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in ogni frangente della vita e della carriera politica: l’intransigenza morale. Turati capo partito poté qualche volta peccare per indulgenza e indecisione, qualità d’altronde bellissime dell’uomo Turati; ma reagì sempre fieramente a ogni calcolo meschino, a ogni consiglio vile.
Come dimenticare quel drammatico colloquio mattutino nella domenica in cui si iniziò l’evasione — 21 novembre 1926 — , colloquio che servì a prendere gli ultimi accordi per sottrarlo con uno stratagemma dall’appartamento che dieci guardie notte e giorno vigilavano?
Gli occhi dolorosi, quegli stessi occhi che rivedemmo poi alla vigilia dell’agonia, posava Egli sulle care dolci cose con le quali aveva convissuto trent’anni: il piccolo canapè verde nell’angolo da cui Ella, malata, sorrideva ai fedeli amici; la scrivania che nelle lunghe veglie prolungantisi sino all’alba, aveva conosciuto la redazione dei discorsi e degli scritti più celebri, le vetrine coi libri, libri innumerevoli, dossiers ammonticchiati, la Critica Sociale, cervello di una generazione italiana; l’immensa finestra vetrata, occhio spalancato sulla fantastica serie di torri, cuspidi, pinnacoli della cattedrale ambrosiana.
Sospirava il Grande Vecchio e l’espressione del suo viso era così straziante che per un attimo dubitai non reggesse a così immenso dolore. «Turati — mormorai timido — se la Signora Anna fosse qui, forse anche
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