Scritti politici e autobiografici/Come Turati lasciò l'Italia

Come Turati lasciò l'Italia

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Matteotti: eroe tutto prosa A Filippo Turati. Dal carcere di Savona
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COME TURATI LASCIÒ L’ITALIA1


Prima che il tempo attenui la memoria delle cose vissute io vorrei consegnare, su questo foglio, ch’Egli tanto amò, un ricordo della sua evasione; una delle più aspre, certo la più dolorosa, di quante vide l’Italia dopo la promulgazione delle leggi eccezionali.

Un doveroso riserbo non consente che una rievocazione sommaria; ma i particolari taciuti non saranno tali da modificare, nell’insieme, il racconto. [p. 18 modifica]

Come Filippo Turati si risolse all’esilio?

Oh, non di slancio, col giovanile ardore di chi, avendo la vita dinanzi a sé, è sicuro di rivedere un giorno, nell’attimo sublime della liberazione, la patria! Turati, lasciando Milano e l’Italia, intuiva che il viaggio sarebbe stato senza ritorno, presentiva che la Morte lo avrebbe ghermito in esilio come tanti grandi italiani che per troppo amore d’Italia dovettero fuggirne il suolo usurpato.

Un vecchio non si sradica senza profondissime lacerazioni dal suo centro abituale di affetti, di interessi, di vita, dalla vecchia casa dove una stanza vuota richiama senza posa alla mente la compagna dei giorni felici e prepara senza rimpianti all’idea della morte. Quando poi questo vecchio è Filippo Turati, animo delicato di poeta dalla sensibilità raffinata e dolorosa, la lacerazione diviene crollo, terremoto psicologico e morale.

E neppure va taciuta l’indegna congiura che pochi deboli e vili ordirono intorno a lui in quei giorni per dissuaderlo a non lasciare Milano, a preservare il corpo ormai fragile dalle fatiche e emozioni dell’evasione, ma soprattutto a non abbandonarli — come dicevano — alle rappresaglie del dittatore irato. Perché questa congiura rende ancora più bella la virile risoluzione presa nel fuoco dei contrari pareri, sotto il peso degli anni e degli affanni, e getta un bagliore di luce rivelatrice sul suo altissimo senso del dovere e su quella che fu, come bene ha ricordato Adler, la sua virtù cardinale [p. 19 modifica]in ogni frangente della vita e della carriera politica: l’intransigenza morale. Turati capo partito poté qualche volta peccare per indulgenza e indecisione, qualità d’altronde bellissime dell’uomo Turati; ma reagì sempre fieramente a ogni calcolo meschino, a ogni consiglio vile.

Come dimenticare quel drammatico colloquio mattutino nella domenica in cui si iniziò l’evasione — 21 novembre 1926 — , colloquio che servì a prendere gli ultimi accordi per sottrarlo con uno stratagemma dall’appartamento che dieci guardie notte e giorno vigilavano?

Gli occhi dolorosi, quegli stessi occhi che rivedemmo poi alla vigilia dell’agonia, posava Egli sulle care dolci cose con le quali aveva convissuto trent’anni: il piccolo canapè verde nell’angolo da cui Ella, malata, sorrideva ai fedeli amici; la scrivania che nelle lunghe veglie prolungantisi sino all’alba, aveva conosciuto la redazione dei discorsi e degli scritti più celebri, le vetrine coi libri, libri innumerevoli, dossiers ammonticchiati, la Critica Sociale, cervello di una generazione italiana; l’immensa finestra vetrata, occhio spalancato sulla fantastica serie di torri, cuspidi, pinnacoli della cattedrale ambrosiana.

Sospirava il Grande Vecchio e l’espressione del suo viso era così straziante che per un attimo dubitai non reggesse a così immenso dolore. «Turati — mormorai timido — se la Signora Anna fosse qui, forse anche [p. 20 modifica]lei......» — «Oh, non facciamo parlare i morti», mi replicò dolorosamente.

Tacque. Sospirò ancora ponendosi la mano sul cuore, tanto forte pulsava; poi, con voce rassegnata, decise.

Ci saremmo rivisti alle 21.

Turati era l’uomo politico più popolare d’Italia. L’odio che il dittatore gli portava e che non ha ceduto neppure di fronte alla morte, era per tre quarti dovuto alla segreta invidia che destava in lui la popolarità di Turati, popolarità spontanea, commovente, resistente a tutte le avversità ed a tutte le sconfitte. Quando, per quella disciplina che lo induceva a fare tutto personalmente, scendeva ogni sera a impostare il voluminoso corriere, anche gli avversari si fermavano tra incuriositi e ammirati per segnarselo a dito: «L’è el Turati!» Quante volte salito sul tram, doveva schermirsi dalle dimostrazioni di affetto dei fattorino, del passeggero ignoto che voleva a ogni costo baciargli la mano......

Perciò la fuga di Turati era doppiamente rischiosa. Anche se si fosse riusciti a sortire inosservati dal palazzo sovrastante i portici sempre affollati, rimaneva il problema dell’avvicinamento alla frontiera ormai munita, l’imprevisto dell’incontro, del riconoscimento fortuito.

L’uscita avvenne senza incidenti. Per colmo di precauzione una coppia complice con un giornale spiegato e un cane al guinzaglio diede di cozzo, al momento decisivo, contro due agenti di stazione a uno [p. 21 modifica]dei portoni. Proteste, scuse, tiro di corda al cane...... ma intanto Turati, la barba nascosta e il cappello calato sugli occhi, aveva varcato il portone a lui inconsueto.

Dopo una breve sosta in casa amica, fu condotto a Caronno Ghiringhello, in quel di Varese, in una villetta di proprietà di Ettore Albini, critico dell’Avanti! e bella tempra di socialista.

In casa di Albini, cui tenemmo celato il disegno di espatrio, Turati avrebbe dovuto trattenersi un sol giorno. Ve ne dovette invece trascorrere undici, tediosissimi, in un’atmosfera fumosa da baracchetta di guerra, battendo la notte i denti in un’immensa stanza gelata. Il ritardo era dovuto all’improvviso chiudersi della via comasca su cui si contava. La sorveglianza essendosi fatta fortissima in tutta la zona, dopo nuove e vane ricerche, ci si risolse per la via del mare.

Troppo lungo sarebbe raccontare le ansie, i tormenti, le corse febbrili che facemmo in quei giorni con Parri e Pertini, cui si aggiunsero Oxilia, Da Bove, Boyancè. Per cinque giorni la polizia fu ingannata e continuò a montare la guardia alla casa vuota; ma al venerdì l’allarme fu dato. Un ispettore generale piombò a Milano con l’ordine personale di Mussolini di ritrovare ad ogni costo Turati, di impedire, come ebbe ad esprimersi, «un atto inutilmente, stupidamente irreparabile». Tutte le stazioni dei carabinieri furono mobilitate, una per una vennero visitate le case amiche, minacciati gli intimi, arrestati portieri, [p. 22 modifica]domestici, mentre una ricerca sistematica in tutte le possibili ville complici veniva ordinata. Il fatto che dopo tanti giorni nessuna notizia dell’arrivo di Turati in terra straniera trapelasse, raddoppiava l’energia poliziesca.

La situazione già grave, si fece insostenibile quando alla muta si unì, vogliamo credere per cieca debolezza, uno pseudo amico del Turati, fornendo indicazioni preziose. V’era di che impazzire. Essere ripresi così, le mani nel sacco, vederlo rientrare a Milano tra le beffe fasciste, accompagnato da tutta la polizzottaglia autorizzata ormai a tutti gli arbitrî, vederlo rinchiudere definitivamente in una casa cui solo i vili e i venduti avrebbeto avuto libero l’accesso, era per tutti noi, era per Turati un incubo. Recandogli un giorno l’annunzio di un nuovo rinvio mi mostrò la rivoltella carica sotto il cuscino e mi avvertì che non si sarebbe lasciato prendere vivo.

Il giovedì 2 dicembre, la polizia era riuscita a stabilire che Albini era scomparso da vari giorni dal suo domicilio. Indagava per sapere dove fosse e se avesse una casa in campagna. Decidemmo un immediato spostamento notturno. Turati fu prelevato all’improvviso, sotto gli occhi stupefatti degli ospiti, e portato con una lunga corsa notturna in un’altra regione. La polizia arrivò poche ore dopo con a capo prefetto, ispettore, amico sicuro della preda. E Albini pagò la delusione con 8 mesi di carcere sopportati in modo esemplare. [p. 23 modifica]

La caccia riprese. Il motoscafo su cui contavamo si rivelò alle prove insufficiente. Nuovo spostamento di Turati. A Milano intanto gli amici ci annunciavano raggianti che Turati era stato visto a Lugano a braccetto di Canevascini.

Al motoscafo sostituimmo una barca a motore, mentre Turati compieva l’ultimo definitivo spostamento notturno sugli Appennini gelati. Preceduti da una automobile staffetta viaggiammo dalle otto di sera alle tre del mattino. Turati fumava filosoficamente. Di tanto in tanto, girando il capo verso l’interno della vettura, scorgevo il cerchio rosso del sigaro acceso, segno indubbio che il vecchio reggeva.

Mancato l’appuntamento, stanchi morti, osammo l’albergo presentandoci come babbo e figliolo, dormendo, caro Turati, nello stesso letto.

Savona. Nuova attesa di cinque giorni: paziente Turati, ammirevole Turati, prigioniero da venti giorni della sua fuga. Si giuoca ormai l’ultima partita. La riviera è posta in stato d’assedio per la cattura dell’inafferabile Sante Pollastri. Sui treni e sulle strade la sorveglianza si è fatta ossessionante. Oxilia, che si recava a Genova in automobile per acquistare uno strumento marino, viene fermato alle porte di Savona da una pattuglia di carabinieri coi moschetti puntati. Motoscafi armati incrociano davanti a Ventimiglia.

Finalmente il 12 dicembre, alle ore 20 di sera, si parte. L’appuntamento è su un punto deserto della costa di Vado. Il tempo, bellissimo nei giorni di at[p. 24 modifica]tesa, si è improvvisamente mutato: un forte vento di libeccio spira. Eccoci tutti appiattati dietro i sassi, sui margini della strada, in vista del molo abbandonato. Di tanto in tanto i fari di un’automobile fanno trattenere il fiato e chinare il capo. Parri ispeziona la costa. Nulla. Il vento raddoppia di violenza e le onde si frangono con grandi spume sul molo. Al luogo dell’appuntamento invece della barca troviamo un veliero guardato da un agente daziario.

Siamo già in piedi per rincasare, quando il rumore di un’automobile ci ributta per terra. L’automobile rallenta, si ferma. Un tuffo al cuore: siamo stati traditi. La figura di Oxilia appare. Con voce ansante ci invita a salire in otto sulla vettura: «Non si può partire di qui, partiamo dai Pesci Vivi» (osteria ai margini del porto di Savona). Scaricati ai Pesci Vivi scendiamo la ripida scaletta, ci imbarchiamo a pochi passi dagli agenti. Comandi secchi, la barca si scosta. «Buona pesca» ci grida all’uscita un pescatore. «Grazie».

Il pesce grosso ha rotto la rete e corre verso l’alto mare. Pertini intona l’Internazionale, mentre noi guardiamo scomparire le luci d’Italia.

Dodici ore durò la traversata, orribile. Più volte dovemmo darci il cambio alla pompa per eliminare l’acqua che ogni ondata ci regalava. Oxilia e Dabove, mirabili lupi di mare, si davano il cambio al timone, sapientemente accogliendo le ondate. Al mattino, dopo novanta miglia di navigazione, Capo Corso rimaneva introvabile. Una nuvolaglia bruna impediva la vista: [p. 25 modifica]è un momento di smarrimento e di incertezza a bordo. Si discute per sapere dove stia di casa la Corsica. Forse è quella nuvolaglia a sinistra, lontanissima; il vento ci aveva fatto deviare dalla rotta sensibilmente. Col mutamento di rotta la danza si fa più selvaggia. L’onda sbatte con violenza sulla fragile chiglia e pare debba ad ogni colpo schiantarsi.

Turati, steso sui cordami a prua, resiste stupendamente al mare, e solo nelle ultime ore sembra soffrire. È calmo, mirabilmente calmo, indifferente a tutti i destini. Ha lasciato la sua casa, i suoi morti, Milano, l’Italia; ormai tutto è eguale. Annegare in mare o annegare in esilio, a settant’anni......

Ma ecco la linea dei monti farsi più chiara col M. Cinto che tutti li sovrasta. L’isola Rossa ci saluta, ci saluta il sole. Calvi svela il suo forte proteso sul mare. Il mare, via via che ci avviciniamo alla costa, si rabbonisce fino a farsi calmissimo. Navighiamo ora in un’atmosfera di sogno, ritti in piedi protesi verso la terra amica.

Entriamo in rada alle dieci del mattino, sfiniti, inzuppati ma felici. Scendiamo. Turati è subito riconosciuto. Sbrigate le pratiche con la polizia, il circolo repubblicano locale improvvisa un ricevimento. Turati si schermisce, è stanco dopo la terribile notte. Ma gli altri insistono e conviene cedere. «Au nom de la démocratie française, au nom de la Corse......». Il leader locale saluta l’Italia, l’antifascismo, Turati.

Turati si alza. È miracoloso il vecchio. Risponde [p. 26 modifica]in perfetto francese, improvvisando uno di quelle causeries in cui andava maestro. Descrive l’Italia in catene, parla della lotta per la libertà, saluta la libera terra di Francia...... La stanchezza, la traversata, il mal di mare, tutto finito. Il vecchio sauro scalpita, il sangue sempre giovane ribolle. Ah! Turati, come ti vogliamo bene, quanto sei bravo, Turati. Ora tu stesso vedi da questo primo incontro quanto preziosa potrà essere la tua presenza all’estero.

Il giorno dopo ripartiamo. Egli non vorrebbe. Al mattino è venuto lui stesso a svegliarci e ci tratta come figlioli. Ci abbracciamo.

Dal piccolo molo di Calvi, con Pertini a fianco, agita a lungo il fazzoletto mentre le lacrime gli rigano il volto.

Addio, Turati, addio. Anzi, arrivederci, presto, in Italia.

E invece no. Turati è morto a Parigi, e Pertini è in carcere, dove certo già è volata la tremenda notizia, e Parri è ancora una volta a Lipari e noi torniamo dal cimitero.

Da quel luminoso mattino di Calvi ad oggi, quasi sei anni, sei anni di esilio sono passati. E Turati è morto. Hai aspettato tanto, Turati, e forse hai sperato di poter tornare, per morire.

Ogni 26 novembre, ogni Capo d’anno, ti dicevamo: torneremo insieme, Turati, in Italia, a Milano. Ma da qualche tempo in qua, egli, guardandoci con quei suoi [p. 27 modifica]occhi supremamente umani, ci rispondeva scuotendo il capo leonino: no, io non tornerò; voi tornerete.

Eppure, sicuro com’era ormai di non tornare, di non rivedere l’alba della libertà italiana, di non contemplare dalla sua finestra Milano ai suoi piedi acclamante, Egli non ha piegato, e fino all’ultima ora della sua giornata mortale ha dedicato tutto di sè alla causa. Suprema lezione di dignità, di attaccamento al dovere. L’ironista, il letterato che ci poté apparire alle volte scettico per il suo vezzo di scherzare su tutto, era uno stoico per il quale la vita era una cosa straordinariamente seria, per il quale non il successo conta ma la intrinseca moralità.

Turati è morto; a noi non resta che continuare, forti del suo esempio e del suo sacrificio, con la melanconia profonda che lasciano questi distacchi, la nostra, la Sua battaglia.

Note

  1. Dopo avere, nel 1925, stampato a Firenze il foglio clandestino «Non mollare» e nel 1926 diretto a Milano la rivista di coltura socialista «Il Quarto Stato», Rosselli aiutò validamente, quando il regime fascista istituì le leggi eccezionali, l’emigrazione di personalità antifasciste. La più celebre di queste evasioni fu quella di Filippo Turati, patriarca del socialismo italiano. Essa costò a Rosselli prigione e confino. Togliamo questi suoi ricordi sulla fuga di Turati, dalla «Libertà» giornale della Concentrazione Antifascista, pubblicato a Parigi. Lo scritto del Rosselli apparve il 14 aprile 1932.