Rosmunda (Alfieri, 1946)/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Almachilde, Ildovaldo.
di mia gloria primiero. All’opre tue,
vinto il confesso, guiderdon non havvi,
che lor pareggi: ma, se pure io valgo...
Ildov. Signor, se presso alla regal bandiera
oggi pugnai contro il vessillo infido
di Clefi, or merto a me non fia: da’ primi
verdi anni miei, cresciuto ebbermi gli avi
in tal pensier, ch’ella doveami sempre
sacra parer la causa di chi regna,
qual ch’ella fosse.
Almac. Il tuo parlar modesto
ben d’alto cor fa fede: il so; prod’uomo,
presto a piú far, poco il giá fatto estima.
Ma, a piú far che ti resta? appien dispersi,
o spenti hai tu que’ miei nemici vili,
cui paura impennò rapide tanto
l’ali al fuggire. Io fuor di lena affatto,
in tua man li lasciai: sapea ch’ei fora,
dove adopravi il tuo, vano il mio brando.
Ildov. A me fortuna arrider volle. In ceppi
Clefi vien tratto in tuo poter; ferito,
ma non di mortal colpo: al cader suo,
in cor de’ suoi, tosto si spense; e cadde
ogni orgoglio col duce.
Almac. A prova poni,
Ildovaldo, il mio core. Havvi nel mondo
cosa, ove intenda il desir tuo? Deh! parla;
nulla t’ardisco offrir; ma puoi (chi ’l puote
altri che tu?) dirmi qual sia mercede,
che offenda men la tua virtú.
Ildov. Vestirmi
di sviscerato amico tuo sembianza,
prence, non vo’, poich’io tal non ti sono.
Men te, che il trono, oggi a salvare impresi;
trono, la cui salvezza oggi pendea
dal viver tuo. Potrebbe il regio dritto
spettare un giorno forse a tal, cui poco
parriami dar, dando mia vita: io quindi
aspro ne fui propugnatore. Il vedi,
che a te servir, non fu il pensier mio primo.
Nulla mi dei tu dunque; e dall’incarco
di gratitudin grave io giá t’ho sciolto.
Almac. Ti ammiro piú, quant’io piú t’odo. Vinto
pur non m’avrai nella sublime gara.
Me tu non ami, ed altri a me giá il disse;
pur di affidarti della pugna parte,
e la maggior, non dubitava. Or biasmo
giá non ti do, perché a pugnar ti mosse
la vilipesa maestá del soglio,
piú che il periglio mio. So, che non debbe
illustre molto a pro’ guerrier qual sei
parere il mezzo, onde sul trono io seggo:
primo il condanno io stesso: ma, qual fera
necessitá mi vi spingesse orrenda,
tu, generoso mio nimico, il sai.
Suddito altrui me pur, me pur tuo pari
vedesti un dí; né allora, (oso accertarlo)
ho la mia fama: or sappi; in core io stesso
piú infame assai ch’altri mi tien, m’estimo.
Ma non assonno io giá sul sanguinoso
trono; ed in parte la terribil taccia
di traditor (mai non si perde intera)
togliermi spero.
Ildov. Io ti credea dal nome
di re piú assai corrotto il cor: ma sano,
pure non l’hai. Sentir rimorsi, e starsi...
Almac. E starmi omai vogl’io? Giá giá...
Ildov. Ma, questo
trono, tu il sai...
Almac. So che ad altrui s’aspetta;
che mio non è...
Ildov. Dunque...
Almac. Deh! m’odi. Io posso
me far del trono oggi assai meno indegno.
Odimi; e poscia, se tu il puoi, mi niega
di secondarmi... Ma, il desir mio cieco
dove or mi tragge? A’ tuoi servigi io dianzi
guiderdon non trovava, ed or giá ardisco
chiederne a te de’ nuovi?
Ildov. Ah! sí: favella.
Mercede ampia mi dai, se tal mi tieni
da non cercarne alle magnanim’opre.
Che poss’io far? Favella.
Almac. Ad altro patto
non sperar ch’io tel dica, ove tu pria,
se cosa è al mondo che bear ti possa,
chiesta non l’abbi a me. Se vuoi gran parte
del regno; (intero il merti) o s’altro pure
desio piú dolce, e ambizioso meno,
ti punge il cor, nol mi celare: anch’io
so che ogni ben posto non è nel trono:
so, ch’altro v’ha, che mi faria piú lieto;
Desio sta in me, che di mia vita è base
sola; e piú ferve in me, quanto piú trova
ostacoli. — Deh! dunque apriti meco,
perch’io ti giovi un poco, or che puoi tanto,
gli altrui dritti servendo, in un giovarmi.
Ildov. Favellerò, poiché tu il vuoi. — Non bramo
impero, no; mal tu il daresti; e doni
son questi ognor di pentimento e sangue.
Ma, poi che aprirmi il tuo piú interno core
ti appresti, il mio dischiuderti non niego.
Ciò ch’io sol bramo, or nulla a te torrebbe,
e vita fora a me.
Almac. Nomalo; è tuo.
Ildov. ... Amante io vivo, è giá gran tempo: opporsi
sol può Rosmunda all’amor mio; tu puoi
solo da ciò distorla.
Almac. Ed è tua fiamma?...
Ildov. Romilda ell’è...
Almac. Che sento!... Ami Romilda?
Ildov. Sí... Ma stupor donde in te tanto?...
Almac. Ignoto
m’era appieno il tuo amore.
Ildov. Or ch’io tel dico,
perché turbarti? Incerto...
Almac. Io?... Deh! perdona...
stupor non è... — Romilda! E da gran tempo
tu l’ami?
Ildov. E che? forse il mio amor ti spiace?
Sconviensi forse a me? S’ella è di stirpe
regia, vil non son io. Figlia è Rosmunda
di re pur ella, e non sdegnò di sposa
dar mano a te mio uguale.
Almac. E qual fia troppo
alta cosa per te?... Ma, il sai;... Rosmunda
di Romilda dispone;... ed io...
nulla ottener puoi da Rosmunda? e tanto
ella da te, pur tanto, ottenne. — Or basti.
Io giá son pago appieno: ogni mio merto
mi hai giá guiderdonato regalmente,
promettendo.
Almac. Deh! no; nol creder;... voglio...
ma di’... — Romilda!... E riamato sei?
Ildov. Romilda... Eccola.
SCENA SECONDA
Almachilde, Romilda, Ildovaldo.
Oh miei delusi voti! alla non tua
regal corona anco l’alloro intessi?
Palma oggi ottiene il tradimento? — E l’abbia. —
Ma tu, guerrier di generosi spirti,
Ildovaldo, perché l’alta tua possa
spendi a pro di costui? virtú cotanta
dovea mai farsi a tanta infamia scudo?
Almac. Dunque, o ver me non mai placabil donna,
non v’ha forza di tempo, o d’opre modo,
che un cotal poco rammollisca, o acqueti
l’ira tua giusta? A te Ildovaldo il dica,
com’io nel campo ricercai la morte,
ei che a morte mi tolse. — Ah! mal ti prese
pietá di me: morire io lá dovea,
poiché qui offende il vincer mio. — Ma il cielo,
che del mio cor sa l’innocenza, (ah, pura
fosse cosí mia destra!) il ciel fors’oggi
non diemmi invan lustro, e vittoria, ov’io
morte cercai.
Ildov. Non mi accusar, Romilda,
d’aver pugnato. A vendicar tuo padre
distruggitor del trono ad alta voce
ei s’appellava; io combattea pel trono.
Romil. O in libertade questa oppressa gente
Clefi ridur, com’ei dicea, volesse,
o per se regno; ad ottener suo intento
mezzi adoprava assai men vili ognora,
di chi l’ottenne pria. Da prode, in campo,
alla luce del sole, ei l’armi impugna:
e, s’era pur destin, che sul paterno
vuoto mio soglio usurpator salisse,
dovea toccare al piú valente almeno.
Almac. Codardo me v’ha chi nomare ardisca?
Ad assalire il trono altri mostrossi
piú forte mai, ch’oggi a difenderl’io?
Mai non perdoni tu? l’error, ch’io feci
mio mal grado, (il san tutti) io solo il posso
forse emendare; io, sí. Dolce mi fia
renderti ben per male: ho col mio sangue
difeso intanto il vuoto soglio; è tuo
il soglio, il so; mai non l’oblio, tel giuro.
Per quanto è in me, giá lo terresti. Il preme
Rosmunda, ed è...
Romil. Contaminato soglio,
di tradimenti premio, altri sel tenga;
Rosmunda il prema, ella con te n’è degna. —
Ma, se pur finto il tuo pentir non fosse;
se a generosi detti opre accordarsi
potesser poi d’alma giá rea; mi ottieni,
non regno, no, dalla crudel madrigna;
sol di me stessa ottieni a me l’impero.
Libera vita io chieggo; o morte io chieggo.
Quasi appien giá nel mio svenato padre
non avess’ella sfogata sua rabbia,
l’empia Rosmunda, or per piú strazio darmi,
in vita vuolmi, e ad Alarico sposa.
Almac. Odi, Ildovaldo? ah! per te il vedi,
s’io con ragion teco era in dubbio...
Ildov. Sposa
del barbaro Alarico?
Almac. Ah! no...
Romil. Promessa
ad Alarico; ed in mercede io ’l sono
dei non prestati ajuti: hanne sua fede
impegnata colei, che il regno e il padre
mi ha tolto: e a patto nullo omai sua fede
tradir (chi’l crederia?) non vuol Rosmunda.
Deggio al novello sole irne a tai nozze:
ma il nuovo sol me non rischiara ancora. —
Deh! se men d’essa iniquo esser tu puoi;
s’egli è pur mio destin, ricorrer oggi
all’uccisor del padre mio; deh! tenta
di opporti almen...
Almac. Ch’io tenti? io ben ti giuro,
che non v’andrai.
Ildov. Per questo brando io ’l giuro.
Mi udrà Rosmunda...
Romil. Ecco; ella vien nell’ira.
SCENA TERZA
Rosmunda, Almachilde, Romilda, Ildovaldo.
a’ detti suoi sedizíosi orecchio? —
Giorno è di gioja questo: a che, miei prodi,
giova lo starsi infra gli eterni lai
di questa figlia del dolor?... Donzella,
sospiri tu? perché? pronto a’ miei cenni
giá sta Ragauso con regal corteggio,
per guidarti ove trono altro piú illustre
Almac. Ma, d’Alarico...
Rosm. E che? non degno forse
fia di sua man tal re?
Almac. Sí crudo...
Rosm. Crudo,
quanto Alboín? Costei di un sangue nasce,
cui mai novella crudeltá non giunge,
qual ch’ella sia.
Ildov. Tai nozze...
Almac. A tutti infauste...
Rosm. Spiaccionti?
Almac. Niega ella il consenso...
Rosm. E il nieghi:
io v’acconsento.
Romil. Ch’ei di te sia meno
spietato, duolti?
Rosm. E a te pietoso il credi?
pietoso a te? ch’osi tu dir? Non sente
di te pietá: mal ti lusinghi...
Ildov. Io, quanta
sentir sen può, tutta la sento; e il dico;
e il mostrerò, se mi vi sforzi. Un tale
strazio chi può d’una regal donzella
mirar, chi ’l può, senza pietá sentirne?...
Rosm. Pietade ogni uom, tranne Almachilde, n’abbia.
Ildov. Se ancor memoria dei recenti allori,
ch’oggi a te miete il brando mio, tu serbi,
il mio consiglio udrai. Danno tornarti
può, se Romilda oltraggi.
Almac. E assai gran danno.
Ildov. Saggia sei, se nol fai...
Rosm. Saggia è Romilda;
e a mia voglia fará. Tu, i tuoi consigli
serba ad altrui. Giá i tuoi servigj vanti?
Che festi? il dover tuo. — Ma tu, consorte,
ora innanzi a costei discuter teco
l’alte ragion di stato? Andiam; deh!, vieni:
lasciale or breve a ravvedersi il tempo:
miglior consiglio il suo timor daralle.
Lasciala omai. — Romilda, udisti? o all’alba
muovi buon grado il piede; e orrevol scorta
al fianco avrai, cui fia Ragauso duce;
o l’andar nieghi, e strascinarti ei debbe.
SCENA QUARTA
Ildovaldo, Romilda.
Romilda, oh ciel! che a perder t’abbia?...
Romil. Ah! niuna
speme, dal dí che mi fu morto il padre,
e ch’io mi vidi a tal madrigna in mano,
niun’altra speme entro il mio petto accolsi,
se non di morte.
Ildov. Ma, finch’io respiro...
Romil. Credi, null’altro a me rimane. Io sono
presta a morir, piú che nol pensi: in core
di vederti una volta ancor bramava;
darti d’amor l’estremo addio...
Ildov. Deh! taci.
Amata m’ami, e di morir mi parli,
finch’io l’aure respiro, e il brando cingo?
Colma ho ben l’alma di dolor; ma nulla
ancor dispero.
Romil. E donde mai salvezza
può a me venirne?
Ildov. E non son io da tanto,
che di man di costor trarti?...
Romil. Sí, il puoi:
stromenti assai d’iniquitá: feroce,
ma accorta è l’ira di Rosmunda a un tempo.
Deluder puossi?... E se in sua man ricaggio?...
Non lusingarti omai: mia fe non posso,
se non morendo, a te serbare: il tuo
brando, il valor, la vita tua riserba
a ferir colpi, onde si acquetin l’ombre,
del mio padre,... e la mia. Vivi; ti lascio
a vendicare un re tradito, un padre,
e la tua fida amante.
Ildov. Oh ciel! che ascolto?
Il cor mi squarci. Ah!... se tu mai mi lasci...
certo, a vendetta, ed a null’altro io resto.
Ma pure io spero, che vedrai compiuta
cogli occhi tuoi, tu stessa, la vendetta
del mio re, del tuo padre. È ver, non vanto
regal possanza; ma il terror può molto
quí del mio nome: in cor del prode io regno,
e il vil non curo. Io militai giá sotto
le insegne d’Alboín; molti ho de’ miei
nel campo in armi; e i Longobardi tutti
in battaglia m’han visto. Ogni uom sospira
d’Alboín la memoria; e tu pur sempre
ne sei l’unica figlia. — E s’anco nulla
di ciò pur fosse; infra costor, che a farti
si apprestan forza, havvene un sol, mel noma,
ch’arda in suo cor di cosí nobil fiamma,
che a me il pareggi? Quanto il può madrigna,
ti abborra pur Rosmunda, assai piú t’amo,
io che solo a un tuo cenno a morte corro;
a riceverla, o darla.
Romil. Oh senza pari
raro amator!... Ma, ancor che immenso, è poco
il tuo amore a combatter l’efferato
odio di lei.
di ragion salde io m’avvaloro. Aggiungi
ch’anco Almachilde all’empie nozze opporsi,
come l’udisti, ardisce.
Romil. E in lui che speri?
Ildov. Dove costretto di abbassarmi all’arte
foss’io pur, per salvarti, in lui non poco
spero. Ben veggo, che la ria consorte
giá rincresciuta gli è. Capace ancora
ei mi par di rimorsi; il timor solo
ch’egli ha di lei, dubbio ondeggiante il rende.
Quant’egli or mal vieta a Rosmunda in detti,
ben posso io far, ch’ei meglio in opre il vieti.
L’ardir suo mezzo con l’ardir mio intero
ben rinfrancar poss’io.
Romil. Tu mal conosci
Rosmunda. Inciampo alle sue voglie stimi
ch’esser possa la forza? Ad Almachilde
io porsi preghi (e duolmene) perch’egli
per me pregasse. Ahi stolta! Un uom, che vende
la sua fama e se stesso a iniqua moglie;
che all’obbedir suo cieco al par che infame
tutto debbe quant’è, né ad altro il debbe,
mi ajuterá contr’essa?
Ildov. Anzi che annotti,
o sian preghi, o minacce, o colpi sieno,
faccia il destin ciò che piú vuol; purch’io
te non perda: ma assai del dí ne avanza.
Se in altri io debba, o in me fidar soltanto,
tosto il saprò. Quí riedo a te, fra breve:
se a noi rimedio allor riman sol morte,
morte sará. L’estremo addio, che darmi
or vuoi, ricevo allor; ma dato appena
a me lo avrai, ch’ebro d’amore, e d’ira,
e di vendetta, atro sentier di sangue
aprirmi io giuro... Almen molt’altre morti
che di nostra rovina altri mai goda?
Fra il trono e te, Rosmunda sola io veggo.
Romil. E Almachilde?...
Ildov. Almachilde? oggi il mio brando
vivo il serbò: dov’ei sia ingrato, il mio
brando il può spegner oggi. A me fien norma
il tempo, e il caso. — Intanto, il tornar pronto,
l’eterna fede mia, l’alta vendetta
del tuo trafitto genitor, ti giuro.
Romil. Toglier dal cor non io ti vo’ la speme;
ma in me speme una sola io pur riserbo,
di rivederti: e mi vivrò di quella.
Ch’io viva omai, se tua. non sono, invano
lo spereresti. E d’esser tua, qual posso
lusinga farmi?... Al ritornar, ten prego,
non esser tardo.
Ildov. Il tuo dolor profondo
tremar mi fa. Di viver no, ti chieggo
sol d’indugiar finché il morir sia d’uopo.
Giuralo.
Romil. Il giuro.
Ildov. Ed io tel credo, e il tutto
volo a disporre, e tosto a te quí riedo.