San Pantaleone/La fine di Candia
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LA FINE DI CANDIA.
I.
Donna Cristina Lamonica, tre giorni dopo il convito pasquale che in casa Lamonica soleva essere grande per tradizione e magnifico e frequente di convitati, numerava la biancheria e l’argenteria delle mense e con perfetto ordine riponeva ogni cosa nei canterani e nei forzieri pe’ i conviti futuri.
Erano presenti, per solito, alla bisogna, e porgevano aiuto, la cameriera Maria Bisaccia e la lavandaia Candida Marcanda detta popolarmente Candia. Le vaste canestre ricolme di tele fini giacevano in fila su ’l pavimento. I vasellami di argento e li altri strumenti da tavola rilucevano sopra una spasa; ed erano massicci, lavorati un po’ rudemente da argentari rustici, di forme quasi liturgiche, come sono tutti i vasellami che si trasmettono di generazione in generazione nelle ricche famiglie provinciali. Una fresca fragranza di bucato spandevasi nella stanza.
Candia prendeva dalle canestre i mantili, le tovaglie, le salviette; faceva esaminare alla signora la tela intatta; e porgeva via via ciascun capo a Maria che riempiva i tiratoi, mentre la signora spargeva nelli interstizi un aroma e segnava nel libro la cifra. Candia era una femmina alta, ossuta, segaligna, di cinquant’anni; aveva la schiena un po’ curvata dall’attitudine abituale del suo mestiere, le braccia molto lunghe, una testa d’uccello rapace sopra un collo di testuggine. Maria Bisaccia era un’ortonese, un po’ pingue, di carnagione lattea, d’occhi chiarissimi; aveva la parlatura molle, e i gesti lenti e delicati come colei ch’era usa esercitar le mani quasi sempre tra la pasta dolce, tra li sciroppi, tra le conserve e tra le confetture. Donna Cristina, anche nativa di Ortona, educata nel monastero benedettino, era piccola di statura, con il busto un po’ abbandonato su ’l davanti; aveva i capelli tendenti al rosso, la faccia sparsa di lentiggini, il naso lungo e grosso, i denti cattivi, li occhi bellissimi e pudichi, somigliando un cherico vestito d’abiti muliebri.
Le tre donne attendevano all’opera con molta cura; e spendevano così gran parte del pomeriggio.
Ora, una volta, come Candia usciva con le canestre vuote, Donna Cristina numerando le posate trovò che mancava un cucchiaio.
‟Maria! Maria!” ella gridò, con una specie di spavento. ‟Conta! Manca ’na cucchiara.... Conta tu!”
‟Ma come? Non può essere, signó,” rispose Maria. ‟Mo’ vediamo.”
E si mise a riscontrare le posate, dicendo il numero ad alta voce. Donna Cristina guardava, scotendo il capo. L’argentò tintinniva chiaramente.
‟È vero!” esclamò alla fine Maria, con un atto di disperazione. ‟E mo’ che facciamo?”
Ella era sicura da ogni sospetto. Aveva dato prove di fedeltà e di onestà per quindici anni, in quella famiglia. Era venuta da Ortona insieme con Donna Cristina, all’epoca delle nozze, quasi facendo parte dell’appannaggio matrimoniale; ed oramai nella casa aveva acquistata una certa autorità, sotto la protezione della signora. Ella era piena di superstizioni religiose, devota al suo santo e al suo campanile, astutissima. Con la signora aveva stretta una specie di alleanza ostile contro tutte le cose di Pescara, e specialmente contro il santo dei Pescaresi. Ad ogni occasione nominava il paese natale, le bellezze e le ricchezze del paese natale, li splendori della sua basilica, i tesori di San Tommaso, la magnificenza delle cerimonie ecclesiastiche, in confronto alle miserie di San Cetteo che possedeva un solo piccolo braccio d’argento.
Donna Cristina disse:
‟Guarda bene di là.”
Maria uscì dalla stanza per andare a cercare. Rovistò tutti li angoli della cucina e della loggia, inutilmente. Tornò con le mani vuote.
‟Non c’è! Non c’è!”
Allora ambedue si misero a pensare, a far delle congetture, a investigare nella loro memoria. Uscirono su la loggia che dava nel cortile, su la loggia del lavatoio, per fare l’ultima ricerca. Come parlavano a voce alta, alle finestre delle case in torno si affacciarono le comari.
‟Che v’è successo, Donna Cristí? Dite! dite!”
Donna Cristina e Maria raccontarono il fatto, con molte parole, con molti gesti.
‟Gesù! Gesù! Dunque ci stanno i ladri?”
In un momento il remore del furto si sparse pel vicinato, per tutta Pescara. Uomini e donne si misero a discutere, a imaginare chi potesse essere il ladro. La novella, giungendo alle ultime case di Sant’Agostino, s’ingrandì: non si trattava più di un semplice cucchiaio, ma di tutta l’argenteria di casa Lamonica.
Ora, come il tempo era bello e su la loggia le rose cominciavano a fiorire e due lucherini in gabbia cantavano, le comari si trattennero alle finestre per il piacere di ciarlare al bel tempo, con quel dolce calore. Le teste femminili apparivano tra i vasi di basilico e il ciaramellío pareva dilettare i gatti in su le gronde.
Donna Cristina disse, congiungendo le mani:
‟Chi sarà stato?”
Donna Isabella Sertale, detta la Faina, che aveva i movimenti lesti e furtivi di un animaletto predatore, chiese con la voce stridula:
‟Chi ci stava con voi, Donna Cristí? Mi pare che ho visto ripassare Candia....”
‟Aaaah!” esclamò donna Felicetta Margasanta, detta la Pica per la sua continua garrulità.
‟Ah!” ripeterono le altre comari.
‟E non ci pensavate?”
‟E non ve n’accorgevate?”
‟E non sapete chi è Candia?”
‟Ve lo diciamo noi chi è Candia!”
‟Sicuro!”
‟Ve lo diciamo noi!”
‟I panni li lava bene, non c’è che dire. È la meglio lavandaia che sta a Pescara, non c’è che dire. Ma tiene lu difetto delle cinque dita.... Non lo sapevate, commà?”
‟A me ’na volta mi mancò due mantili.”
‟A me ’na tovaglia.”
‟A me ’na camicia.”
‟A me tre paia di calzette.”
‟A me due fédere.”
‟A me ’na sottana nuova.”
‟Io non ho potuto riavere niente.”
‟Io manco.”
‟Io manco.”
‟Ma non l’ho cacciata; perchè chi prendo? Silvestra?”
‟Ah! ah!”
‟Angelantonia? L’Africana?”
‟Una peggio dell’altra!”
‟Bisogna ave’ pazienza.”
‟Ma ’na cucchiara, mo’!”
‟È troppo, mo’!”
‟Non vi state zitta, Donna Cristí; non vi state zitta!”
‟Che zitta e non zitta!” proruppe Maria Bisaccia che, quantunque avesse l’aspetto placido e benigno, non si lasciava sfuggire nessuna occasione per opprimere o per mettere in mala vista li altri serventi della casa. ‟Ci penseremo noi, Donn’Isabbé, ci penseremo!”
E le ciarle dalla loggia alle finestre seguitarono. E l’accusa di bocca in bocca si propalò per tutto il paese.
II.
La mattina vegnente, mentre Candia Marcanda teneva le braccia nella lisciva, comparve su la soglia la guardia comunale Biagio Pesce soprannominato il Caporaletto.
Egli disse alla lavatrice.
‟Ti vuole il signor Sindaco sopra il Comune, súbito.”
‟Che dici?” domandò Candia aggrottando le sopracciglia, ma senza tralasciare la sua bisogna.
‟Ti vuole il signor Sindaco sopra il Comune, súbito.”
‟Mi vuole? E perchè?” seguitò a domandare Candia, con un modo un po’ brusco, non sapendo a che attribuire quella chiamata improvvisa, inalberandosi come fanno le bestie caparbie dinanzi a un’ombra.
‟Io non posso sapere perchè,” rispose il Caporaletto. ”Ho ricevuto l’ordine.”
‟Che ordine?”
La donna, per una ostinazione naturale in lei, non cessava dalle domande. Ella non sapeva persuadersi della cosa.
‟Mi vuole il Sindaco? E perchè? E che ho fatto io? Non ci voglio venire. Io non ho fatto nulla.”
Il Caporaletto, impazientito, disse:
‟Ah, non ci vuoi venire? Bada a te!”
E se ne andò, con la mano su l’elsa della vecchia daga, mormorando.
Intanto per il vico alcuni che avevano udito il dialogo uscirono su li usci e si misero a guardare Candia che agitava la lisciva con le braccia. E, poichè sapevano del cucchiaio d’argento, ridevano tra loro e dicevano motti ambigui che Candia non comprendeva. A quelle risa e a quei motti, un’inquietudine prese l’animo della donna. E l’inquietudine crebbe quando ricomparve il Caporaletto accompagnato dall’altra guardia.
‟Cammina,” disse il Caporaletto, risolutamente.
Candia si asciugò le braccia, in silenzio; e andò. Per la piazza la gente si fermava. Rosa Panara, una nemica, dalla soglia della bottega gridò con una risata feroce:
‟Posa l’osso!”
La lavandaia, smarrita, non imaginando la causa di quella persecuzione, non seppe che rispondere.
Dinanzi al Comune stava un gruppo di persone curiose che la volevano veder passare. Candia, presa dall’ira, salì le scale rapidamente; giunse in conspetto del Sindaco, affannata; chiese:
‟Ma che volete da me?”
Don Silla, uomo pacifico, rimase un momento turbato dalla voce aspra della lavandaia, e volse uno sguardo ai due fedeli custodi della dignità sindacale. Quindi disse, prendendo il tabacco nella scatola di corno:
‟Figlia mia, sedetevi.”
Candia rimase in piedi. Il suo naso ricurvo era gonfio di collera, e le sue guance rugose avevano una palpitazion singolare.
‟Dite, Don Sí.”
‟Voi siete stata ieri a riportà’ la biancheria a Donna Cristina Lamonica?”
‟Be’, che c’è? che c’è? Manca qualche cosa? Tutto contato, capo per capo.... Non manca nulla. Che c’è, mo’?”
‟Un momento, figlia mia! C’era nella stanza l’argenteria....”
Candia, indovinando, si voltò come un falchetto inviperito che stia per ghermire. E le labbra sottili le tremavano.
‟C’era nella stanza l’argenteria, e Donna Cristina trova mancante ’na cucchiara.... Capite, figlia mia? L’avete presa voi.... pe’ sbaglio?”
Candia saltò come una locusta, a quell’accusa immeritata. Ella non aveva preso nulla, in verità.
‟Ah, io? Ah, io? Chi lo dice? Chi m’ha vista? Mi faccio meraviglia di voi, Don Sí! Mi faccio meraviglia di voi! Io ladra? io? io?...”
E la sua indignazione non aveva fine. Ella più era ferita dall’ingiusta accusa perchè si sentiva capace dell’azione che le addebitavano.
‟Dunque voi non l’avete presa?” interruppe Don Silla, ritirandosi in fondo alla sua grande sedia curule, prudentemente.
‟Mi faccio meraviglia!” garrì di nuovo la donna, agitando le lunghe braccia come due bastoni.
‟Be’, andate. Si vedrà.”
Candia uscì, senza salutare, urtando contro lo stipite della porta. Ella era diventata verde: era fuori di sè. Mettendo il piede nella via, vedendo tutta la gente assembrata, comprese che oramai l’opinione popolare era contro di lei; che nessuno avrebbe creduto alla sua innocenza. Nondimeno si mise a gridare le sue discolpe. La gente rideva, dileguandosi. Ella, furibonda, tornò a casa; si disperò; si mise a singhiozzare su la soglia.
Don Donato Brandimarte, che abitava a canto, le disse per beffa:
‟Piangi forte, piangi forte, che mo’ passa la gente.”
Come i panni ammucchiati aspettavano il ranno, ella finalmente si acquetò; si nudò le braccia, e si rimise all’opera. Lavorando, pensava alla discolpa, architettava un metodo di difesa, cercava nel suo cervello di femmina astuta un mezzo artifizioso per provare l’innocenza; arzigogolando sottilissimamente, si giovava di tutti li spedienti della dialettica plebea per mettere insieme un ragionamento che persuadesse li increduli.
Poi, quando ebbe terminata la bisogna, uscì; volle andare prima da Donna Cristina.
Donna Cristina non si fece vedere. Maria Bisaccia ascoltò le molte parole di Candia scotendo il capo, senza risponder niente; e si ritrasse con dignità.
Allora Candia fece il giro di tutte le sue clienti. Ad ognuna raccontò il fatto, ad ognuna espose la discolpa, aggiungendo sempre un nuovo argomento, aumentando le parole, accalorandosi, di sperandosi dinanzi alla incredulità e alla diffidenza; e inutilmente. Ella sentiva che oramai non era più possibile la difesa. Una specie di abbattimento cupo le prese l’animo. — Che più fare! Che più dire!
III.
Donna Cristina Lamonica intanto mandò a chiamare la Cinigia, una femmina del volgo, che faceva professione di magia e di medicina empirica con molta fortuna. La Cinigia già qualche altra volta aveva scoperta la roba rubata; e si diceva ch’ella avesse segrete pratiche con i ladroncelli.
Donna Cristina le disse:
‟Ritrovami la cucchiara, e ti darò ’na regalía forte.”
La Cinigia rispose:
‟Va bene. Mi bastano ventiquattr’ore.”
E, dopo ventiquattr’ore, ella portò la risposta. — Il cucchiaio si trovava in una buca, nel cortile, vicino al pozzo.
Donna Cristina e Maria discesero nel cortile, cercarono e trovarono, con grande meraviglia.
Rapidamente, la novella si sparse per Pescara.
Allora, trionfante, Candia Marcanda si diede a percorrere le vie. Ella pareva più alta; teneva la testa eretta: sorrideva, guardando tutti nelli occhi come per dire:
‟Avete visto? Avete visto?”
La gente su le botteghe, vedendola passare, mormorava qualche parola e poi rompeva in uno sghignazzío significativo. Filippo La Selvi, che stava bevendo un bicchiere d’acquavite fine nel caffè d’Angeladea, chiamò Candia.
‟’Nu bicchiere pe’ Candia, di questo qua!”
La donna, che amava i liquori ardenti, fece con le labbra un atto di cupidigia.
Filippo La Selvi soggiunse:
‟Te lo meriti, non c’è che di’.”
Una torma di oziosi erasi ragunata innanzi al caffè. Tutti avevano su la faccia un’aria burlevole.
Filippo La Selvi, rivoltosi all’uditorio, mentre la donna beveva:
‟L’ha saputa fa’; è vero? Volpe vecchia....”
E battè familiarmente la spalla ossuta della lavandaia.
Tutti risero.
Magnafave, un piccolo gobbo, scemo e bleso, unendo insieme l’indice della mano destra con quello della sinistra, in un’attitudine grottesca, e impuntandosi su le sillabe, disse:
‟Ca... ca... ca... Candia... la... la... Cinigia...” E seguitò a far de’ gesti e a balbettare con un’aria furbesca, per indicare che Candia e la Cinigia erano comari. Tutti, a quella vista, si contorcevano nell’ilarità.
Candia rimase un momento smarrita, co ’l bicchiere in mano. Poi, d’un tratto, comprese. — Non credevano alla sua innocenza. L’accusavano di aver riportato il cucchiaio d’argento segretamente, d’accordo con la strega, per non aver guai.
Un impeto cieco di collera allora la invase. Ella non trovava parole. Si gittò su ’l più debole, su ’l piccolo gobbo, a tempestarlo di pugni e di graffi. La gente, con una gioia crudele, in cospetto di quella lotta, schiamazzava a torno in cerchio, come dinanzi a un combattimento d’animali; ed aizzava le due parti con le voci e con le gesticolazioni.
Magnafave, sbigottito da quella furia improvvisa, cercava di fuggire, sgambettando come uno scimmiotto; e, tenuto dalle mani terribili della lavandaia, girava con rapidità crescente, come un sasso nella fionda, sinchè cadde con gran veemenza bocconi.
Alcuni corsero a rialzarlo. Candia si allontanò tra i sibili; andò, a chiudersi in casa; si gittò a traverso il letto, singhiozzando e mordendosi le dita, pe ’l gran dolore. La nuova accusa le coceva più della prima, tanto più ch’ella si sentiva capace di quel sotterfugio. ‟Come discolparsi ora? Come chiarire la verità?” Ella si disperava, pensando di non poter addurre in discolpa difficoltà materiali che avessero potuto impedire l’esecuzione dell’inganno. L’accesso al cortile era facilissimo: una porta, non chiusa, corrispondeva al primo pianerottolo della scalinata grande; per togliere l’immondizie o per altre bisogne una quantità di gente entrava ed usciva liberamente da quella porta. Dunque ella non poteva chiudere la bocca alli accusatori dicendo: ‟Come avrei fatto ad entrare?” I mezzi per condurre a termine l’impresa erano molti ed agevoli; e su questa agevolezza si fondava la credenza popolare.
Candia allora cercò differenti argomenti di persuasione; aguzzò l’astuzia; imaginò tre, quattro, cinque casi diversi per spiegare come mai si trovasse il cucchiaio nella buca del cortile; ricorse ad artifizi e a cavilli d’ogni genere; sottilizzò con una ingegnosità singolare. Poi si mise a girare per le botteghe, per le case, cercando in tutti i modi di vincere l’incredulità delle persone. Le persone ascoltavano quei ragionamenti capziosi, dilettandosi. In ultimo dicevano:
‟Va bene! Va bene!”
Ma con tal suono di voce che Candia rimaneva annichilita. — Tutte le sue fatiche dunque erano inutili! Nessuno credeva! Nessuno credeva! — Ella, con una pertinacia mirabile, tornava all’assalto. Passava le notti intere pensando sempre a trovar nuove ragioni, a costruire nuovi edifizi, a superare nuovi ostacoli. E a poco a poco, in questo continuo sforzo, la sua mente s’indeboliva, non sosteneva più altro pensiero che non fosse quello del cucchiaio, non avea quasi più coscienza delle cose della vita comune. Più tardi, per la crudeltà della gente, una vera manía prese il cervello della povera donna.
Ella, trascurando le sue bisogne, s’era ridotta quasi alla miseria. Lavava male i panni, li perdeva, li faceva strappare. Quando scendeva alla riva del fiume, sotto il ponte di ferro, dove erano raccolte le altre lavandaie, a volte si lasciava fuggir di mano le tele che rapiva per sempre la corrente. Parlava continuamente, senza stancarsi mai, della medesima cosa. Per non udirla, le lavandaie giovani si mettevano a cantare e la beffavano nei canti con rime improvvise. Ella gridava e gesticolava, come una pazza.
Nessuno più le dava lavoro. Per compassione le antiche clienti le mandavano qualche cosa da mangiare. A poco a poco ella si abituò a mendicare. Andava per le strade, tutta cenciosa, curva e disfatta. I monelli le gridavano dietro:
‟Mo’ dicci la storia de la cucchiara, che nun la sapemo, zi’ Ca’!”
Ella fermava i passanti sconosciuti, talvolta, per raccontare la storia e per arzigogolare su la discolpa. I giovinastri la chiamavano e per un soldo le facevano fare tre, quattro volte la narrazione; sollevavano difficoltà contro li argomenti; ascoltavano sino alla fine, per poi ferirla con una sola parola. Ella scoteva il capo; passava oltre; si univa alle altre femmine mendicanti e ragionava con loro, sempre, sempre, infaticabile, invincibile. Prediligeva una femmina sorda, che aveva su la pelle una sorta di lebbra rossastra e zoppicava da un piede.
Nell’inverno del 1874 la colse un male. Fu assistita dalla femmina lebbrosa. Donna Cristina Lamonica le mandò un cordiale e un cassetto di brace.
L’inferma, distesa su ’l giaciglio, farneticava del cucchiaio; si levava su i gomiti, tentava di far de’ gesti, per secondare la perorazione. La lebbrosa le prendeva le mani e la riadagiava pietosamente.
Nell’agonia, quando già li occhi ingranditi si velavano come per un’acqua torbida che vi salisse dall’interno, Candia balbettava:
‟Non so’ stata io, signó.... vedete.... perchè.... la cucchiara....”