Roma italiana, 1870-1895/Il 1886
Questo testo è completo. |
◄ | Il 1885 | Il 1887 | ► |
Il 1886.
Come in sul principio dell’anno precedente, così ai primi di gennaio del 1886, si faceva un gran parlare in Italia, e più specialmente a Roma, di una spedizione africana. Ma non era, come quella antecedente, una spedizione militare; si trattava di una missione diplomatica, guidata dal generale Giorgio Pozzolini, e della quale facevano parte il cav. Bardi, del ministero degli esteri, il viaggiatore Nerazzini, il tenente d’artiglieria Capacci, e il tenente Pennazzi. La missione doveva recarsi presso il Negus Giovanni per concludere un trattato di buon vicinato con l’Abissinia.
La missione partì da Napoli, andò a Massaua, ma non potè vedere il Negus, che si disse partito per reprimere una insurrezione ai confini dello Stato. Quando il ministro Robilant comunicò questa notizia alla Camera, essa non produsse buona impressione.
Sbarbaro, appena rimesso in libertà, aveva annunziato un mondo di cose: prima di tutto la pubblicazione della Penna, giornale che doveva continuare le tradizioni funeste delle Forche Caudine, poi un gran discorso agli elettori di Pavia, e una efficace operosità al Parlamento.
La Penna non usci il 3 gennaio, come egli aveva promesso, ma il 10 soltanto, e prima di fare il famoso discorso di Pavia pensò bene di andare nella nativa Savona, ove ebbe campo di parlare quanto volle, di darsi in pascolo alla curiosità dei suoi concittadini, di farsi baciare in pubblico dalla sua balia piangente, di proclamare là e a Pegli che al Governo del Re doveva essere posto il dilemma: «O giustizia o barricate». Poi fece il discorsone di Pavia, e qui centinaia di strilloni sparsero le innumerevoli copie del giornale di Sbarbaro. Ma nello stesso tempo il senatore di Falco, procuratore generale della corte di cassazione, chiedeva alla Camera facoltà di procedere contro il professore. A quella domanda erano uniti cinque grossi volumi in quarto, che contenevano tutti gli atti dei diversi processi contro Sbarbaro, volumi che l’on. Arcoleo dove leggere appena fu nominato relatore della Giunta parlamentare, cui era affidato l’esame di quella faccenda spiacevole.
Sbarbaro era andato alla Camera, ma aveva preso la parola una volta sola, e si era fatto ascoltare. Parlò lungamente quando l’on. Arcoleo presentò la relazione sulla domanda del Procuratore Generale di procedere contro di lui. L’on. Nicotera aveva proposto che la Camera discutesse subito la domanda; Sbarbaro si oppose e sparando un grande pistolotto aggiunse che era dolente che alla seduta mancasse l’on. Depretis poichè era possibile che venissero presentati documenti così gravi da porre il Governo in istato d’accusa.
Questo accadeva il 13 aprile; il 14 la Camera discusse la domanda del Procuratore Generale, e gli accordò l’autorizzazione di procedere contro Sbarbaro. Il professore non attese che il senatore di Falco si valesse dell’autorizzazione, e lasciò Roma per la Svizzera.
Prima che partisse alcuni italiani di Buenos-Ayres avevano mandato a Sbarbaro una penna d’oro. Il professore, tutto tronfio per il dono ricevuto, la magnificò nella Penna, e quando il Perino, al quale Sbarbaro era costato salato col giornale, non volle più fargli l’editore e Sbarbaro fondò un nuovo giornale, lo chiamò La Penna d’oro, in memoria del ricco dono. Le cose andarono male subito, e una certa volta che non c’era carta per istampare il giornale, la famosa penna d’oro fu data in pegno al fornitore di essa, col patto di riscattarla dentro un certo periodo di tempo. La penna non fu riscattata, il fornitore cercò di venderla e si accorse che era falsa. Il professore, che in breve volger di tempo aveva sofferto tante delusioni, ebbe anche quella di sapere che i suoi lontani ammiratori si erano burlati di lui speculando sulla sua vanità.
Un provvedimento molto umano fu annunziato col 1° gennaio: il Governo diminuiva il prezzo del sale di 20 centesimi al chilogrammo. La diminuzione era la conseguenza delle leggi finanziarie votate a debolissima maggioranza poco prima, e con le quali si aumentava il prezzo sulla fabbricazione degli zuccheri e degli spiriti. Fu un atto di giustizia verso le classi bisognose, che esse e le altre accolsero con gran piacere, perchè chi non sapeva quanta miseria vi fosse in alcune parti d’Italia dopo le sventure delle inondazioni e del colera, che avevano appunto palesato come vivessero i contadini del Veneto e quelli delle Puglie e delle Marche?
Con la presentazione del bilancio comunale si ebbe a Roma un’altra notizia consolante: si vide quanto il Municipio aveva fatto per l’insegnamento. Da quel bilancio risultava che nel 1873 il Comune spendera 800,009 lire annue per l’istruzione, e nel 1886, 1,804,000 lire. Le cifre, in questo caso, indicavano che si erano aumentate scuole e insegnanti, e che se maggiori fossero stati i bisogni, il Comune avrebbe continuato nell’aumento. Che ci fosse bisogno di riforme era evidente. I locali delle scuole non erano nè sufficienti nè igienici, e la distribuzione dell’insegnamento poco efficace. L’assessore Tommassini incominciò dall’abolire le scuole preparatorie e a sostituirle con asili ordinati sul metodo frœbeliano, con aumentare le classi quarte e quinte, coll’alternare le lezioni con le ricreazioni, e col dare incremento al metodo oggettivo per l’insegnamento. Era quasi un programma da ministro più che da assessore; ma l’intelligente e coltissimo uomo riuscì in parte ad attuarlo.
Anche il Re volle fare un dono di capo d’anno all’Associazione della Stampa; essa aveva chiesto che la sua opera pia della Cassa di previdenza fosse innalzata ad ente morale; il Sovrano nel firmare il decreto inviò 20,000 lire d’offerta per quel fondo e fecela accompagnare con una lettera molto cortese al presidente Bonghi. Naturalmente l’Associazione ringraziò calorosamente, e per aumentare il suo fondo fece una lotteria di un milione.
Ai primi di gennaio morì Pietro Pericoli, ex-deputato, ex-amministratore del Banco di Santo Spirito. Egli era sotto processo per essersi valso della sua qualità di amministratore di quell’istituto per far scontare un milione di cambiali alla Banca Romana. La sua morte in quel momento fu provvida, perchè forse gli risparmiò una condanna, e di lui parlo qui perché il suo nome è associato al primo scandalo bancario. Era uomo operoso e intelligente; aveva fondato il Credito Fondiario annesso al Banco di Santo Spirito, e aveva creato la benefica istituzione degli Ospizi Marini. Soccombè ad una malattia di cuore e il suo cadavere fu lasciato lungamente nella stanza mortuaria a San Lorenzo. Rammento che fra le poche corone che circondavano la cassa, ve n’era una modesta e anonima con questa semplice iscrizione: «Un cuore che non dimentica». Nella sventura era dunque rimasto al Pericoli un amico.
Le cortesie scambiate fra il principe di Bismarck e il Papa non facevano buona impressione a Roma. Leone aveva scritto una lettera al Cancelliere dell’impero germanico ringraziandolo in termini lusinghieri di avergli affidato la mediazione nella faccenda delle Caroline, e annunziavagli il conferimento della croce di cavaliere dell’ordine della Milizia di Cristo, e l’invio delle insegne. Bismarck rispose subito ringraziando e facendo molti elogi a Leone XIII.
Questo scambio di cortesie non capitava in un buon momento, perché il Governo nostro aveva iniziato verso la Santa Sede una politica di minor tolleranza, e non si vedeva di buon occhio che appunto la Germania si riavvicinasse al Vaticano quando noi, suoi alleati, sempre più ci se ne scostava.
Qui a Roma i frati francescani dell’Ara Coeli fecero la consegna al Governo del convento annesso alla chiesa e della casa generalizia, che dovevano cadere sotto il piccone per dar luogo ai lavori di demolizione occorrenti per il monumento a Vittorio Emanuele. I cappuccini non mossero nessuna protesta per il momento; essi si erano sempre mostrati più concilianti dei frati di ogni altro ordine. Anzi circa quel tempo essi facevano premure perché alcuni di loro fossero inviati in Africa, nei nostri nuovi possedimenti, e il cardinal Massaia appoggiava in Vaticano quelle premure; ma gl’intransigenti, grandi protettori delle missioni dei Lazzaristi francesi, si opposero.
Il 18 gennaio la Camera riprese i suoi lavori continuando la discussione della perequazione fondiaria, legge di vera giustizia destinata a togliere la disparità che sussisteva nel pagamento della tassa fondiaria fra le diverse regioni d’Italia. Nel Veneto i possessori di terreni erano aggravatissimi; invece nelle provincie meridionali alcuni grandi proprietari non pagavano 200 lire l’anno. È naturale che in Parlamento l’opposizione al progetto di legge partisse appunto dai deputati meridionali. Peraltro il principio della giustizia vinse e la Camera con splendida votazione lo fece trionfare.
Fra gli antiperequazionisti, vocabolo veramente ostrogoto, vi era il marchese di Rudinì, che i deputati napoletani e quelli siciliani consideravano come loro capo.
Si disse allora che i dissidenti nuovi, e i vecchi, che costituivano la Pentarchia, non avessero voluto dar battaglia al ministero sulla perequazione fondiaria, e riserbassero le forze per la legge d’assestamento. Intanto l’on. ministro Magliani aveva fatto l’esposizione del bilancio, e timidamente aveva annunziato che le entrate non coprivano le spese, che anzi vi erano 50 milioni di deficit. L’on. Giolitti si prese l’incombenza di riveder le bucce al ministro delle finanze, e dette alle stampe una memoria con la quale cercava di provare che il disavanzo era di 100 milioni, e che Magliani ci conduceva alla perdizione. Egli alla Camera aveva molti fautori, perchè s’incominciava a capire che le soverchie spese rovinavano l’erario e che anche l’abolizione del corso forzoso, la diminuzione del prezzo del sale, delle decime di guerra, le sovvenzioni alla marina mercantile, erano tutti provvedimenti presi troppo presto. Tre milioni costava all’erario l’aumento di stipendi ai maestri elementari, molti le ferrovie in costruzione, molti ne sarebbero costati la perequazione fondiaria e le nuove spese per l’esercito e per la marina, i cui bilanci segnavano un aumento spaventoso ogni anno. Il grido dunque era «via Magliani» e per dargli una vera battaglia vennero a Roma molti deputati, come molti ne vennero per difenderlo.
Così il 5 marzo alla Camera si videro riuniti 470 rappresentanti della nazione, perché in quel giorno appunto doveva impegnarsi il grande combattimento. Un numero così alto di deputati non si era mai raggiunto dacchè l’Italia era Italia.
Aspra fu la lotta, ma si capi, come aveva osservato l’on. Minghetti, che improvvida sarebbe stata una crisi; molti deputati ritirarono i loro ordini del giorno e fu votato su quello Mordini. Però il ministero ebbe soli 15 voti di maggioranza. I coalizzati Spaventa, Rudinì, Cairoli e Zanardelli videro di esser potenti e durante le vacanze parlamentari, che si protrassero fino a metà marzo, fecero un grande lavorio.
La Camera si riunì il 15 e intraprese subito la discussione sui provvedimenti finanziari per coprire il disavanzo. E non tanto dalle discussioni quanto dal linguaggio dei giornali d’opposizione il Presidente del Consiglio poté arguire le intenzioni degli avversari. Essi ritenevano che il Depretis volesse sciogliere la Camera e non volevano che egli facesse le elezioni; dunque era necessario rovesciarlo. Ma forse l’opposizione non trovò ubbedienza fra i suoi gregari, il fatto si è che la Camera approvò a grande maggioranza i provvedimenti finanziari e dopo poco li votò anche il Senato insieme con i bilanci d’assestamento e con la legge per i maestri elementari, che andò subito in vigore.
Mentre la Camera era adunata, il Depretis, stanco della guerra che gli si faceva con mille mezzi, accennò il desiderio di ritirarsi e ogni giorno si aspettava di sentirglielo annunziare durante la seduta. Già erasi impegnata la discussione sugli uomini che dovevano raccogliere l’eredità di lui; chi credeva costituzionale il partito di chiamare il Cairoli, come capo riconosciuto della opposizione; chi assicurava più opportuno un ministero Nicotera-Robilant-Saracco; giunse dunque come una bomba l’annunzio che fece il Presidente del Consiglio, nella seduta del 14 aprile, che la Camera era sciolta e i comizii sarebbero stati convocati il 23 maggio.
In quei primi mesi del 1886, si continuò a lavorare a Roma con la solita alacrità, senza badare a tante precauzioni, purchè le fabbriche giungessero fino al tetto e si potessero presto affittare.
Mentre i grandi lavori pubblici erano condotti con oculatezza, quelli privati erano fatti alla peggio. Ogni momento crollava la volta di una casa in costruzione e gli operai restavano vittime della imprevidenza e della ignoranza dei costruttori: un disastro più grave degli altri avvenne ai Prati di Castello in fondo alla via Reale, in un fabbricato di proprietà Tosoni. Tre uomini rimasero uccisi e quattro gravemente feriti. La città si commosse profondamente; il Re, sempre primo nel lenire ogni sventura, mandò soccorsi alle famiglie delle vittime ed ai feriti, i costruttori furono arrestati e tutti i muratori di Roma - ed erano migliaia e migliaia - vollero rendere un tributo di affetto ai loro compagni, accompagnandoli al Cimitero. La mattina del trasporto - una trista mattina di marzo molti operai, lasciato il lavoro, corsero di fabbrica in fabbrica a chiamare i compagni, riunirono donne, ragazzi, vecchi e giovani e vestiti com’erano, con gli abiti e il viso PANORAMA DI ROMA VEDUTO DAL CONVENTO DI SANTA SABINA.
schizzati di calce, si recarono presso San Giacomo, da dove mossero i carri concessi dai municipio per il trasporto delle vittime. Dietro quei carri sfilarono muti, silenziosi tutti quei muratori, passando per il Corso e per via Nazionale. La loro vista stringeva il cuore e credo che più desolante e più numerosa dimostrazione non abbia mai traversato le vie di Roma. Quei carri, quella gente lacera, che portava sul viso la traccia delle fatiche, quel silenzio di tomba impietosivano tutti e facevano pensare che cosa sarebbe avvenuto se quella immensa turba di miseri invece di chinare rassegnati il capo, si fossero lasciati vincere dallo spirito di ribellione. Roma non sapeva quanti infelici contava fra le sue mura; quel giorno potè contarli e ne fu sgomenta.
Non solo si costruiva malamente dal punto di vista della solidità, ma anche dell’estetica, e i tedeschi furono i primi a levare la voce.
Hermann Grimm, un devoto amico dell’Italia, scrisse un articolo nella Rundschau sulla distruzione di Roma, che mise qui il campo a rumore e fece nascere vive proteste, anche una del Grispigni in Consiglio. Le proteste erano giuste, perchè i monumenti erano rispettati; ma più effetto fece la lettera del Gregorovius al presidente dell’Accademia di San Luca, con la quale dimostrava che i lavori compiuti negli ultimi anni non rispondevano al concetto artistico di altri tempi, perchè si capì che il Gregorovius era nel vero.
Era allora assessore per l’edilizia il Balestra, che già si era fatto dare del tiranno perchè aveva imposto ai costruttori dell’Esedra di Termini d’inalzare case con porticati. Era un’idea vagheggiata da lui, quella di creare a Roma molti portici, e che aveva già trionfato nella sistemazione del lungo Tevere. Il Comune doveva far eseguire quei lavori lungo il fiume in un periodo di tempo di 25 anni.
In quell’anno vi fu al Palazzo delle Belle Arti un’altra esposizione artistico-industriale, promossa dal Museo Artistico-Industriale e dal comm. Biagio Placidi. Furono esposti i metalli e l’ordinamento non poteva riuscire più bello. Vi concorsero l’Armeria Reale di Torino, mandando a Roma anche l’armatura di Emanuele Filiberto, il signor Raoul Richard, il conte Cesare Pace, tutti i grandi orefici di Roma, la fabbrica Franci di Siena, quella Tis, il del Boschetto, e poi una quantità di altri musei e di privati, cosicchè la mostra riuscì bellissima. La inaugurarano i Sovrani sui primi di febbraio e rimase aperta diversi mesi, con molto piacere degli amatori di oggetti artistici e con grande utilità per gli studiosi. Il duca Torlonia incoraggiava queste esposizioni parziali, e come sindaco accordava ai promotori ogni sorta di facilitazioni.
Il giorno 8 febbraio si spense a Roma, nel suo palazzo in piazza Venezia, il principe don Alessandro Torlonia e la notizia della sua morte fu un vero lutto per la città.
Don Alessandro era molto vecchio, ma tutti, a ogni annunzio delle frequenti malattie che lo travagliavano negli ultimi anni, facevano voti perchè fosse ancora conservato in vita. Non c’era a Roma persona che non lo conoscesse, almeno di vista. Andava sempre vestito con un lungo soprabito antiquato di color marrone, chiuso fino al mento, non portava mai camicie insaldate, e sul capo aveva sempre un alto cilindro arruffato a larghe tese, e attorno al collo una cravatta nera avvoltata all’usanza antica. Nei ricevimenti indossava una giubba turchina a bottoni dorati, e non aveva mai dismesso la moda della camicia a sbuffi e del jabot.
Fino al 1870, don Alessandro aveva gli equipaggi con le livree rosse, come quelle di Casa Reale. Venuta la Corte qui, le cambiò. Egli usciva sempre con due carrozze tirate da due magnifiche pariglie di storni. Nella prima andava lui, nella seconda gli impiegati addetti alla sua casa. Questo era il suo solo lusso; in casa menava, fra tante ricchezze, vita modestissima. Egli abitava due stanzette al terzo piano del palazzo e quasi tutto il giorno stava in computisteria, lavorando col suo amministratore, il signor Eugenio Visconti, seduto su una sedia di paglia davanti a una scrivania, che sarebbe parsa incomoda a uno scrivano qualsiasi. Mangiava sempre solo, eccettuato i giorni di solennità e di feste di famiglia. La mattina si nutriva di caffè e latte e di carne fredda, la sera di ministra, lesso, un piatto con legumi e una bottiglia di vino. Gli era parso un lusso di dover sostituire per ordine del medico, al vino paesano, una bottiglietta di Bordeaux. Ogni mattina si alzava alle 8, andava in chiesa, perchè era religiosissimo e diceva di voler esser sempre pronto a comparire dinanzi a Dio, e dopo faceva una passeggiata in campagna. Fu al ritorno da una di quelle passeggiate, e quando dal quartiere della figlia si faceva condurre nel suo, che venne colpito dal male, al quale soccombè dopo una mezz’ora.
Dopo la morte, il corpo di don Alessandro rimase nella cameretta ov’egli era spirato. Soltanto il giorno dopo fu portato nella galleria, che il defunto amava tanto e paventava di vedere demolita, e dove ogni domenica passava alcune ore dinanzi alle sue care opere d’arte. La salma era rivestita dell’umile saio del francescano, ordine al quale apparteneva come terziario. Il popolo fu ammesso a visitarla. Nessuna pompa terrena circondava la salma, a piedi della quale erano posate due corone della famiglia, e al disopra del capo era appesa quella enorme inviata dalla Giunta municipale su cui stava scritto soltanto «Roma».
L’associazione del cadavere fu fatta nella chiesa dei SS. Apostoli affollata di parenti, di amici e di popolo. Monsignor Lenti, vice-gerente di Roma, ufficiava; fu celebrata dai cantori della cappella pontificia, la messa di Palestrina a sole voci, e quindi il corpo venne posto in un carro funebre e portato a Castel Gandolfo, ove fu sepolto accanto a quello della moglie.
Il testamento del principe fu l’epilogo di tutta la sua vita di uomo giusto, previdente e benefico. Lasciò intatte le dotazioni agli istituti di carità, e divise il ricco patrimonio fra la figlia e il primogenito del primogenito di lei.
Ne cito un brano caratteristico diretto a donna Anna Maria:
«A te e al Duca tuo consorte raccomando pure di educare i figli nel senso di far onore alla patria, senza che abbiano a confondere mai questo sentimento con quell’eccesso di liberalismo che il più delle volte degenera in licenza e libertinaggio».
Alle molte vacanze di segretariati generali venne nell’inverno ad aggiungersi quella del ministero della Pubblica Istruzione per le dimissioni dell’on. Martini, che ritornò poco dopo al giornalismo e fece una serie di corrispondenze al Popolo Romano sulla esposizione di Anversa, e pareva dovesse ritornarci stabilmente fondando una rivista. Quel divisamento non ebbe effetto, ed egli continuò a dedicare l’intelligenza ai lavori parlamentari,
La Corte vide sparire in primavera un altro dei funzionari devoti alla dinastia. Morì il conte Panissera di Veglio, prefetto di Palazzo e gran Maestro delle Cerimonie. Era ancora giovane e non limitava le sue occupazioni a dirigere i servizi di Corte. Come suo cognato, il marchese di Villamarina, si dedicava alle arti, era presidente dell’Accademia Albertina di Torino, aveva disegnato il monumento per il Frèjus e aveva avuto parte importante nella commissione per il monumento a Vittorio Emanuele in Campidoglio. Il Re gli voleva molto bene e ordinò che gli fossero resi onori solenni.
La mediazione per la vertenza delle Caroline non aveva fruttato soltanto al Papa una bella lettera del principe di Bismarck; l’imperatore Guglielmo per mezzo del suo inviato signor von Schloezer mandò a Leone una croce pettorale riccamente tempestata di rubini e brillanti nel cui centro si vedeva lavorata a rilievo la testa del Redentore. La Regina di Spagna non si mostrò neppur essa indifferente alle premure del Pontefice per il mantenimento della pace. Ella scrissegli una lettera affettuosissima e lo pregò di far uso delle sue prerogative sovrane investendo del Toson d’oro il cardinal Lodovico Jacobini, segretario di Stato.
Il Papa compì la cerimonia con grandissima pompa e poco dopo inviava alla regina Cristina il premio della virtù, la famosa rosa d’oro. Questo dono era consegnato al nuovo arcivescovo di Madrid, inalzato a quella dignità nel concistoro di maggio, nel quale furono creati cardinali i monsignori Theodoli, Mazella, Langenieux, Place, Gibbons, Bernardon e Taschereaux. Il dono consisteva in una pianta di rose nella quale si contavano nove fiori, quattordici bocci, e cento foglie. La rosa principale era al vertice e conteneva il balsamo e il muschio come vuole la tradizione. Lo stelo era collocato in un vaso d’argento dorato con due angioletti al posto delle anse. Nel centro vi era l’effige di Santa Cristina, e la dedica da un lato.
Tutte queste tenerezze verso i sovrani stranieri inasprivano il conflitto fra la Santa Sede e l’Italia.
Il Fazzari dovendo fare un programma elettorale, mise per base la conciliazione fra la Chiesa e lo Stato, e pubblicò quella lettera nel Corriere di Roma, giornale moderato, che il primo gennaio era stato fondato qui da Edoardo Scarfoglio e da Matilde Serao.
Quel programma era una magnifica utopia, ma mancava di base. È possibile che i rapporti fra l’Italia e la Santa Sede sieno più o meno tesi, secondo qual vento spira a palazzo Braschi e in Vaticano, ma la conciliazione non è possibile finchè il Papa non cessa dal rivendicare il potere temporale.
A Roma e in Italia si parlò molto della proposta Fazzari, accolta bene dalla gente desiderosa di veder cessare il dissidio; alcuni giornali la sostennero, ma il Governo continuò a battere la strada opposta.
Uno degli ultimi atti della Camera moritura era stato il sanzionamento della legge per il riconoscimento giuridico delle Società di Mutuo Soccorso; contro quella legge avevano parlato specialmente due deputati socialisti: il Costa e il Majocchi; in favore molti, fra cui l’on. Sbarbaro, che era nel suo campo.
La commissione per il monumento a Garibaldi fu sin dal principio dell’anno affidata allo scultore Gallori, ed egli era così infervorato del suo lavoro che sperava poterlo ultimare e consegnare in breve tempo; invece quanti anni dovevano passare prima che la statua sorgesse sul Gianicolo! Quella stessa sorte è toccata a tanti altri lavori iniziati in quel tempo, come il Palazzo della Banca Nazionale e il Quartiere di San Cosimato, per il quale fu concluso nel 1886 una convenzione fra il Municipio e la Compagnia Fondiaria Italiana.
Il duca Torlonia in mezzo alle occupazioni gravi che gli procuravano il Municipio e la Camera, non aveva rinunziato alla vita elegante. In quell’inverno era a Roma donna Eleonora, figlia del principe Monroy di Belmonte; il duca la conobbe all’ambasciata di Germania, la incontrò in altri ricevimenti e fu ammaliato dalla soavità delle maniere della vaga fanciulla siciliana. Ai primi di aprile i due giovani erano fidanzati. Appena questa notizia fu conosciuta a Roma, il duca ricevè le congratulazioni del Consiglio comunale e la Regina volle conoscere la promessa sposa, che era figlia di una sua dama, e le fu presentata dalla principessa di Ottaiano.
Grandi preparativi furono fatti in casa Torlonia per ricevere la sposa. Il duca affidò al pittore Piatti l’incarico di abbellire il quartiere di donna Eleonora, affinchè ella, assuefatta al fasto e all’eleganza delle grandi famiglie siciliane, non giudicasse troppo disadorno il palazzo di via Bocca di Leone.
I Belmonte abitavano all’albergo del Quirinale, e nel piano terreno di esso, addobbato con una quantità immensa di fiori, fu firmato il contratto nuziale. Un grande ricevimento tenne dietro a quella cerimonia e i numerosissimi invitati poterono ammirare i doni veramente principeschi inviati alla sposa dal Re, dalla Regina, da Ismail Pascià, dal Consiglio comunale e da tutti i parenti delle due famiglie.
Il matrimonio civile fu celebrato con molta pompa; tutte le dame romane vi assistevano, ma quello religioso ebbe anche maggiore splendore.
La chiesa di Santa Maria degli Angeli riusciva angusta a contenere tutta la folla elegante che vi assisteva. Non pareva che si celebrasse il matrimonio di due giovani patrizi, ma quello di un principe e di una principessa della Casa Reale. Monsignor Lenti, vice-gerente, dette agli sposi la benedizione nuziale, ed essi erano così lieti di vedere che tutta Roma partecipava alla loro felicità che nell’uscire dal tempio camminavano come trasognati, rispondendo con un sorriso vago agli sguardi e agli augurii degli invitati. Il duca e la duchessa lasciarono subito Roma per Frascati, e poi partirono per un lungo viaggio all’estero.
Nel breve periodo concesso alla lotta elettorale, l’opposizione e il Governo avevano tratto largo partito per accaparrarsi voti. Il lavoro non era stato mai più grande che in quel tempo. A Roma la lotta fu viva, anzi vivissima. L’on. Depretis fece una lunga esposizione del suo operato in un banchetto al quale assistevano circa 200 persone nella sala dell’albergo del Quirinale, e seppe parlare con la sua solita abilità; l’on. Cairoli espose il suo programma al teatro Apollo. Pare che qui il programma del candidato d’opposizione incontrasse maggior favore che quello del capo del Governo, perchè due soli candidati del partito ministeriale riuscirono eletti: il duca Torlonia e il Siacci; mentre trionfarono in tre collegi i candidati dell’opposizione, che erano Cairoli, Guido Baccelli e il conte Pianciani. Non fu così nel resto d’Italia, ove i ministeriali vinsero in molti collegi i candidati d’opposizione.
Prima che si riaprisse la Camera, la Gazzetta Ufficiale pubblicò una lista di 40 nuovi senatori. Fra questi vi erano l’on. Farini e l’on. Puccioni, due uomini d’incontestato valore parlamentare, che venivano a mancare alla Camera elettiva.
Il Re inaugurò la Camera il giorno ni giugno facendo un discorso piuttosto incolore; si credeva che avrebbe parlato dell’Africa, ma non vi accennò neppure.
Il Biancheri era il candidato ministeriale alla presidenza, e sul suo nome non vi fu lotta, tanto è vero che raccolse 321 voti. Dopo l’apertura della Camera l’on. Cairoli accettò subito di porsi alla testa della opposizione e fu eletto capo di essa.
Si erano appena chiuse le urne per le elezioni politiche, che dovettero riaprirsi per quelle amministrative. Ma al solito i liberali non si dettero briga dell’esito di esse e mostraronsi disuniti e indisciplinati, di guisa che l’Unione Romana ebbe la meglio, e molti consiglieri neri andarono in Campidoglio. Però il nome sul quale si raccolsero maggiori voti fu quello di don Leopoldo Torlonia, che era in quel tempo il beniamino della città. Nessun sindaco ha avuto prima o dopo tanta autorità morale, quanta egli ne ebbe in quei due anni che corsero dal 1886 alla fine del 1887.
La Camera sedè brevemente, e, come avviene in principio di ogni legislatura, fu più occupata di convalidare elezioni, che di altro. I bilanci non erano stati discussi dalla Camera precedente, e la nuova non aveva tempo di esaminarli con calma. L’on. Bonghi propose che fosse accordato al Governo l’esercizio provvisorio fino a dicembre. Il Presidente del Consiglio, per esser sicuro degli intendimenti della Camera a suo riguardo, fece questione di gabinetto dell’accettazione della proposta Bonghi, che fu approvata. Cosi il Governo ebbe per sei mesi le mani libere.
Benedetto Cairoli, eletto a Roma e a Pavia, aveva optato per la sua città nativa, cosicchè il primo collegio di Roma era rimasto vacante. Negli amici del Coccapieller sorse allora il pensiero di eleggerlo per liberarlo dal carcere, tanto più che il processo Lopez-Governatori, che si svolgeva ad Ancona, provava che il tribuno non aveva avuto torto svelando certe magagne. La moglie di Francesco Coccapieller voleva far domanda di grazia, e raccolse le dichiarazioni di tutte le persone offese, ma il ministro di Grazia e Giustizia non potè inoltrarla perchè Coccapieller ricusavasi di far la domanda.
Intanto viva era la lotta per l’elezione del i collegio; Coccapieller e don Fabrizio Colonna erano i due nomi per i quali si combatteva ad oltranza. Il patrizio per propiziarsi i trasteverini non sdegnò di recarsi all’osteria di Muzio Scevola, e di accettare una cena dagli elettori. Egli ebbe maggiori voti del tribuno a primo scrutinio; ma nella elezione di ballottaggio Coccapieller vinse. Allora incominciarono le dimostrazioni per ottenere che fosse liberato. I suoi partigiani raccolsero 10,566 firme in un album e glielo presentarono per indurlo a chieder la grazia. Egli finalmente la chiese, ma sdegnando la solita procedura burocratica, fece la domanda e la suggellò indirizzandola al Re. Il direttore delle carceri non osando aprire un plico diretto al Sovrano, lo portò al Ministero dell’Interno, dal quale fu trasmesso a quello di Grazia e Giustizia. L’on. Tajani dovette dunque inviare la domanda senza accompagnarla da un parere, come il ministro suol fare sempre.
Il Re, per avere quel parere, ritornò la domanda all’on. Tajani, dal quale intanto erasi recata una deputazione di elettori del I collegio, guidata dal conte Cristofani. Il ministro assicurò gli elettori che il Re avrebbe fatto subito la grazia Difatti Coccapieller fu rimesso in libertà il 2 settembre ed ebbe dagli elettori calorose dimostrazioni; egli dovette affacciarsi al terrazzo della sua casa in via de Greci e parlare lungamente al popolo.
Il Messaggero aveva proposto che tutti gli amici di Coccapieller si quotassero a 30 centesimi al mese affinchè egli potesse senza pensieri esercitare il suo ufficio di deputato. Il giornale aveva già raccolto più di 2000 lire, che Coccapieller accettò per pagare le multe.
Egli era assai ammalato all’uscir di carcere e partì subito per un paesello sopra a Spoleto, cosicchè la sua elezione turbò poco la calma estiva di Roma.
Oltre il Coccapieller, le Carceri Nuove avevano perduto altri tre ospiti, cioè Vittorio e Lionello de Vecchi e il conte de Dorides, accusati di tradimento. Gli ufficiali superiori chiamati a deporre sull’importanza delle carte sequestrate, avevano dichiarato che esse contenevano il segreto di Pulcinella, che la maggior parte del materiale della nostra marina veniva dall’estero, e altre cose, che quasi quasi fecero parer ridicolo il processo stesso.
Vittorio de Vecchi si dimise da professore delle scuole tecniche di Livorno, Lionello fu sottoposto a un procedimento disciplinare, e il conte de Dorides andò in Francia a raccogliere la ricca eredità paterna, e non si occupò più di giornali, nè di rapporti sugli esperimenti della marina.
La Cassazione di Roma aveva confermata la condanna di Angelo Sommaruga a 5 anni e mezzo di carcere, ma egli era fuggito in Svizzera, e così fra fughe ed assoluzioni erano terminati tutti i clamorosi processi iniziati l’anno prima.
La questione del monumento a Vittorio Emanuele non era ancora definitivamente risulta, perchè non era stato giudicato il concorso per la statua equestre, che doveva coronare il sontuoso edifizio.
In luglio furono assegnati premi ai concorrenti Balzico, Barzaghi, Borghi, Cantalamessa e Civiletti. A quelle sedute non era stato invitato ad assistere il conte Sacconi, esecutore del monumento. Egli protestò giustamente e fu invitato. Per altro a nessuno dei concorrenti fu dato incarico di eseguire la statua, anzi si bandì un nuovo concorso con quattro premi: al primo doveva spettare l’esecuzione della statua equestre; agli altri tre 7000 lire per ciascuno.
In quel mese di luglio dovevano pure giudicarsi i progetti per il palazzo di Giustizia; si erano presentati 44 concorrenti, quasi il doppio di quelli che avevano preso parte alla gara annullata dell’anno precedente; ma non venne presa nessuna risoluzione.
A Camera chiusa le discussioni non cessarono mai sulla politica ecclesiastica del Governo. Il ministro Tajani aveva fatto espellere i gesuiti dal convento di San Gaetano a Firenze, con circolare aveva richiamato l’attenzione delle autorità locali sulle indebite vestizioni che si facevano in tutti i conventi di monache del Regno, ordinando che ne fossero espulse quelle che avevano preso il velo dopo la promulgazione della legge. I giornali cattolici si risentivano ed il ministro li faceva sequestrare. Il Papa intanto ordinava al cardinal Jacobini di spedire note ai Nunzi per richiamare l’attenzione dei Governi sulle condizioni che l’Italia faceva al Papato. Al solito quelle comunicazioni diplomatiche non avevano nessun esito, perchè le potenze non volevano immischiarsi in quella faccenda. Ma sin d’allora si cominciò a riparlare della partenza del Papa da Roma. Gli intransigenti, che trionfavano, spingevano continuamente Leone XIII ad abbandonare il Vaticano, ma il Papa seppe resistere.
Qui a Roma i Gesuiti compravano l’albergo Costanzi sulla via San Nicolò da Tolentino per fondarvi il Collegio Germanico, e subito lo trasformarono, e misero mano alla costruzione della chiesa attigua, piccola di proporzioni, ma elegantissima.
Dalla parte dei Prati di Castello il Comune aveva già allargata la cinta daziaria, comprendendo in essa tutto il nuovo quartiere. L’antica cinta da quel lato era costituita dal Tevere.
Questo allargamento doveva esser seguito da un altro, che poi si fece, perchè fuori delle porte si costruiva quanto e forse più che dentro, e non era giusto che gli abitanti di quei quartieri fossero esonerati dal pagamento dei dazi di consumo. Con i proprietari delle aree fuori Porta San Lorenzo, il Comune, dopo aver udito il parere del Consiglio di Sanità, aveva stabilito un compromesso, mediante il quale essi si obbligavano a sospendere le costruzioni a 300 metri dal Camposanto. Parve che il Comune fosse stato troppo condiscendente, ma non si tenne conto che nella parte del Campo Verano più vicina all’abitato non si seppelliva più, cosicchè la distanza fra il Cimitero e l’abitato era molto maggiore di quel che pareva.
La votazione della legge sulla perequazione fondiaria portò per conseguenza la necessità di nuove operazioni geometriche per formare il catasto del Regno, e il ministro delle Finanze istituì una commissione tecnica che dirigesse quei lavori. Essa era presieduta dal professor Brioschi e ne facevano parte i deputati Curioni e Badaloni, cinque professori d’università, il colonnello Ferrero, direttore dell’Istituto Geodetico di Firenze, il de Stefanis, il Magnaghi, ufficiale superiore di marina, e il professor Pucci, della scuola d’applicazione per gl’ingegneri di Roma; in pari tempo il ministro istituiva un’altra commissione tecnico-amministrativa per le indagini sullo stato e sul valore delle mappe esistenti.
Anche in quest’anno il colera affliggeva una parte d’Italia, e specialmente il litorale adriatico. A Roma si riapri il lazzaretto di Santa Sabina, e vi furono ricoverate alcune persone venute di fuori e colpite da male sospetto, e altre che si erano ammalate qui. Il Papa pure fece mettere in assetto completo il lazzaretto di Santa Marta, affinchè fosse pronto per qualsiasi evenienza. Ma Roma rimase incolume, mercè le misure adottate, e la severa applicazione dei regolamenti sanitari. In quell’anno molte frutta finirono nel Tevere, e fu proibita l’introduzione del mosto in città.
Il Re con un atto generoso inviò al sindaco di Roma 100.000 lire, affinchè costituisse un comitato a favore dei piccoli comuni colpiti dal colera. La Giunta, spronata dall’invito del Sovrano, si costituì subito in comitato ed elargì 40.000 lire. Essa raccolse in poco tempo più di mezzo milione e giorno per giorno inviava le somme ai comuni più bisognosi. Senza tanto scalpore e lavorando da sola, la Giunta compì in quel tempo di sventura opera altamente benefica.
Alla fine d’agosto, senza nessun apparato, si inaugurò il Teatro Drammatico Nazionale, costruito a spese di alcuni signori romani, i quali avevano fatto il tentativo di rialzare le sorti del teatro drammatico italiano. Il Teatro Nazionale piacque agli invitati della prima sera, che udirono recitare un monologo dalla Glech e una conferenza dal Leigheb, e piacque anche al pubblico quando fu aperto con la compagnia Pilotto. In quest’anno e nei successivi il nuovo teatro ebbe molta voga, ma poi il pubblico lo abbandonò, ritornando al Quirino e al Valle.
Col vento anticlericale che soffiava e che aveva preso forza nei comizii di Milano e di altre città, fu facile a Menotti Garibaldi di riunire a Mentana 7000 persone per la commemorazione patriotica, alla quale egli aveva dichiarato, con un proclama, di voler dare significato di protesta contro il Vaticano.
Appena il ff. di Sindaco, duca Torlonia, tornò dal suo viaggio disse di volersi rimettere con lena al lavoro e nonostante il quartiere per la sposa non fosse anche pronto, egli veniva ogni mattina da Frascati e passava gran tempo in Campidoglio. Ma le buone disposizioni di lui furono paralizzate da una sequela di pettegolezzi, così egli si dimise e scrisse una lettera nella quale assicurava di non poter desistere dal suo proposito perchè troppo soffrivano gl’interessi della famiglia dovendo occuparsi di quelli della città. La crisi fu lunga, ma finalmente il duca Torlonia si lasciò vincere dalle preghiere della Giunta e del Consiglio comunicategli con lettera dall’assessore Bastianelli, e ritirò le dimissioni.
Un altro fatto appassionò Roma e fu largamente discusso nei giornali della capitale: Il capitano di vascello Turi in una lettera al Popolo Romano aveva biasimato la disposizione data dal ministro della guerra di sospendere i lavori del forte Rocchetta, a Spezia. I giornali d’opposizione lodarono l’ufficiale; l’ammiraglio Guglielmo Acton, che era il superiore diretto del Turi, lo mise agli arresti e riferì al ministro della marina, il quale pose l’ufficiale superiore in disponibilità.
Per il 20 settembre di quell’anno il Re, rispondendo al telegramma speditogli a Monza dall’assessore Bastianelli, aveva qualificata Roma «intangibile conquista.» La felice espressione del Sovrano era stata raccolta in ogni parte d’Italia e l’affetto per lui, che aveva affermata l’intangibilità di Roma, era anche aumentato. Si volle dunque fargli una affettuosa dimostrazione al suo ritorno alla capitale, e quella dimostrazione fu promossa dalla Società dei Reduci Italia e Casa di Savoia. Tutte le associazioni con bandiere e musiche erano ad attendere il Re alla stazione, e quando salì in carrozza, questa fu in un attimo circondata da una folla plaudente, che voleva staccare i cavalli. Il Re dovette alzarsi sulla carrozza pregando di non farlo, ma la dimostrazione seguì i Sovrani correndo fino al Quirinale, e con gridi entusiastici li costrinse più volte a comparire sul balcone.
Oltre la morte del principe Torlonia, molti altri lutti funestarono il patriziato romano. Nella villa del principe Pio di Savoia sul lago Maggiore morì la bella principessa d’Antuni, dopo aver dato alla luce il suo secondo bambino; nella villa di Frascati si spense don Marcantonio Borghese, dicesi in conseguenza di una malattia di fegato procuratagli dalla pena per la causa col Municipio rispetto alla sua villa, e nel suo palazzo in piazza del Foro Traiano si suicidò il giovane marchese Napoleone di Roccagiovane.
La famiglia era assente e la camera mortuaria fu invasa dai cronisti dei giornali, i quali poterono leggere anche le ultime parole tracciate dal morente, e rivelare la causa che lo aveva spinto al suicidio, e il nome della dama per la quale si era ucciso.
Quella malsana curiosità dispiacque a tutti, e alcuni giornali più all’antica, cioè più cauti e riguardosi, protestarono, ma tutto fu inutile perché lo stesso fatto si è sempre ripetuto di poi ogni qualvolta la sventura ha colpito una casa.
Dal signor Rouvier, inviato della Repubblica francese, dal signor Decrais, ambasciatore presso il Quirinale, dal ministro Robilant e dall’on. Boselli era stato firmato il trattato di navigazione fra la Francia e l’Italia, ma qui si parlava di denunziare il trattato doganale, che era in facoltà delle nazioni contraenti di far cessare prima del 1888, e a Torino e a Milano vi era in quel senso una viva agitazione.
Il 23 novembre si riaprì la Camera e il presidente annunziò nientemeno che 20 interrogazioni. Ve n’erano sull’affare Turi, sulla politica estera, su quella interna, sulle ferrovie, su ogni cosa un po’. L’on. Depretis propose che si stabilisse di discuterle la domenica, dovendosi subito sbrigare i bilanci. Ma questi non furono discussi altro che in parte, e le sole deliberazioni importanti che prese la Camera furono quelle per accordare una pensione alle vedove e agli orfani dei Mille, e per la tumulazione delle ceneri di Rossini a Santa Croce, come aveva proposto l’on. Filippo Mariotti.
Alla Camera, il giorno 10 dicembre poco dopo le 4 giunse la notizia della morte di Marco Minghetti e si vide allora, dal rimpianto dei colleghi, in quale alta stima egli fosse tenuto. Il presidente Biancheri non gli fece elogio funebre uniformandosi alla volontà di lui, che tre giorni prima avevagli scritto in quel senso prevedendo prossima la fine.
Attorno al letto di morte del grande uomo di Stato non ci furono pettegolezzi, nè tentativi di ritrattazione. Marco Minghetti morì da cattolico. Egli aveva detto spesso a monsignore Anzino, talvolta celiando, talvolta seriamente, che in punto di morte lo avrebbe voluto accanto a sè, e la Regina informata di questo desiderio fece telegrafare a monsignore a Mantova che partisse subito. Il prelato giunse alle 11 di mattina e subito andò in piazza Paganica in casa Minghetti, ove trovò riuniti accanto al letto del morente donna Laura, il figliastro, principe di Camporeale, la duchessa di Sermoneta, il nipote Ernesto Masi e gli amici Bonghi, Spaventa, Visconti-Venosta e il senatore Giovanni Morelli. In presenza di questi amici monsignore Anzino amministrò a Marco Minghetti l’estrema unzione. I preti mandati dal Cardinal Vicario e dal Parroco di S. Angelo in Pescheria non furono introdotti per ordine del principe di Camporeale.
Il Re era stato il giorno prima insieme con la Regina a visitarlo, e alle parole di conforto del Sovrano, Minghetti rispose: «Avrei desiderato vivere per servire ancora la patria e lei».
Tutti lo sentivano che la morte del Minghetti era una perdita per il paese, e il Depretis soprattutto, al quale aveva dato negli ultimi tempi così largo appoggio; e i telegrammi e le condoglianze che giunsero alla vedova furono innumerevoli. Tutti i Principi della casa di Savoia, tutti i ministri italiani, il Principe Imperiale di Germania, espressero a donna Laura il loro cordoglio, e Bologna, la città nativa dell’estinto, mandò qui rappresentanze, come ne mandarono Legnago, che il Minghetti rappresentava al Parlamento, e le principali città italiane. La proposta di onorare a Bologna Marco Minghetti parti dal professor Ceneri, perché l’insigne non aveva avuto nemici, ma soltanto avversari in politica. Anche il testamento di lui rivelava l’uomo giusto ed integro; egli lasciava le azioni del canepificio di Bologna, che costituivano la maggior parte del suo patrimonio, alle nipoti Masi e Amici; la moglie era creata usufruttuaria generale, ed erede il principe Paolo di Camporeale, che il Minghetti aveva educato con cura veramente paterna. A Guido Borromeo lasciò il prezioso nècessaire donatogli da Napoleone III; agli amici Bonghi, Spaventa, Brioschi, Morelli, Cavalletto, Visconti-Venosta, un ricordo. I suoi manoscritti legava alla biblioteca di Bologna.
Il duca d’Aosta, per disposizione del Re, venne a Roma per assistere ai funerali di Marco Minghetti. L’assoluzione del cadavere, per l’angustia della parrocchia dell’estinto, fu data nella chiesa di S. Maria degli Angeli. Seguivano il feretro tutte le notabilità di Roma, ove non si era mai veduto accompagnamento funebre più solenne di quello. La salma fu deposta in una sala della stazione ed accompagnata da una deputazione della Camera partì la sera per Bologna.
In dicembre il duca Torlonia insieme con donna Eleonora, che egli si compiaceva di associare anche alla sua vita pubblica, mise la prima pietra della grande scuola «Regina Margherita» in Trastevere, sull’area del già convento di Santa Cecilia; poco prima era stato inaugurato un tratto della via Palermo fino alla via Agostino Depretis, e difaccia si apriva al pubblico la Galleria Margherita, la prima che si vedesse a Roma. Il municipio aveva pure ordinato la demolizione del palazzetto Sciarra e faceva allargare via delle Muratte. I lavori del Corso Vittorio Emanuele erano energicamente proseguiti, cosicchè la città continuava a estendersi e a rimodernarsi; non oso dire abbellirsi, perchè divido l’opinione di molti che si sarebbe potuto far molto meglio, anche edificando quartieri salubri, perchè l’igiene non è nemica dell’estetica; ma le costruzioni furono fatte in fretta e con lo scopo di lucro, e quando c’è di mezzo il guadagno, al bello si guarda poco.
Se dunque Roma non si abbelliva, ampliavasi peraltro sempre e siccome la popolazione aumentava in media di 20,000 abitanti ogni anno, calcolavasi che di case ce ne sarebbe stato sempre maggiore bisogno.
Sulla fine dell’anno vi fu all’Assise un nuovo spettacolo per i frequentatori dei Filippini: i due fratelli Lopez, l’elegante Tommaso, già condannato come ricettatore dei milioni rubati alla sede della Banca Nazionale d’Ancona, e Filippo, notissimo a Napoli, comparvero sul banco degli accusati per aver fatto scontare a un certo Viola sei mesi di carcere, cui era condannato invece l’avvocato Bianchini. Tutte le antiche amiche dell’avvocato Lopez, e le amiche delle amiche si vollero levare il gusto di vederlo così caduto in basso e andarono alle sedute; ma i due Lopez furono assolti e le amiche non ebbero, come le frequentatrici dell’Assise di Ancona, la soddisfazione di assistere a svenimenti e altre scene dolorose.
Prima che l’anno terminasse, gli ambasciatori di Turchia, di Francia e d’Austria presentarono le lettere di richiamo e vennero a Roma Photiades Pascià, il signor de Mouhy e il barone de Bruk.
La grande notizia che correva a Roma agli ultimi di gennaio era quella sul viaggio in Oriente del Principe di Napoli. Egli aveva dato gli esami del secondo corso della scuola di guerra in presenza del Re, della Regina, del ministro della guerra, generale Ricotti, del general Pasi, primo aiutante di campo di Sua Maestà, del general Cosenz, capo dello stato maggiore, e dei suoi insegnanti, colonnello Osio, maggiore Morelli di Popolo e professori Morandi, Zambaldi e Perotti. Il Principe reale fu promosso sottotenente e addetto al 1° reggimento fanteria, che aveva stanza a Gaeta. La sera vi fu pranzo al Quirinale in onore del Principe, e vi assistevano tutti gli esaminatori e gl’insegnanti. L’ultimo dell’anno il Re conferì al Principe il collare dell’Annunziata. Ormai egli entrava in una nuova fase d’esistenza, che il viaggio in Oriente avrebbe iniziata.