Signorine/La piccola Puccin

La pìccola Puccin

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Il tramonto della virtù Spaghetti con le acciughe

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LA PICCOLA PUCCIN

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Quando Puccin si presentò sull’orizzonte della vita, entrò bensì nel bell’appartamento di Almerigo Crosio — padre — una provetta levatrice con tutta la scienza, ma non venne l’esultanza.

Almerigo Crosio in quel giorno ricordò melanconicamente il tempo lontano, quando nella sua casa era comparso il primogenito; ed egli, nella notte della natività, aveva scritto queste parole «il Signore è venuto a visitarci. È un bambino!».

Il secondo nato capitò al mondo con tanta disinvoltura, come se ci fosse stato altre volte. Reclamò subito con uno strillo i suoi diritti: «non è pronta la colazione?» Un’attonita balia friulana, offerse il [p. 48 modifica]caffè-latte caldo all’impaziente. Crosio non scrisse nulla nell’albo.

Ma quando comparve la terza creatura, Crosio pensò che la sua signora provvedeva con troppo entusiasmo alla continuità della stirpe.

Di questa considerazione chi ne sofferse fu Giuseppa, la neonata, la innocente!

Con tanta abbondanza di bei nomi muliebri, fu imposto all’innocente questo nome di Giuseppa, tolto dal calendario nel dì della nascita.

Invano la piccola creatura faceva capire, con due grandi occhi attoniti, che anch’ella aveva diritto al caffè-latte in famiglia. Il fagottino di circa quattro chili fu portato via da una balia campagnola e non se ne parlò più. [p. 49 modifica]

Almerigo Crosio si ricordava di avere una figliuola quando scadeva il baliatico, alla fine del mese.

D’altronde la sua coscienza era tranquilla. Non solamente la balia era eccellente, ma il balio pure. Il quale, oltre che benestante campagnuolo, era anche letterato. Ogni mese costui elaborava una lettera di quattro pagine firmata Prosdocimi, nella quale lettera Crosio cercava una sola frase: «la bambina sta bene». Ma siccome questa frase richiedeva una ricerca e d’altra parte la lettera veniva per se stessa a significare «la bimba sta bene», così Crosio finì con non leggere più quel difficile documento. Ma oltre che scrittore, il balio si rivelò un bel giorno eccellente oratore.

Chè, un giorno, Crosio sentì nell’anticamera del suo studio la voce di un tale che domandava udienza.

— Voi siete? — chiese Almerigo Crosio.

— Io sono il balio. [p. 50 modifica]

— Ah, Prosdocimi! Scusate, non vi ravvisavo!

— Sissignore, Piero Medici, o Medici Piero, come si dice adesso.

— Benissimo, accomodatevi, amico mio: io ho sempre letto «Prosdocimi», ma non importa.

E Piero Medici fu fatto entrare.

— Dunque, la bambina sta bene?

— «Puccin» adesso sta bene.

— E chi è questo Puccin?

— La sua bambina! Noi l’abbiamo sempre chiamata così: Puccin!

Così infatti: da Giuseppa, Giuseppina; da Giuseppina, Beppa, Beppuccia, Puccia, quindi era venuto fuori un «Puccin».

Disse Crosio: — Oh, che forse è stata ammalata?

— In fin di vita.

— E non mi avete scritto niente?

— Noi abbiamo scritto — disse Piero Medici — e li aspettavamo. Puccin era ridotta bianca come quella carta, pesava come un passerino morto, e non si vedeva di vivo [p. 51 modifica]se non gli occhi. — E dopo questo esordio Piero Medici si diè a raccontare tutta la storia della malattia.

— Le spese da voi sostenute saranno state molte! — domandò Crosio.

— Oh, molte! — disse il villano.

— E avete fatto un conto approssimativo?

Rispose il villano: — Io ho tirato una somma di venti lire, soldo più soldo meno.

A questo punto ebbe fine il discorso di Piero Medici; ma a questo punto si turbò; fu un istante: Crosio lo vide levarsi in piedi, prendere un’aria risoluta, levar dalla tasca interna della giacchetta una borsa piena d’argento che posò sul tavolo.

— Senta — disse Piero Medici — io le abbuono le venti lire, le abbuono il baliatico, le regalo questa qui... E lei ci lascia Puccin.

Almerigo Crosio scoppiò in una risata.

— Dunque lei non accetta? — chiese Pietro Medici.

— Ma volete che io venda i miei [p. 52 modifica]figliuoli? O che li pigliate voi per capretti, per vitelli, per galline? Be’?

Ma non ebbe voglia di ridere ancora; Almerigo Crosio prese l’aspra mano di Piero Medici e la strinse affettuosamente.

— Ah, Puccin! dover perdere Puccin! — ripeteva il villano. — Noi che eravamo così sicuri che lei ci avrebbe lasciata Puccin! Me la lascino almeno per un altro anno, povera Puccin; tanto da vederla grande!

E fu così che Puccin rimase a balia sino ai tre anni e da quel giorno Almerigo Crosio lesse le lettere di Piero Medici, e qualche volta pensò alla derelitta Puccin.

In un bel giorno d’aprile Almerigo Crosio si mosse per andar a prendere questa sua abbandonata bambina. Alla soglia della casa rustica Almerigo Crosio era atteso. Piero Medici e sua moglie avevano in mezzo una [p. 53 modifica]bambina con i capelli biondi, ben pettinati e spartiti, e con le sottanine di lana rosa.

— Quello lì è il papà! — disse Piero Medici.

— Quello lì il papà? — domandò dolcemente Puccin.

— Sì, sono io il papà — confermò Crosio piegando le ginocchia per mettersi all’altezza del volto di Puccin.

Puccin a questa affermazione credette docilmente: congiunse e sporse i labbruzzi.

— Le vuol dare un bacio — avvertì la balia. — Non vede?

Allora Almerigo Crosio accostò la pelle del suo volto e sentì premere contro di sè la delicata freschezza di Puccin.

— Ma mi conosce? — domandò Almerigo Crosio, levandosi in piedi.

— Sicuro, li conosce tutti — rispose la balia. — Ed anche i fratelli. Vuol sentire? Puccin, dove è il papà?

— A Venezia!

— Dov’è la mamma?

— Di sopra. [p. 54 modifica]

— Perchè di sopra? — domandò Almerigo Crosio.

— Perchè c’è un ritratto della Madonna della Seggiola e le abbiamo dato ad intendere che quella è la mamma.

— E Pio e Mondino (erano i nomi dei fratelli) dove sono?

— Tutti a Venezia! — rispose con voce dolce e pacata Puccin.

Avete voi mai posto mente alla voce dei bimbi quando cominciano a far le prime prove dei suoni delle parole? Pare che quella voce provenga di lontano.

Almerigo Crosio domandò:

— E tu vuoi venire a Venezia?

— Non si dice «voglio» — corresse Puccin — ma si dice: «per piacere!».

I balî sorrisero, e spiegarono che [p. 55 modifica]avevano insegnato a Puccin che non si deve mai dire «voglio», ma sempre «per piacere».

— Perchè non si deve dir «voglio?» — domandò il balio.

Puccin allargò le braccine con un gesto rassegnato e disse (ora teneva i grandi occhi in su come per scrutare quell’uomo nuovo a cui andava connesso il nome di padre): — Perchè l’erba del «voglio» non cresce neanche nei giardini del Papa.

— Dunque hai piacere?

— Sì, piacere.

Puccin dopo questa risposta si era allontanata, e ritornò poco dopo.

Aveva un cestellino di giunco sotto il braccio: nel cestellino c’era un pezzo di pane ed una bambola miserabile.

— Quando le si dice di andare a Venezia, lei corre a prendere il suo cestino e la sua pupa — spiegò la balia.

E Puccin pure seguitava ad imitare i buffi del fumo del treno che vedeva passare di lontano; e l’amico fedele, il cane di Piero Medici, abbaiava. [p. 56 modifica]

Almerigo Crosio e Puccin salirono soli nel treno.

— Lo zio Piero e la zia Nena — disse Puccin con l’abituale sua placidezza, additando i balii che si allontanavano.

— Ci volevi bene?

— Oh, sì, Puccin ci vuol tanto bene! E anche alla bebè.

Ma Puccin in quell’istante era molto occupata ad osservare la instabile dimora dove si trovava. Le scosse del treno trasportavano Puccin da un punto del cuscino ad un punto del cuscino opposto. Spesso le movenze erano comiche: il bianco del grembialino davanti, lo scarlatto della vestina di dietro, l’onda dei capelli, agitati dalle scosse, apparivano ogni tanto; e ogni tanto le pupille si rivolgevano attonite, spaurite, per domandare:

«Ma, signor padre, come va tutto questo che qui non si sta mai fermi?».

Il padre, Almerigo Crosio, seduto in un [p. 57 modifica]angolo, guardava. Guardava Puccin, e questo pensiero diabolico si delineò nella mente così: «lasciare aperto lo sportello opposto: attendere che Puccin vi batta contro». Non avrebbe sentito neppure un grido: il rosso, il bianco, l’oro dei capelli, travolti: un istante; poi nulla, più nulla!

Ma Almerigo Crosio al pensiero diabolico rabbrividì, si alzò, andò all’altro sportello e si rassicurò che fosse ben chiuso; ma nel ritornare al suo angolo, prese Puccin per l’uno e per l’altro polso, davanti a sè, stringendo a pena: poi nel premere andò sempre crescendo. Voleva vedere gl’imperturbabili occhi lagrimare, voleva udire la soave voce tramutarsi nel pianto, voleva che Puccin provasse paura, non fiducia, di trovarsi con lui. Qualche piccola cosa pur il demonio domanda! E stringeva!

E Puccin fissava attonita: l’ombra della paura le oscurava il volto, le labbra fecero boccuccia brincia per il dolore, ma non per piangere, bensì per offrire il solo [p. 58 modifica]omaggio che poteva offrire a riscatto della sua pena: un bacio!

Allora le mani di Almerigo Crosio si allentarono. Ah, se i bambini non fossero belli! Se il contatto della loro epidermide non fosse perturbante!

E Almerigo Crosio s’avvide che il sigaro che stava fumando era pessimo, perchè lo faceva stranamente lagrimare. Ma no! Puccin mostrava di avere una fiducia illimitata in quell’incognito che gli era stato presentato sotto il nome di padre: fiducia piena di grazia e di purità: da lui, da lei era venuta fuori quella purità.

Almerigo Crosio prese presso di sè Puccin, se la ricoverò fra le braccia e la baciò a lungo: provava come un refrigerio nel contatto di quella freschezza.

La riguardò a lungo e da quel volto venivano fuori delle reminiscenze di sè; anni molto lontani, quando egli, Crosio, sedeva in grembo della madre sua!

Puro il mattino, soli nel treno: il treno correva con non so quale festività leggera. [p. 59 modifica]

E Puccin cominciò una serie di domande complicate, difficili, insistenti, strane, alcuna volta paurosamente profonde e senza possibilità di risposta.

Una sola domanda non venne: questa: «perchè, caro padre, e cara madre, mi avete messa al mondo?».

Puccin — come giunse a casa — fu accolta con segni di giubilo dalla mamma e dai fratelli. Ma ella non ne parve eccessivamente commossa.

Ai suoi signori fratelli fece poi sin dalle prime mattine comprendere che ella, come era disposta ad osservare i suoi doveri, così intendeva salvaguardare i suoi diritti: perciò divisione in tre parti uguali del caffè e latte! Avrebbe fatto il possibile per dare il minor disturbo nella casa: e infatti in un angolo, presso una seggiolina, Puccin badava silenziosamente alla sua bambola miserabile. Di quando in quando — però [p. 60 modifica]— la coglievano dei frulli di bizzaria. Correva di stanza in stanza, spalancava gli usci e si fermava in attitudine di reginella su le soglie. La qual cosa si poteva interpretare, o come un bisogno di maggiore spazio o come un’affermazione della sua proprietà.

Così pure ogni tanto si fissava nel vuoto, cercando nelle chiuse stanze ciò a cui la sua pupilla era abituata: il verde dei campi, l’azzurro dei cieli.

— Bù! Bù! — faceva ogni tanto, e forse chiamava per reminiscenza il buon cane.

Ma poichè il cane più non appariva, così Puccin docilmente ritornava alla sua misera bambola.

Puccin, sì per sempre Puccin!

— Come ti chiami, bella bambina? — le chiedevano quelli di casa facendole intorno corona. — Ti chiameremo Signorina Iosephine.

— No, Puccin! — ed era solo per questo che Puccin diventava rossa di rabbia. Voleva che le fosse serbato il nome che Piero e Nena, i buoni villani, le avevano dato.