Satire (Ariosto 1809)/Satira VI
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A
M. PIETRO
BEMBO
SATIRA SESTA
Dimostra le doti, che si ricercano in coloro, che debbono esser posti alla cura d’istruire i giovani nelle buone lettere.
Bembo, io vorrei, com’è il comun desio
De’ solleciti padri, veder l’arti,
Che esaltan l’uom, tutte in Virginio mio.
E, perchè d’esse in te le miglior parti
Veggio e le più, di questo alcuna cura
Per l’amicizia nostra vorrei darti.
Non creder però ch’esca di misura
La mia dimanda, ch’io voglia tu facci
L’ufficio di Demetrio, o di Musura.
Non si danno a’ par tuoi simili impacci;
Ma sol che pensi, e che discorri teco,
E saper da gli amici anco procacci,
S’in Padova, o in Vinegia è alcun buon Greco,
Buono in scíenza e più in costumi, il quale
Voglia insegnargli e in casa tener seco.
Dottrina abbia, e bontà; ma principale
Sia la bontà; che, non v’essendo questa,
Nè molto quella a la mia stima vale.
So ben che la dottrina fia più presta
A lasciarsi trovar che la bontade;
Sì mal l’una ne l’altra oggi s’innesta.
O nostra male avventurosa etade!
Che le virtuti, che non abbian misti
Vizj nefandi, si ritrovin rade.
Senza quel vizio son pochi umanisti,
Che diè a Dio forza, non che persuase
Di far Gomorra, e suoi vicini tristi.
Mandò fuoco dal ciel, che uomini e case
Tutte distrusse, ed ebbe tempo appena
Lot a fuggir, ma la moglier rimase.
Ride il volgo, se sente un ch’abbia vena
Di poesia; poi dice, è gran periglio
A dormir seco, e volgergli la schiena.
Ed oltra a questa nota il peccadiglio
Di Spagna gli danno anco, che non creda
In unità del Spirto il Padre e ’l Figlio;
Non che contempli come l’un proceda
Da l’altro o nasca; e come il debol senso
Ch’uno e tre possan essere conceda.
Ma gli par che, non dando il suo consenso
A quel che approvan gli altri, mostri ingegno
Da penetrar più su che ’l cielo immenso.
Se Niccoletto, o fra Martin fan segno
D’infedele o d’eretico, n’accuso
Il sottil studio, e men con lor mi sdegno:
Perchè salendo l’intelletto in suso
Per veder Dio, non de’ parerci strano,
Se talor cade giù cieco e confuso.
Ma tu, del qual lo studio è tutto umano,
E son li tuoi soggetti i boschi, i colli,
Il mormorar d’un rio che righi il piano;
Cantare antichi gesti, e render molli
Con prieghi animi duri, e far sovente
Di false lodi i Principi satolli;
Dimmi, che trovi tu, che sì la mente
Ti debba avviluppar, sì torre il senno,
Che tu non creda come l’altra gente?
Il nome, che d’Apostolo ti denno,
O d’alcun minor Santo i padri, quando
Cristiano d’acqua e non d’altro ti fenno,
In Cosmico, in Pomponio vai mutando;
Altri Pietro in Pierio; altri Giovanni
In Jano, e in Jovian va racconciando;
Quasi che ’l nome i buon giudici inganni;
E che quel meglio t’abbia a far poeta,
Che non farà lo studio di molt’anni.
Esser tali dovean quelli, che vieta
Che sian ne la Repubblica Platone,
Da lui con sì santi ordini discreta.
Ma non fu tal già Febo, nè Anfione;
Nè gli altri che trovaro i primi versi;
Che col bel stile, e più con l’opre buone
Persuasero agli uomini a doversi
Ridurre insieme, e abbandonar le ghiande,
Che per le selve li traean dispersi.
È ver che i più robusti, la cui grande
Forza era usata a gli minori torre
Or moglie, or gregge, or le miglior vivande,
Si lasciaro a le leggi sottoporre,
E cominciàr, versando aratri e glebe,
Del sudor lor più giusti frutti a corre.
I scrittor fero indi a l’indotta plebe
Creder che al suon de le soavi cetre
L’un Troja, e l’altro edificasse Tebe;
E ch’avean fatto scendere le pietre
Da gli alti monti, ed Orfeo tratto al canto
Tigri e leon da le spelonche tetre.
Non è, s’io mi corruccio, e grido alquanto
Più con la nostra, che con l’altre scole,
Ch’io non vegga ne l’altre anche altrettanto.
D’altra correzion, che di parole
Degno, nè del fallir de’ suoi scolari,
Non pur Quintiliano è che si duole,
Ma se degli altri io vo’ scoprir gli altari,
Tu dirai che rubato e del Pistoja
E di Pietro Aretino abbia gli armari,
Degli altrui studj onor, e biasmo: noja
Mi dà, e piacer, ma non come s’io sento
Che viva il pregio de’ poeti, e muoja.
Altrimenti mi dolgo e mi lamento
Di sentir riputar senza cervello
Il biondo Aonio, e più leggier che ’l vento;
Che se del Dottoraccio suo fratello
Odo il medesmo, al quale un altro pazzo
Donò l’onor del manto, e del cappello.
Più mi duol, ch’in vecchiezza voglia il guazzo
Placidían, che giovin dar soleva,
E che di cavalier torni ragazzo;
Che di sentir, che simil fango aggreva
Il mio vicino Andronico, e vi giace
Già settant’anni, e ancor non se ne leva.
Se m’è detto che Pandaro è rapace,
Curio goloso, Pontico idolatro,
Flavio bestemmiator, via più mi spiace,
Che se per poco prezzo odo Cusatro
Dar le sentenze false, o che col tosco
Mastro Battista mescoli il veratro:
O che quel mastro in teologia, ch’al Tosco
Mesce il parlar facchin, si tien la scroffa,
E già n’ha duo bastardi, ch’io conosco;
Nè per saziar la gola sua gaglioffa
Perdona a spesa; e lascia che di fame
Langue la madre, e va mendica e goffa.
Poi lo sento gridar, che par ch’ei chiame
Le guardie, ch’io digiuni, e ch’io sia casto,
E, che quanto me stesso, il prossimo ami.
Ma gli error di quest’altri così il basto
De’ miei pensier non gravano, che molto
Lasci il dormire, o perder voglia un pasto.
Ma, per tornar là d’onde io mi son tolto,
Vorrei, che a mio figliuolo un precettore
Trovassi meno in questi vizj involto;
Che ne la propria lingua de l’autore
Gli insegnasse d’intender ciò ch’Ulisse
Sofferse a Troia, e poi nel lungo errore.
Ciò che Apollonio, e Euripide già scrisse,
Sofocle, e quel, che da le morse fronde
Par che poeta in Ascra divenisse:
E quel che Galatea chiamò da l’onde,
Pindaro, e gli altri, a cui le Muse Argive
Donar sì dolci lingue e sì faconde.
Già per me sa ciò che Virgilio scrive,
Terenzio, Ovidio, Orazio; e le Plautine
Scene ha vedute guaste, e a pena vive.
Omai può senza me per le Latine
Vestigie andar a Delfo, e de la strada,
Che monta in Elicon, vedere il fine.
Ma, perchè meglio e più sicuro ei vada,
Desidero ch’egli abbia buone scorte,
Che sien de la medesima contrada.
Non vuol la mia pigrizia, o la mia sorte,
Che del tempio d’Apollo io gli apra in Delo,
Come gli fei nel Palatin, le porte.
Ahi! lasso, quando ebbi al Pegàseo melo
L’età disposta, e che le fresche guancie
Non si vedeano ancor fiorir d’un pelo,
Mio padre mi cacciò con spiedi e lancie
(Non che con sproni) a volger testi e chiose;
E m’occupò cinque anni in quelle ciancie.
Ma poi che vide poco fruttuose
L’opre, ed il tempo in van gittarsi, dopo
Molto contrasto, in libertà mi pose.
Passar vent’anni io mi trovava, ed uopo
Aver di pedagogo; che a fatica
Inteso avrei quel che tradusse Esopo.
Fortuna molto mi fu allora amica,
Che m’offerse Gregorio da Spoleti,
Che ragion vuol ch’io sempre benedica.
Tenea d’ambe le lingue i bei secreti;
E potea giudicar se miglior tuba
Ebbe il figliuol di Venere, o di Teti:
Ma allora non curai saper di Ecuba
La rabbiosa ira, e, come Ulisse a Reso
La vita a un tempo ed i cavalli ruba;
Ch’io volea intender prima, in che avea offeso
Enea Giunon, che ’l bel regno da lei
Gli dovesse d’Esperia esser conteso.
Che ’l saper ne la lingua de gli Achei
Non mi reputo onor, s’io non intendo
Prima il parlare de’ Latini miei.
Mentre l’uno acquistando, e differendo
Vo l’altro, l’occasion fugge sdegnata,
Poi che mi porge il crin, ed io no ’l prendo.
Mi fu Gregorio da la sfortunata
Duchessa tolto, e dato a quel figliuolo,
A chi avea ’l zio la signoría levata.
Di che vendetta, ma con suo gran duolo,
Vide ella tosto, oimè! Perchè del fallo
Quel, che peccò, non fu punito solo?
Col zio il nipote (e fu poco intervallo)
Del regno, e de l’aver spogliati in tutto
Prigioni andàr sotto il dominio Gallo.
Gregorio a’ prieghi d’Isabella indutto
Fu a seguir il discepolo, là dove
Lasciò morendo i cari amici in lutto.
Questa jattura, e l’altre cose nuove,
Che in quei tempi successero, mi fero
Scordar Talia, Euterpe, e tutte nove.
Mi more il padre, e da Maria il pensiero
Dietro a Marta bisogna ch’io rivolga;
Ch’io muti in squarci, ed in vacchette Omero.
Trovi marito, e modo che si tolga
Di casa una sorella, e un’altra appresso;
E che l’eredità non se ne dolga:
Coi piccoli fratelli, ai quai successo
Era in luogo di padre, far l’uffizio
Che debito e pietà m’avea commesso:
A chi studio, a chi corte, a chi esercizio
Altro proporre; e procurar non pieghi
Da le virtudi il molle animo al vizio.
Ne questo è sol, ch’a li miei studj nieghi
Di più avanzarsi, e basti che la barca,
Perchè non torni a dietro, al lito leghi.
Ma si trovò di tanti affanni carca
Allor la mente mia, ch’ebbi desire
Che la cocca al mio fil fesse la Parca.
Quel, la cui dolce compagnía nutrire
Solea i miei studj, e stimolando innanzi
Con dolce emulazion solea far ire;
Il mio parente, amico, fratello, anzi
L’anima mia, non mezza no ma intera,
Senza che alcuna parte me ne avanzi,
Morì Pandolfo poco dopo: ah! fera
Scossa, che avesti allor, stirpe Aríosta,
Di ch’egli un ramo e forse il più bello era.
In tanto onor vivendo t’avría posta,
Ch’altro a quel, nè in Ferrara, nè in Bologna,
Ond’hai l’antiqua origine, s’accosta.
Se la virtù dà onor come vergogna
Il vizio, si potea sperar da lui
Tutto l’onor, che buon animo agogna.
A la morte del padre, e de li dui
Sì cari amici aggiungi che dal giogo
Del Cardinal da Este oppresso fui:
Che da la creazione infino al rogo
Di Giulio, e poi sette anni anco di Leo,
Non mi lasciò fermar molto in un luogo;
E di poeta cavallar mi feo:
Vedi se per le balze e per le fosse
Io poteva imparar Greco o Caldeo.
Mi maraviglio, che di me non fosse,
Come di quel Filosofo, a chi il sasso,
Ciò che innanzi sapea, dal capo scosse.
Bembo, io ti prego in somma, pria che ’l passo
Chiuso gli sia, ch’al mio Virginio porga
La tua prudenza guida, che in Parnasso,
Ove per tempo ir non seppi io, lo scorga.