell’aria vibrante, il pittore disse:

— Noi soli l’abbiamo ammirato come merita; solo le nostre anime si sono unite alla sua ed egli non ne ha avuto alcun conforto; l’hanno ferito invece continuamente le voci indifferenti e volgari di queste bestie civili: così è la vita dell’artista. Noi sentiamo l'indifferenza, il disprezzo della folla, o le lodi banali che c’indispettiscono; ma la parola commossa e la delicata simpatia dell’essere che ci ha veramente compresi non giungono quasi mai fino a noi.

Riccardo trovò giuste le osservazioni dell’amico, quantunque egli pensasse che l’esercizio dell’arte debba dare all’artista la più grande soddisfazione. E in prova di ciò soggiungeva:

— Guarda quel povero cieco: la sua mano accarezza il violino, che egli deve amare nonostante la sua meschinità; e nel volto ha mutato colore e porta ancora l’impronta della ebbrezza artistica. Giurerei che non si cura di ciò che avviene intorno a lui, ma insegue le immagini destate dalla musica nel suo cervello.

— Tu ami l’arte come si ama una donna che non sarà mai nostra — mormorò il pittore sorridendo.

Intanto il vecchio si avvicinava alla loro tavola col piattino di metallo per raccogliere il loro obolo. Aveva l’aria di un professore d’Università, di un gran medico, di un consigliere, piuttosto che di un povero girovago. [p. 226 modifica]

E la sua mano tremava nonostante lo sforzo visibile che egli faceva per tenerla ferma. I due giovani furono generosi; e il povero diavolo li ringraziò con un leggero inchino e un pallido sorriso.

— Chi sa chi è stato costui — pensava Riccardo tristamente, mentre gli si riaffacciava la immagine del tenore decaduto che gli aveva chiesto un cappello e un paio di scarpe. Quello era ancora più giù nella miseria. Ma chi sa quanti ancora più in basso, che non osavano neppure mostrarsi. Da tutte le parti, in quella vasta sala, sfolgorante di luce, risonante di voci allegre di gente ben pasciuta, da tutte le parti egli vedeva sorgere uno stuolo di affamati d’ogni grado: da quelli che cercano di nascondere la loro povertà e soffrono mille tormenti per conservarsi un aspetto dignitoso, fino ai più cinici che mettono in mostra i loro luridi cenci e i corpi disfatti.

E improvvisamente, fra quelle strane immagini, gli parve di scorgere suo padre, lacero, vecchio, disfatto. Rabbrividì. Purtroppo, suo padre e tutti i suoi erano incamminati verso la rovina, verso la miseria. Quel tetro fantasma poteva essere un avvertimento della coscienza più che una bizzarra creazione della fantasia terrorizzata. Egli doveva pensarci, pensarci seriamente, poichè egli solo, forse, era responsabile. Oh! se Maria lo avesse amato! Loro due [p. 227 modifica]insieme potevano mettere argine alla rovina della vecchia casa; sostenere la volontà del suo capo; sottrarlo al disastroso potere della moglie e alle soperchierie di Faustino Belli.

Il pezzo di ringraziamento finiva gloriosamente con un tempo di marcia trionfale, maestosa, in mezzo al chiasso delle conversazioni e al cozzar dei bicchieri. Il pittore osservava Riccardo con simpatica attenzione.

— Hai sognato?

— Un poco.

— Beato te che sei ancora nell’età dei sogni.

— Non sempre i sogni sono belli.

— Andiamo a teatro?

— Non posso, scusami.

— Hai un appuntamento?

— Oh, no! Così fosse!

— Sei innamorato?

— E tu no?

— Io?... No davvero. Abbastanza mi fanno perdere la testa i colori; povero me se vi si unissero le donne... Non credere che le disprezzi. Tutt’altro. Mi piacciono molto, specialmente se sanno tener la posa...

Risero insieme e poco dopo si separarono.

Dalle case, dai caffè, usciva ora più numerosa la gente a godersi il fresco della sera.

In Galleria, sotto i portici e giù, lungo il Corso, fino ai giardini e su i bastioni la folla si [p. 228 modifica]riversava dalle case calde; dalle vie chiuse e strette, in cerca d’aria e di svago.

Riccardo s’incamminò verso casa. Ma per arrivarvi doveva traversare il Corso, e sul Corso trovò molte persone conoscenti con le quali dovette fermarsi. Quando arrivò, pensò che era presto e che nella sala avrebbe trovato Maria; e gli mancò il coraggio di salire. Andò avanti a caso rifacendo la strada che aveva fatto prima, fino al ponte. Giunto lì, invece di voltare sul naviglio, tirò diritto. La via Monforte, specialmente dal ponte in giù, era quel tempo una via di poca vita, senza trams, e, in confronto ai Corsi, quasi buia. Il bastione la chiudeva ancora sebbene l’apertura fosse decretata, e i picconi demolitori non attendessero che un ordine.

Riccardo pensava che Maria aveva fatto poche ore prima lo stesso cammino con Faustino Belli, e provava una voluttà amara nel ricalcare i loro passi, nell’evocare le loro figure una accanto all’altra e cercando d’indovinare i loro discorsi, torturandosi crudelmente, tanto che il più feroce nemico non avrebbe potuto fare di più.

Le aveva egli fatta la sua dichiarazione?... L’aveva ella accettata? Con quali parole? Certo con quel dolce sorriso!... E poi?... Si erano baciati? No, perchè era giorno, fortunatamente, e splendeva il sole. Ma vi sono parole che accarezzano e bruciano al pari dei baci, e Faustino [p. 229 modifica]Belli doveva saperle dire con quella sua voce profonda e insinuante.

Giunto sul bastione, Riccardo voltò verso porta Venezia. Nell’ombra passeggiavano le coppie amorose. Era quello il luogo, era quella l’ora. Due belle figure che si tenevano strette gli passarono accosto, quasi sfregandolo. Alto, elegante, dall’incedere svelto e nobile, l’uomo somigliava a Faustino... la donna... gli pareva di conoscerla. Il cuore si mise a picchiargli il petto con violenza. Guai se erano loro: guai!... Fece alcuni passi rapidi, li sorpassò, arrestandosi improvvisamente per vederli bene. In quel momento, quasi a sfidare la sua curiosità, l’uomo accese un fiammifero. Era un ignoto, un bellissimo giovane dai capelli biondi.

Altre coppie innamorate sedevano sulle panchine. I dolci bisbigli, i teneri sospiri volavano per l’aria.

Riccardo affrettò il passo maledicendoli tutti. Si amavano, erano felici... ed egli, solo e disprezzato, cercava invano un deserto per esalare la sua impotente collera. A porta Venezia entrò nei giardini. Una banda sonava. Vi era molta gente nei viali, molte signore. I tigli fioriti imbalsamavano l’aria. Riccardo andò verso quella parte. La fragranza deliziosa gli fece risentire il contatto della fanciulla amata. Oh! le labbra divine che nessun uomo aveva baciate prima di lui... Gli pareva ancora di sentirla fremere [p. 230 modifica]sotto i suoi baci. Chiuse gli occhi per rattenere un istante quella sensazione. Com’era bella Maria!... Com’era bianco il suo collo. La fragranza della sua carne tepida dava le vertigini. O Maria!

Due cocenti lagrime caddero sulle guancie del giovine. Si cacciò nell’ombra.

Una figura femminile che si era fermata a guardarlo, fece qualche passo verso di lui. Egli non la vide. Quando ritornò in piena luce, la donna gli passò daccanto, lo guardò e gli sorrise.

Era un invito c non interamente volgare, poichè la donna aveva gioventù e bellezza.

Un pensiero satanico traversò la mente di Riccardo. Seguire quella seducente apparizione e soffocare nella voluttà l’angoscia che lo torturava. Cancellare così, profanandola, la tormentosa dolcezza che il contatto della fanciulla amata aveva lasciato in tutto il suo essere. Perchè non avrebbe fatto come tutti gli altri? Non era sciocco di soffrire così, mentre avrebbe potuto godere la vita facile e spensierata di quasi tutti i suoi coetanei?

Era l’unica via per uscire dal sogno tormentoso della sua casta e fervida giovinezza. Tremò e vacillò d’orrore più che di voluttà, ma il fascino dell’orrore è forse il più terribile. No!... Il suo cuore si ribellava. Mai, mai. Che sarebbe di lui poi? Senza poesia, senza luce, avendo profanato l’amore, insozzata la diletta immagine della sua fanciulla, che sarebbe di lui?

E come farebbe a combattere Faustino Belli, [p. 231 modifica]non avendo più l’altera coscienza della propria superiorità? E se un giorno Maria, convinta che nessuno poteva amarla come egli l’amava, si fosse commossa e l’avesse amato, che dolore per lui di doverle confessare che l’aveva offesa così vigliaccamente, contaminando la sua dolce immagine, portandola seco tra le braccia d’una prostituta? O, non confessando, mentendo, mentendo sempre, per avere sempre dentro il cervello il ricordo di quella bassezza? No, no. Non egli sarebbe disceso per quella via nella melma dove si arrabattano tanti miserabili. Aveva giurato a se stesso di essere forte, di salire costantemente verso l’ideale.

Vedendolo immobile, supponendolo indeciso, la bella peccatrice, che l’aveva trovato di suo gusto, finse di allontanarsi, voltandosi poi per vedere se la sua astuzia le riusciva. Povera astuzia. Riccardo le aveva voltato le spalle e se ne andava tranquillamente verso la luce; così contento di sè, così glorioso nella sua giovanile vittoria da non sentire quasi più l’atroce pena che l’aveva incalzato tutta la sera. Ora non si vergognava più di aver ceduto all’impeto della passione vicino a Maria.

Quel momento di debolezza egli l’aveva riscattato, e poteva dire a se stesso con piena verità che l’amor suo, qualunque dovesse esserne il destino, nulla aveva di brutale.