Satire di Tito Petronio Arbitro/Note

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Note
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NOTE

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Pagina 3, linea 7.

Senatore, autor di due satire, l’una contro i sacerdoti del tempo suo, l’altra contro i senatori, che facean traffico di giustizia. Per quest’ultima Nerone lo esiliò. Tacito negli Annali lib. 14. Giovenale nella sat. 4 fa menzione della sperticata sua cortigianeria.


Pag. 4, lin. 6.

Conditi di papavere e di sesamo, dice il testo: due ingredienti di un gusto piccante, ma senza sapore: forse io avrei meglio reso la lettera, e il senso originale traducendo discorsetti dolciati, e brodi lunghi.


Pag. 4, lin. 18.

Nove lirici principali cantò la Grecia: Pindaro, Alceo, Stesicoro, Anacreonte, Ibico, Bacchilide, Simonide, Alcmano e Saffo.


Pag. 5, lin. 10.

Nella orazione in favor di Celio.


Pag. 6, lin. 3.

Poeta satirico paragonato da Orazio ad un torrente che insieme a quantità di fango trasporta qualche gemma. [p. 233 modifica]Pag. 6, lin. 15.

Atene.


Pag. 6, lin. 16.

Taranto, colonia de’ Lacedemoni.


Pag. 6, lin. 16.

Napoli.


Pag. 7, lin. 19.

Fazzoletto di lana, con che le donne volgari si coprivan la testa, presso a poco come il mezaro delle Genovesi nostre. Altri ha creduto che la vecchia in questo luogo si avesse alzato il gonnellino, ed altri che allargando il mantello allo smarrito giovine, gli usasse un atto sconcio. E che non credon gl’interpreti? Ma poi ch’ella indicò una casa, dove il giovine entrò, questo modo di scoprirsi nell’atto stesso la faccia, è una gentilezza, nè parmi che giovi malignar sulle voci per ispiegarle oscenamente, tanto più che Petronio non scrupoleggia gran fatto in queste materie, e le scrive

Senza velami o giri di parole.


Pag. 7, lin. 22.

Ne’ luoghi di postribolo, come anche ai tempi nostri in alcune grandi città, una iscrizione posta sopra ogni uscio annunciava il nome della cortigiana che vi abitava, e il prezzo ch’ella esigeva. Giovenale dice di Messalina, che ita in uno di codesti bordelli prese il nome di Licisca, titulum mentita Liciscæ (sat. 6), e così fece porre sul cartello, giacchè la voce titulum indica l’iscrizione. Abbiamo da Apollonio Tirio una di codeste iscrizioni, ch’è riportata in quasi tutte le edizioni di Petronio nelle note, ed è questa: Quicumque Tarsiam defloraverit, mediam libram dabit, postea populo patebit ad singulos solidos.


Pag. 10, lin. 3.

Avvertono alcuni commentatori, che un gladiatore [p. 234 modifica]condannato a morire, era mandato a combattere sopra un tavolato eretto nell’arena, il quale spalancavasi improvvisamente, gittando il reo in bocca ai leoni, che vi eran sotto appiattati.


Pag, 16, lin. 5.

Il Sistro era uno stromento di metallo consagrato dagli Egizj alla dea Iside, i cui sacerdoti se ne valeano per accompagnar colla musica i loro sacrifizj, e da ciò eran detti Sistriati.


Pag. 17, lin. 4.

Da queste parole il signor Ignarra nella sua dissertatone De Palaestra Neapolitana deduce due prove: la prima che il luogo qui citato fosse Ercolano, che ai tempi di Tito rimase sepolto sotto le lave del Vesuvio, e che ora dal portico di cui era ornato il tempio d’Ercole chiamasi Portici, ed è villeggiatura reale; la seconda che le aggiunte attribuite al signor Nodot, e che la maggior parte de’ critici rifiuta, appartengano veramente al testo originale di Petronio, e quindi abbiansi ad avere come parte integrante di quest’opera. Del che noi abbiamo abbastanza parlato nella prefazione.


Pag. 19, lin. 9.

Questo Epigramma trovavasi prima tra i frammenti di Petronio, appartenenti ai Satiricon, che non sapevasi ove collocare. Ma il Codice di Belgrado trovato dal signor Nodot lo pone in questo luogo, e par che ci calzi.


Pag. 22, lin. 14.

Credono alcuni, che qui si alluda al luogo, dove Nerone mandava a vendere quanto egli nel furore delle sue notturne pazzie, e per una invincibile inclinazione al furto, come avverte Tacito nel libro 15, andava rubacchiando.


Pag. 24, lin. 12.

Forse specie di sgherri, o d’imbroglioni, che stavano sullo spiar le occasioni di buscar danaro alle altrui spalle. [p. 235 modifica]Pag. 26, lin. 3.

L’ortolana che accompagnò Encolpo, e la donna venuta poco sopra col villano, e queste, ed altre in seguito, sono sempre descritte aver la testa velata. Fu diffatti costante uso delle donne romane di non sortire giammai senza velo o pannolino sul capo, come in tutti i tempi e quasi in tutte le nazioni le femmine hanno praticato, e spesso per un precetto di religione.


Pag. 26, lin. 22.

Il signor Ignarra in una sua nota a pag. 187 della citata opera avverte esistere tuttavia codesta Grotta in vicinanza di Napoli, e cita in proposito questo passo di Petronio.


Pag. 27, lin. 4.

Est dignus Roma locus quo Deus omnis eat.


Pag. 27, lin. 13.

Così mi è sembrato poter tradurre le parole monstrata subtilitate per alludere ad una maniera di dire italiana, colla quale per indicare malattia etica, o all’etisia tendente, per disordini giovanili, o per debolezza di petto, suol dirsi mal sottile.


Pag. 27, lin. 22.

Misti, forse derivazione dalla voce mysterium, erano detti i sacerdoti che ad un tempo stesso servivano al culto di Bacco e di Priapo. Nelle cerimonie relative a Priapo portavano alcune immagini dette Phalli, d’onde eran detti Phalliphori.


Pag. 30, lin. 33.

Ognun sa che i Romani usavan mangiare distesi sopra letti presso a poco della forma dei moderni sofà, tenendosi rialzati sul gomito sinistro, onde servirsi liberamente della mano destra. Svetonio nella vita d’Augusto fa osservare che tre di tai letti intorno ad una tavola, e non più di tre persone per ciascun letto formavano il più compiuto e civil convito di que’ tempi, ed erano, per così dire, il sommo dell’etichetta. Vedremo [p. 236 modifica]più innanzi, che le mense presso i grandi erano di legni finissimi, e principalmente di cedro, d’ebano, e simili, per lo più di lastre d’argento contornati o coperti.


Pag. 31, lin. 3.

Era nel culto di molte divinità de’ gentili l’onorarle con vigilie, o veglie, le quali duravano tutta una notte, e consistevane per lo più in sì enormi prostituzioni, che bisognò finalmente proibirle. Credo che tutta questa scena di Quartilla altro non sia che un divolgamento de’ misteri delle Baccanti.


Pag. 32, lin. 17.

Così detto dai tre letti che stavano intorno alla tavola.


Pag. 36, lin. 9.

Ecco le prime pennellate (dice il sig. Nodot) che l’autore dà al ritratto del suo eroe. Egli lo rappresenta vecchio, e il fa giocare con ragazzi osceni, quali erano codesti fanciulli dai capegli lunghi, giusta il sentimento di S. Ambrogio, il qual riportando il proverbio de’ tempi suoi, dice: nullus comatus, qui non idem cinaedus.
Trimalcione gioca coi calzari, soleatus, per mostrare che fa ogni cosa a controsenso, perchè questa calzatura si usava soltanto al sortir del bagno per passare a tavola, e non si entrava nel bagno che dopo aver giocato: perciò il gioco della palla trovavasi parimenti ne’ luoghi de’ bagni.


Pag. 36, lin. 27.

Praticavasi veramente di passare dalla Cella caldaria alla tepidaria, poi alla frigidaria, ma qui si balza dalla prima all’ultima senz’altro pensiero, e ciò sicuramente

Ut solidet calidam frigida lympha cutem,

come dice Sidonio Apollinare.


Pag. 37, lin. 22.

Seneca nel III libro De ira dice che alle porte de’ [p. 237 modifica]palazzi stavano grossi cani per assalire; e Artemidoro narra che alcuni contentavansi di farne dipingere, o porre in rilievo sulla parete presso la camera del custode con questa iscrizione CAVE CANEM; locchè fece dire a Varrone nel T. delle Eumenidi Cave canem inscribi jubeo. Alcuni credono che tali parole rinchiudano una morale, cioè di stare in guardia de’ maldicenti, che abbaiano contro tutti. Nota del signor Nodot.


Pag. 37, lin. 26.

Alcuni trovano in questa descrizione un doppio senso.


Pag. 38, lin. 17.

I Sestiviri o Seviri augustali, erano confraternite, o sacerdozj istituiti in onore d’Augusto imperatore, dopo che venne deificato. Così Claudio, Flavio, Vespasiano, Elvio, Pertinace, Adriano, ed altri essendo stati posti nel novero degli Dii, ne ebbero i sacerdoti che dicevansi seviri, o sodali Claudiali, Flaviani, Elviani, Adrianali, ecc. Il Sevirato era però una dignità ad tempus, che poteva essere confermata, come rilevasi dalle antiche lapidi riportate dagli storici, e dagli antiquarj.


Pag. 38, lin. 30.

Inciviltà e funesto augurio sarebbe stato entrare ne’ templi, o nelle case de’ grandi, cominciando col piede sinistro.


Pag. 39, lin. 5.

Sesterzj piccoli, cioè poco più di cinque paoli romani.


Pag. 39, lin. 11.

Fu sempre costume che i maggiori venissero ne’ giorni anniversarj della loro nascita regalati dai minori. I clienti mandavan presenti, i poeti recitavano versi, e così del resto. Simili regali si facean pure, e si fanno gli amici fra loro, perchè l’uso de’ regali reciproci fu sempre in voga presso ogni nazione civilizzata.


Pag. 41, lin. 35.

L’uovo di pavone era uno de’ più cari alimenti ai [p. 238 modifica]leziosi Romani. Ecce res non miranda solum, sed pudenda, ut ova pavonum quinis denariis vendant, dice Macrobio nel lib. 3, cap. 15 de’ Saturnali; ed abbiam da Varrone che un tale Aufidio vendette una partita di codeste uova oltre a 60 mila scudi nostri.


Pag. 42, lin. 21.

Come gli schiavi della Siria, così quelli della Media e dell’Etiopia, e generalmente delle più lontane regioni, formavano un articolo di lusso presso i Romani.


Pag. 42, lin. 31.

Nell’anno 632 della fondazione di Roma, essendo console Opimio, la stagion fu sì asciutta, che ogni sorta di frutti rimase squisitissima. Il vino principalmente riescì egregio, e tanto se n’ebbe cura, che coll’andare del tempo usavasi dire vino Opimiano ogni vino vecchio che servivasi alla mensa de’ grandi.


Ipse capillato diffusum Consule potat,
Calcatamque tenet bellis socialibus uvam,


dice Giovenale nella Satira 5, perchè oltre all’epoca di Opimio quella pur fu celebre in questo proposito della guerra sociale, e quella di Anicio, menzionata da Plinio (lib. 14, cap. 4 e 14), e quelle di Torquato, e di Bibulo, delle quali dice Orazio:


Tu vina Torquata move
Consule pressa meo. Epod. od. 13.
Cessantem Bibuli consulis amphoram. lib. 3, od. 28.


ed altre finalmente che gli scrittori rammentano.


Pag. 44, lin. 23.

Cioè della musica, la qual traevasi da alcune canne disposte a guisa d’organo, le quali urtate o in altro modo dall’acqua agitate rendevano un suono rumoroso. Sembra che Nerone introducesse nell’Anfiteatro questo [p. 239 modifica]istromento onde render più grate le corse de’ carri, come ad imitazion degli antichi (salva la diversità degli istromenti) usiamo noi pure in tali occasioni. Veggasi Svetonio in Ner.


Pag. 45, lin. 7.

Nella religion de’ romani ammettevasi l’assistenza di un genio particolare a ciascuna persona, presso a poco simile a ciò che si ammette da noi rispetto agli Angioli custodi.


Pag. 45, lin. 10.

Adopero volentieri questa voce corrispondente alla greca tapanta di Petronio, perchè usolla Lalli nell’Eneide travestita, e credo che trovisi anche nel Malmantile.


Pag. 46, lin. 1.

Modo proverbiale per indicare una grande estensione di terreno. Dice Persio nella sat. 4.

Dives arat curribus quantum non milvus oberre.
Giovenale nella 9.


Dic passer, cui tot montes, tot praedia servas
Apula, tot milvos intra tua pascua lassos?


Pag. 46, lin. 26.

Gli spiriti incubi, giusta l’antica credenza, custodivano i tesori nascosti sotto terra, e portavano un cappellino, che bisognava toglier loro dal capo, onde forzarli a dichiarare dove fosse il tesoro.


Pag. 47, lin. 13.

Nella edizione di Bordelot è detto: Nam mihi nihil novi potest adferri; sicut illi fericulo: melleam habuit praxim. Confesso che io non saprei tradurre queste parole, sì che accordassero fra loro. Ma sin dal principio avvertii che non riporto le varie lezioni del mio testo, altrimenti se ne triplicherebbe il volume. [p. 240 modifica]Pag. 49, lin. 36.

Molte specie di datteri racconta Plinio, ma quei di Siria e Palestina, e quelli dei deserti di Tebe, cioè dell’Egitto vicini al gran Cairo (illustri presso noi pel romitaggio degli Anacoreti) aveano fama, e l’hanno, di essere i più squisiti.


Pag. 50, lin. 33.

Da ciò è derivato, che il cappello e il berretto e i capei lunghi son divenuti insegna di libertà. Perciò (dice il signor Nodot) i primi Franzesi furon detti Comati e Pileati, tosto che ebbero scosso il giogo de’ Romani.


Pag. 51, lin. 15.

Nessuno di noi ignora cosa sia vino santo in Italia. Egli è un vino affatturato con diversi metodi, e che comunemente si ammette come una ghiottornia ricercata. I Romani usavan una quasi simil bevanda, massimamente ne’ conviti. Essi avean pur vari metodi per comporre questo vino, e il più comune era quello di mescervi il miele col succo di alcune erbe odorifere. Nondimeno egli era più volte una specie di spirito, e forse in questo luogo vuol accennarsi da Petronio una bibita spiritosa, come il punch ai dì nostri.


Pag. 53, lin. 30.

La gente Safinia apparteneva a Napoli.


Pag. 54, lin. 3.

Cioè, fosse ampolloso e figurato. Nel principio si è visto che Petronio attribuisce la decadenza del bello stile alle maniere asiatiche introdotte nella Eloquenza latina.


Pag. 54, lin. 31.

Avere i piè d’oca, e averli di lana, come porta il testo, parmi tuttuno. Ognun conviene che l’espressione in questo luogo suona lo stesso quanto fare il sordo.


Pag. 55, lin. 20.

Questa è una scappata improvvisa, applicabile [p. 241 modifica]sicuramente alla moglie o amica di Trimalcione, quella cioè che conduceva il carro, com’era costume di alcune donne Romane, per quanto nel primo de’ Saturnali avverte Giusto Lipsio.


Pag. 55, lin. 24.

Gli adulteri erano condannati al furore de’ tori. Eran puniti colle corna, dice un Francese, perchè ne avean prodotto.


Pag. 55, lin. 34.

Alcuni credono, che questo Norbano abbia a intendersi per Tigellino divenuto il favorito di Nerone.


Pag. 56, lin. 9.

Traduco apparvero feriti, perchè accadeva talvolta che i gladiatori per timor di soccombere si ferissero da se medesimi, onde ottener di ritirarsi e scampar dal pericolo:


. . . . Segiolus jam radere guttur
Coeperat. Et secto requiem sperare lacerto. Giov.


Pag. 58, lin. 6.

Da questo rimedio scorgesi, che il disordin del ventre di Trimalcione era una diarrea, anzichè una stitichezza, come qualche interprete ha detto. Quindi il ventrem pudere, che segue, non vuol già dire evacuare, com’essi pensarono, ma ritenere, come anche dal significato metaforico del verbo pudere parmi potersi arguire.


Pag. 58, lin. 13.

Questo tratto indica evidentemente, che la Satira di Petronio ha per oggetto Nerone. Sappiamo di lui, ch’ei permise agli amici suoi di dar libera uscita alle ventosità anche alla sua mensa.


Pag. 59, lin. 24.

Fin da tempo antichissimo ogni qualità di artefici ed operaj formava Corpo ovvero Università, come trovasi attualmente in più luoghi, e come trovavasi presso [p. 242 modifica]noi ne’ tempi di Giuseppe II, che poi saggiamente abolì siffatte corporazioni. Abbati dicevansi da noi i capi di codeste Università, e decurioni eran chiamati dai Romani, perchè ogni corpo era diviso in decurie, che erano come altrettanti gradi di perfezione; cosicchè il giovine, o il meno abile entrava nella decuria prima, che è quanto dire era di prima classe: il provetto o il più abile nella seconda: l’abilissimo nella terza. In genere di domestici occorreva pure lo stesso che a noi: e Trimalcione, che ne avea tanti, metà de’ quali non conosceva l’altra metà, ben sapea che essi eran divisi in cursori, cucinieri, camerieri, custodi, ecc., cosicchè ritenendo una classe più abbietta dell’altra potea minacciare il cuoco di metterlo tra i lacchè, e premiare il lacchè promovendolo alla carica superiore di cuoco, rispettabile certamente alla corte di Nerone ed a’ suoi parassiti.


Pag 60, lin. 22.

Omero non riferì mai questo accidente. Ma vi ha da contraddire a un Trimalcione? Il pollice rotto di Ulisse, e la prigion di vetro della Sibilla sono spiritose invenzioni, delle quali la comitiva dovea fare elogi maravigliosi.


Pag. 60, lin. 24.

S. Giustino martire e Pausania accordansi nel far menzione dell’urna ove a’ tempi loro mostravansi a Cuma le ceneri della Sibilla. La voce ampulla del testo non potevasi per tanto interpretrar per bottiglia, o fiasco, come altri l’intese, ma un vaso, la cui figura equivalga a quello che noi chiamiam pignatta, o marmitta.


Pag. 61, lin. 36.

Or vedi Annibale all’assedio di Troia, e uniscilo al dito rotto di Ulisse, e alla prigione di cristallo della Sibilla. [p. 243 modifica]Pag. 62, lin. 10.

Questa storia non è, come le passate, un sogno. Plinio la riferisce al cap. 26 del libro 36, e Dione ed Isidoro. Costoro assicurano che l’artefice fu messo a morte, e Plinio dice che gli furon distrutti gli utensili e le fucine per ordine di Tiberio. Ecco una delle molte arti che sono perdute con danno della società.


Pag. 63, lin. 5.

Altre storielle, come quella di Annibale dinanzi a Troia. Gli anacronismi sono perdonabili ai Trimalcioni.


Pag. 63, lin. 25.

Sorta di ballo non troppo modesto che si fa tra due o più persone girando intorno intorno. Così alcuni credono fosse questa danza, che Petronio chiama Cordace, e di cui fa cenno Meursio nella sua Orchestra. Credo che possa compararsi alla nostra friulana, che alcuni dicon furlana, ovvero alla monferrina.


Pag. 65, lin. 21.

Dicono alcuni che tra le superstizioni de’ Romani quella vi fosse di fasciarsi le ferite con lana rossa, e che di aver usato goffamente la bianca fosse qui castigato lo schiavo. Io credo che Petronio, come in tutta questa descrizione, così in questo luogo abbia invece espressa una caricatura di Trimalcione, come colui che in qualunque caso voleva ottenere le distinzioni cui pretendeva.


Pag. 66, lin. 5.

Domizio Marso, di cui sappiam da Marziale che avea composto un poema in lode delle Amazoni.


Pag. 66, lin. 8.

Publio Siro, quello stesso che Trimalcione poco sopra imitò ponendosi le mani sulla fronte. Egli era eccellente scrittor di commedie, e più eccellente attore. Fu il Molière de’ suoi giorni. Ma come si può paragonare il comico Siro all’orator Cicerone? [p. 244 modifica]Pag. 66, lin. 13.

Non è dubbio che questa satira attribuita a Publio Siro debba applicarsi interamente a Roma.


Pag. 66, lin. 22.

Numidia, provincia dell’Africa, oggi Bildulgerid, somministrava ai Romani i polli più squisiti.


Pag. 68, lin. 7.

Ho cambiato linea in serica per meglio indicare la leggierezza di un velo e far vieppiù sentire l’applicazione delle antiche mode donnesche colle moderne.


Pag. 71, lin. 13.

Pretende qualche interprete che qui si alluda ad un uso invalso presso i grandi di tenersi l’unghia del dito mignolo della mano destra molto lunga, ciò che è assai indecente ai dì nostri, benchè taluno fra noi mantenga tuttavia questa pratica.


Pag. 71, lin. 35.

Il testo dice: e quando io ho bevuto sugo di ceci; Proverbio romano.


Pag. 72, lin. 9.

I Dei principali erano dai gentili ornati con barbe d’oro:


Praecipui sunto, sitque illis aurea barba,


dice Persio nella sat. 2, verso 58.


Pag. 72, lin. 25.

Di bosso, dice il testo, per disprezzo. Parmi che l’ingiuria sentasi egualmente dicendo di paglia, e che l’intelligenza sia più rapida e alla portata. Sì la paglia che il bosso, hanno un color d’oro; a che vuol alludere il testo.


Pag. 72, lin. 26.

Cioè: guardimi dai ladri, qual è costui, che sino gli anelli che porta, rubò all’amica sua.


Pag. 72, lin. 32.

Cioè nemmen vino nuovo, non che buon vino, o vecchio. [p. 245 modifica]Pag. 73, lin. 11.

Sorta di comici, che recitavano lunghi squarci de’ poemi di Omero per divertire la brigata. Ateneo al capo 3, lib. 14, come avverte Nodot, li chiama Rhapsodi, donde la voce Rapsodia.


Pag. 73, lin. 19.

Aggiugni questa storiella a quella della Sibilla nell’ampolla, di Annibale sotto a Troia, dei figliuoli di Cassandra, ecc., di cui Trimalcione ha regalata eruditamente la compagnia.


Pag. 74, lin. 19.

Lo zafferano serviva presso i Romani ad uso dei sacri riti, presso a poco come l’incenso presso noi. Sacro per conseguenza tenevasi ciò che di zafferano era condito o asperso.


Pag. 74, lin. 28.

Questa ghirlanda o altro ornamento d’onore che appendevasi alle statue degli Dii, e principalmente de’ Penati, ond’eran detti bullati, è pur accennata da Persio, nella sat. 5.


Pag. 81, lin. 4.

La manumissione de’ schiavi, mentr’erano moribondi, avea per oggetto principale la cupidigia d’impadronirsi in quel momento di maggior copia de’ beni, di quel che fosse la vigesima parte, la quale per diritto passava ai padroni.


Pag. 81, lin. 6.

Specie di libazione, o abluzione che facea parte dei riti funerari.


Pag. 83, lin. 13.

Quella che presso noi chiamerebbesi sabbia d’argento, prodotta dallo sminuzzamento di alcuni che i naturalisti chiamano quarzi in mica argentea.


Pag. 84, lin. 5.

Parmi aver letto altrove, che Venere fosse losca: qui sembra che le sia attribuito questo difetto, quasi come una bellezza. Or va e giudica de’ gusti. [p. 246 modifica]Pag. 84, lin. 28.

Questo Massa fu celebrato anche da Giovenale e da Marziale. Il primo dice di lui nella satira 2.


Pag. 85, lin. 19.

Notisi come le manifatture di ferro erano sin da que’ tempi perfezionate in Germania.


Pag. 86, lin. 9.

Tra i modi praticati per dare la libertà ad uno schiavo, cioè inter amicos, ovvero per epistolam, apud Consilium, ovvero apud Consulem, quello pur v’era per mensam, facendo sedere lo schiavo alla tavola del padrone, e dichiarandolo libero. Così Nodot.


Pag. 87, lin. 14.

Che è quanto dire: questo monumento ad altri mai non appartenga che a Trimalcione. La sua famiglia, e i di lui successori vadano a farsi seppellire altrove. Orazio nella satira 8, lib. 1.

Mille pedes in fronte, trecentos cippus in agrum
Heic dabat: haeredes monumentum ne sequeretur.


Pag. 87, lin. 28.

Costui è figliuolo del liberto Enchione, il qual di sopra ne ha raccontato i talenti. Forse egli era prediletto anche da Trimalcione, il qual non avea figli.


Pag. 100, lin. 18.

Ognun si ricorda che il maestro era Agamennone, e Menelao il ripetitore.


Pag. 101, lin. 2.

Ella assumevasi a diciott’anni; Gitone, come vedremo fra poco, era di questa età.


Pag. 102, lin. 5.

Dai portici della galleria qui menzionata, e dalla vicinanza del mare, accennata poco sopra, rilevasi apertamente, col confronto di un passo di Filostrato assai dottamente citato dal signor Ignarra, una incontrastabile prova che il luogo di questi avvenimenti sia Napoli. V. Ignarra a pag. 192. [p. 247 modifica]Pag. 102, lin. 10.

Cioè pittura di un color solo. Di Zeusi, di Protogene, e di Apelle non è chi non abbia notizia.


Pag. 102, lin. 15.

Ila fu amato da Ercole, e assai più da una Naiade cui ricusò sempre di compiacere, talchè indottolo in un fiume, vi rimase affogato.


Pag. 102, lin. 17.

Si allude alla favola di Giacinto.


Pag. 107, lin. 12.

Democrito, Eudosso, e Crisippo, celebri filosofi dell’antichità. L’elleboro credevasi giovare all’ingegno. Egli è un purgante assai attivo, e il migliore riputavasi quel che nasceva in Anticira. Comunemente dicevasi ad un uomo stravagante che aveva bisogno di elleboro, ovveramente di navigare verso Anticira.


Pag. 108, lin. 3.

Lisippo era scultor sì eccellente ai tempi di Alessandro Magno, che questo principe a lui solo permise di far la sua statua, come al solo Apelle di fargli il ritratto.


Pag. 108, lin. 5.

Mirone anch’esso statuario eccellente, sopra tutto nel rappresentare animali.


Pag. 108, lin. 16.

Dov’era il tempio di Giove.


Pag. 108, lin. 22.

Il Senato faceva oblazioni al Tempio in caso di pubbliche disgrazie. Abbiamo in Livio la preghiera che il Pontefice pronunciava alla testa del Senato in questa occasione. Petronio vuol però pungere l’uso di arricchire i tempj quasichè gli Iddii potessero come gli uomini abbisognare, o aver desiderio delle ricchezze.

Dicite pontifices in templo quid facit aurum?

[p. 248 modifica]dice egli in un altro luogo, e Persio a ciò pur volle alludere col verso

Quid juvat hos templis nostros immitere mores?


Pag. 108, lin. 29.

Nerone anch’esso scrisse un poemetto sull’incendio di Troia, la cui storia piacevagli a segno di volerla in parte verificare col fuoco fatto appiccare in alcuni luoghi di Roma, mentr’egli dalla Torre di Mecenate riguardandolo, stava cantando sulla cetra i versi analoghi, non so poi se di Omero o suoi. Veggansi Giovenale sat. 8, Tacito, Dione, Svetonio ec.


Pag. 115, lin. 1.

Forse Afranio Quinziano, di cui parla Tacito nel L. 14 degli annali.


Pag. 117, lin. 20.

Costui doveva essere il barbiere di Eumolpione, e trovarsi con quel rasoio fra le mani dopo aver forse tagliata la fune, cui questo pazzo di Encolpo erasi appeso.


Pag. 119, lin. 28.

Ecco finalmente anche l’ispettore di polizia, o forse meglio l’anziano, o il console o il vigilante, come dicesi in qualche luogo d’Italia.


Pag. 120, lin. 2.

Codesti pubblici servidori esistono tuttavia dappertutto.


Pag. 120, lin. 21.

Nel nono libro dell’Odissea, Omero fa dire ad Ulisse questa sua strana invenzione, che lo scampò dalla furia di Polifemo.


Pag. 120, lin. 31.

Pare da ciò che costoro partecipassero della qualità de’ littori.


Pag. 121, lin. 32.

Antichissimo è il costume di augurar salute a chi sternuta. Aristotile ne parla ne’ suoi problemi; e Plinio nella sua Storia naturale. [p. 249 modifica]Pag. 129, lin. 9.

Cicerone nella Orazione in favore di Roscio parlando di certo Famio Cherea, dice ch’egli avea sempre il capo e le sopracciglia rase, sì che non gli restava un sol pelo da galantuomo. Radevansi diffatto i capegli agli schiavi, e le sopracciglia agli scellerati, ed ai disertori.


Pag. 129, lin. 10.

Il bollo è un marchio d’infamia, che si usa tuttavia in alcuni fori criminali, e per certi determinati delitti.


Pag, 129, lin. 24.

Il radersi de’ capegli quando si viaggiava per mare non avvenia che in caso pressochè disperato di burrasca a titolo di sagrificio agli Dei.


Pag. 131, lin. 26.

Soleano espiarsi i sogni lavandosi il capo e le mani con vino misto ad acqua, od immergendosi interamente in un fiume, al che allude quel passo di Persio nella seconda Satira, et noctem flumine purgas.


Pag. 133, lin. 7.

Allude a ciò che Omero narra di Euriclea nodrice di Ulisse, la quale dopo vent’anni di assenza lo riconobbe ad una cicatrice che avea in una gamba.


Pag. 134, lin. 22.

Notisi in questo passo, che il far prigionieri i nimici, allorchè cedeano le armi, e non trucidarli, come più anticamente si usava, era già ai tempi di Nerone tenuto per massima inalterabile, nel gius delle genti. Locchè non tutti vogliono accordare.


Pag. 135, lin. 30.

Il sangue della Salamandra, dice Dioscoride, fa cader i peli, ove tocca. Il tutto sta a trovare una Salamandra, checchè dicansi alcuni Naturalisti, e comunque assicuri quello strano cervello di Benvenuto Cellini di averla veduta una volta nel fuoco della sua cucina. [p. 250 modifica]Pag. 139, lin. 2.

Segno di amore.


Pag. 140, lin. 5.

Tra le superstizioni della religione de’ gentili quella vi era, che Proserpina venisse a radere un po’ di ciuffo a colui, che poco tempo dopo dovea morire. Nell’Alceste di Euripide questo ufficio è assegnato a Mercurio. Virgilio dice di Didone che penava a morire perchè

Nondum illi flavum Proserpina vertice crinem abstulerat...


Pag. 140, lin. 35.

Petronio non fu il primo a scrivere questa novella, ma ben fu il primo che sì leggiadramente la scrivesse. Apuleio ne fa cenno nel primo libro dell’Asino d’oro, e v’è chi pretende che sia vera storia.


Pag. 142, lin. 19.

Eneid. lib. 4. v. 34. traduzione di Annib. Caro.


Pag. 143, lin. 5.

Eneid. v. 38. lib. 4. traduzione di Annib. Caro.


Pag. 152, lin. 3.

Crotone, città della Calabria ulteriore, o meridionale poco distante dal Golfo di Taranto. L’antica Crotone fu già, come Sibari sua vicina e sua rivale, una delle più fiorenti repubbliche d’Italia. I Romani la conquistarono, e sin dai fondamenti distrussero. Oggi appena vi rimangono alcune rovine di case, di sepolcri, e di tempj, fra i quali veggonsi de’ frammenti considerabili del tempio di Giunone Lucina, e chiamasi Capo Colonna. Distante sei miglia havvi una nuova Crotone, piccola ed infelice città situata in mezzo alle paludi, ed al pantano. Veggasi Pilati a pag. 238 del Tomo II. de’ suoi Voyages en differens pays de l’Europe. [p. 251 modifica]Pag. 152, lin. 22.

Il celibato fu sempre dalle saggie nazioni considerato perniciosissimo, perciò è vietato, o almeno multato. E un segnale di corruzione trovano i politici nel numero soverchio di celibatarj di un popolo qualunque.


Pag. 153, lin. 27.

Era l’Affrica reputata la più fertile e la più ricca Provincia del mondo.


Pag. 155, lin. 8.

Pare da questo luogo che Petronio indichi Lucano e Silio Italico, i quali mal riuscendo nel foro si diedero a far poemi.


Pag. 156, lin. 6.

Ciascun vede che qui accenna il Poeta Lucano. La sua Farsaglia è da molti diffatti considerata più presto una storia che un poema; e Petronio ne ha voluto manifestare un egual giudizio, e proporre un modello di poema sul grande argomento della guerra civile.


Pag. 156, lin. 16.

Di tutta l’opera di Petronio Arbitro questo poemetto è quello che ha sofferto più varietà di lezioni, e più incertezza ed inesattezza di parti. Io ho conciliati i testi, per quanto ho potuto, sì che il senso e l’ordine non rimanessero offesi.


Pag. 156, lin. 31.

La Numidia rendeva marmi finissimi, cioè diaspri, porfido, ed alabastri, di che le pareti delle case, e de’ templi s’incrostavano (Numidæ crustas giacchè ogni altra lezione di questo passo non è intelligibile). L’Arabia era feconda di legni e gemme preziose, e la provincia de’ Seri somministrava al lusso romano lane sottilissime, e sete.


Pag. 157, lin. 4.

Quid novi fert Africa? dicevasi proverbialmente a Roma, perchè da quella provincia traevansi continuamente mostri di nuove specie. Nella Mauritania e nei [p. 252 modifica]deserti della Libia si cacciavano le tigri ed i lioni, che poi servivano di spettacolo ne’ Circhi. Il tempio di Giove Ammone, già edificato da Bacco, era situato nella estremità orientale dell’Africa.


Pag. 158, lin. 2.

Dal lago Lucrino in Terra di Lavoro si ebbero sempre ostriche eccellenti; Giovenale ed Orazio ne parlano spesse volte.


Pag. 158, lin. 20.

Catone avea chiesta la Pretura, e gli fu preferito Vatinio; ricercò il Consolato, e non l’ottenne; difese più volte la pubblica libertà massimamente contro il tribuno Metello, che fece richiamar Pompeo dall’Asia sotto colore di proteggerla, ma certamente per farlo signor dell’impero, e fu sempre cacciato fuori di Roma. Egli godeva grandissima riputazione di virtù e di merito, ma non avea partito. Di lui più che d’altri può dirsi che fu l’ultimo dei Romani.


Pag. 158, lin. 29.

Durissima era la condizione de’ debitori insolvibili. Essi e i figli loro poteano divenire schiavi de’ creditori. L’usura era al sommo della sua gloria. Del resto quanto è qui scritto dei vizj di Roma trovasi parimenti in Giovenale, in Persio, e in presso che tutti gli scrittori vicini a quell’epoca.


Pag. 159, lin. 12.

In tre fazioni era diviso il popolo romano, e da esse ebbe principio la guerra civile. L’una seguiva Crasso, il qual cadde in mano de’ Parti e miseramente perì. L’altro Pompeo, sornomato il Magno, perchè veramente era per tale considerato a referenza di qualunque altro, e che rimase trucidato in una barchetta mentre ritiravasi dall’Egitto; l’ultima tenea per Giulio Cesare, il qual guerreggiava trionfalmente nelle Gallie, e la cui fine non è chi ignori. Egli solo morì a Roma: al che vuole alluder Petronio dicendo che Enio, cioè Bellona ne avea divise le ceneri. [p. 253 modifica]Pag. 159, lin. 17.

Lago d’averno, oggi Solfatara.


Pag. 161, lin. 18.

Filippi, Tessaglia, (nella cui provincia era compresa la Farsaglia) Libia, ed Egitto furono i teatri, ove ebbero luogo questi grandissimi avvenimenti, pei quali lo stato politico dell’universo cambiò d’aspetto, e di forma. I funerali della gente ibera accennano la strage fatta da Cesare in Ispagna delle armi pompeiane, delle quali più di 33.m uomini rimaser sul campo. La Libia e l’Egitto esposti egualmente al furore della guerra civile sono detti gementia, perchè ivi perirono Giuba re di Numidia, Tolomeo, Cleopatra, ed Antonio. Quest’ultimo fu rotto nella battaglia navale seguito al Capo d’Azzio, oggi Capo Figaio, sul quale ergevasi un Tempio dedicato ad Apollo, alla cui protezione Dione attribuisce l’insigne vittoria di Cesare, per la quale rimase signore del mondo. A ciò alludono i versi che seguono.


Pag. 162, lin. 26.

Le Alpi Graie comprendono il Moncenisio, e il piccolo San Bernardo. Cesare discese da questo, sulla cima del quale dovea trovarsi un tempio dedicato ad Ercole, come oggi vi è quello del sopra detto Santo. Più altri passaggi ebbero luogo per codeste quasi inaccessibili rupi, ma quel di Cesare del qual parla Petronio, e quello più ammirabile ancora di Napoleone nel 1800 vincon la fama di ciascun altro.


Pag. 163, lin. 16.

Nell’anno 364 di Roma i Galli condotti da Brenno entrarono conquistatori in Italia, e si avanzarono sino al Campidoglio, dove trattenuti dalla costanza de’ Senatori, dieder tempo a’ Romani di riprender coraggio, assaltare e scacciare i nemici, e respingerli fuor d’Italia. [p. 254 modifica]Pag. 163, lin. 24.

La voce Ignavus del testo vuolsi che alluda al Cneus prenome di Pompeo. Non mi parrebbe un felice equivoco, massimamente in cosa sì sostenuta, com’è tutto questo poemetto. Io ho stimato di non renderla, sì perchè combattuta dagli interpreti, e perciò troppo incerta, sì perchè non necessaria all’intelligenza.


Pag. 164, lin. 3.

Fu sempre l’aquila di felice augurio ai Romani, talchè ne fecero insegne d’armata, e come le chiama Tacito Legionum numina.


Pag. 165, lin. 21.

I venti versi del testo, cominciando dal presente, sono posti in quell’ordine, in cui li ha collocati il Presidente Bohier. Presi, come si vedono presso il Burmanno, è assai difficile di trovarli conseguenti e opportuni.


Pag. 168, lin. 25.

Essendo Consoli P. Lentulo, e Claudio Marcello partigiani di Pompeo, Marcello accusò Cesare, che comandava nelle Gallie, di più delitti, e colpe verso la Patria. Il Senato deliberò che Domizio Enobarbo andasse al comando dell’armata di Gallia, e che Cesare ne lasciasse il governo prima del termine consueto. Ciò fu causa che Cesare passò l’Alpi, e venne in Italia alla testa dell’armata. Allora il Senato ordinò che Pompeo si ponesse in battaglia e che Cesare disarmasse. Ma questi sempre maggiormente irritato, passò il Rubicone, e incusse tanto spavento che Pompeo si ritirò colla truppa a Durazzo abbandonando vilmente la patria, come gli rimprovera Cicerone. Lentulo era uomo eloquentissimo, e Curione Tribuno della plebe avea già sollevato il popolo contro Cesare, ma poi e il popolo e Curione furon per lui. Questa è la storia della guerra civile.


Pag. 168, lin. 32.

Epidamno, cioè Durazzo, città greca dirimpetto al [p. 255 modifica]golfo di Venezia, dove, come dicemmo, sì scioccamente ritirossi Pompeo. Petronio ne lo rinfaccia, tanto più che il nome stesso di quella città era di cattivo augurio ai Romani, locchè non poteva da Pompeo ignorarsi.


Pag. 171, lin. 8.

Intende dell’anfiteatro, le cui logge più alte servivano alla plebe.


Pag. 171, lin. 23.

L’erudissimo Marcorelli autore dell’opera intitolata De Theca Calamaria vuole che questa Platanone o luogo de’ platani fosse in Napoli nel quartiere oggi detto Fiatamone. Ma il signor Ignarra avverte che quì la scena della satira non è più Napoli, ma Crotone, o sue vicinanze, e che il signor Marcorelli splendidamente s’inganna.


Pag. 172, lin. 12.

Si accennano le imprese amorose di Giove, convertitosi in toro; in cigno, e in pioggia d’oro.


Pag. 173, lin. 13.

L’antica Circe amante di Ulisse era figlia del Sole e di Perseide ninfa marina. Ulisse avea preso nome di Polieno, come si ha da Omero nel 12 dell’Odissea. E questa Circe trova pure un Polieno, giacchè Petronio ha stimato opportuno di adottar simili nomi per simil sorta di amori.


Pag. 174, lin. 21.

Coloro che tanto gridano contro la rilassatezza dei presenti costumi, non vogliono giammai convenire che in paragon degli antichi noi siamo, sì per la santità della nostra religione, come per la saviezza della odierna legislatura, di gran lunga più astinenti. Ma i riti della religion pagana giustificavano assai quel libertinaggio. I misteri Eleusini, quei di Bacco, e non so quali altri rendevan lecito ciò, che sarebbe empietà presso di noi. Venere avea dappertutto qualche tempio. Ella [p. 256 modifica]adoravasi in tutti i luoghi. Una cappella le era dedicata in quasi tutti i giardini, la quale chiamavasi Sacellum Veneris Hortensis. Aggiungi che Priapo era Dio degli orti: E in que’ tempietti qual miglior culto esercitare, che sagrificare a Venere, e a Priapo? Essi erano adunque religiosamente lascivi come alcuni de’ nostri furono religiosamente barbari. Ma si è men lascivi o men barbari, malgrado il pretesto della religione?


Pag. 175, lin. 28.

Pretendesi che Socrate giacesse con Alcibiade senza violar le leggi della castità, come disse Plutarco. Alcuni credono che il facesse per raffinare la sua virtù, come negli ultimi tempi alcuni buoni religiosi solevano e fare e dire. Veggasi la Therèse Philosophe che non è altrimenti un romanzo come pare. Tuttavia questa rara virtù non cominciò a praticarsi solamente nel secolo ora scorso. Il signor Nodot cita in proposito una lettera di certo Gotofredo di Vandomo, il quale scrivendo a san Bernardo di questo mirabile esercizio, il qualificava Novum martyrii genus.


Pag. 176, lin. 14.

Costoro servivan di musica ai funerali.


Pag. 177, lin. 21.

Questo cibo non è troppo usitato dai galanti moderni; ma qualche medico avverte che se si inghiottano, come si ingoian le pillole, cioè senza masticare, fanno l’effetto desiderato, e non lasciano quel puzzor di fiato, di cui tanto si spaventano i nostri zerbini.


Pag. 179, lin. 24.

Il mirto era sacro a Venere.


Pag. 181, lin. 17.

Apodixis defunctoria era precisamente ciò che noi diciamo Estratto mortuario. Vedi Svetonio nella vita di Nerone.


Pag. 184, lin. 19.

Doveva essere considerato quasi uno stregamento il [p. 257 modifica]toccare un corpo umano morto. Questa credenza forse proveniva dal costume degli Ebrei, presso i quali chi toccava un cadavere era dichiarato impuro, e dovea purgarsi, come si ha al primo de’ Numeri cap. 60 v. 9. Le superstizioni sono sempre passate di luogo in luogo e da nazione a nazione più felicemente che le scienze.


Pag. 185, lin. 14.

Costei è Sacerdotessa di Priapo come già vidimo esser Quartilla. Le danze dell’una, e le cerimonie di questa, indicano gran parte de’ riti, coi quali esercitavasi il culto del nume di Lampsaco.


Pag. 187, lin. 20.

Callimaco cantò della ospitalità di Eiale, donna greca, che albergò Teseo la prima volta ch’ei scese nell’Attica, per cui istituì egli una festa annua, che chiamavasi Ecalesien.


Pag. 188, lin. 11.

Questi augelli infestavano l’Arcadia nelle vicinanze del lago Stinfale. Ercole consigliato da Minerva spaventandoli con istrepito di paiuoli e campane li fece allontanare, e li ridusse nell’isola d’Arezia. Perciò è detto Herculea arte, per non confondere questo fatto coi prodigj della forza di Alcide.


Pag. 188, lin. 13.

Per ciò che ne hanno scritto Virgilio ed Ariosto, la favola delle arpie è troppo nota. Questi mostri avean corpi di avoltoio, e viso femminile. Esiodo ne ha conservato il nome di tre, Aello, Ocipite, e Celeno. Costoro perseguitaron Fineo re di Francia che gli Dii volevan punire delle barbarie usate ai propri figli per amore di Idea sua seconda moglie.


Pag. 190, lin. 20.

Celebri giureconsulti romani.


Pag. 191, lin. 5.

Le Tribadi Greche furono le prime inventrici di codesti amuleti, o stromenti suppletori, che chiamavano [p. 258 modifica]Phalloi; onde Phallovitrobuli chiamavano i latini coloro che ne usavan di vetro. Noi Italiani non ne abbiamo, ch’io sappia, nome veruno; i Francesi, presso i quali nello scorso secolo i costumi erano molto licenziosi, seppero acconciamente inventarne un vocabolo.