Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 220 — |
a giocare con lei, ed era felice di andarla a trovare la domenica, ma sempre con affetto di fratello. Quando fu lontana si accorse che gli era necessaria: la grande città popolosa gli pareva vuota e non sapeva come impiegare le sue domeniche. Pure non capiva ancora che quel sentimento fosse amore.
Quella sera al Biffi, quella sera di carnevale, gli era rimasta indelebilmente scolpita nella memoria. Poteva rievocarla con tutti i suoi particolari. Dopo il pranzo andavano al Manzoni, dove Faustino Belli, che era con loro, aveva procurato il palco — un bel palco di prospetto — e le ragazze avevano indossato i loro migliori abiti. Maria aveva fin d’allora quell’aria nobile, raccolta, quell’espressione vaga di sognatrice. In certi momenti gli dava soggezione; non gli pareva possibile di aver fatto tanto il chiasso con lei negli ultimi anni dell’infanzia. A tavola le sedeva vicino; era il suo cavaliere, ma non sapeva servirla, goffo e scontroso.
Faustino Belli si permetteva di canzonarlo ed egli fremeva di rabbia, ma non si faceva scorgere, pauroso del ridicolo. Nessuno di quelli che lo circondavano avrebbe immaginato ciò che egli pensava. Allora sua madre si lasciava corteggiare da Faustino, il quale, per adularla, accarezzandone la vanità, trattava Eugenia e Maria come due bambine, assumendo con esse una bell’aria paterna. Egli l’odiava di già. Era