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ci conduceva alla perdizione. Egli alla Camera aveva molti fautori, perchè s’incominciava a capire che le soverchie spese rovinavano l’erario e che anche l’abolizione del corso forzoso, la diminuzione del prezzo del sale, delle decime di guerra, le sovvenzioni alla marina mercantile, erano tutti provvedimenti presi troppo presto. Tre milioni costava all’erario l’aumento di stipendi ai maestri elementari, molti le ferrovie in costruzione, molti ne sarebbero costati la perequazione fondiaria e le nuove spese per l’esercito e per la marina, i cui bilanci segnavano un aumento spaventoso ogni anno. Il grido dunque era «via Magliani» e per dargli una vera battaglia vennero a Roma molti deputati, come molti ne vennero per difenderlo.
Così il 5 marzo alla Camera si videro riuniti 470 rappresentanti della nazione, perché in quel giorno appunto doveva impegnarsi il grande combattimento. Un numero così alto di deputati non si era mai raggiunto dacchè l’Italia era Italia.
Aspra fu la lotta, ma si capi, come aveva osservato l’on. Minghetti, che improvvida sarebbe stata una crisi; molti deputati ritirarono i loro ordini del giorno e fu votato su quello Mordini. Però il ministero ebbe soli 15 voti di maggioranza. I coalizzati Spaventa, Rudinì, Cairoli e Zanardelli videro di esser potenti e durante le vacanze parlamentari, che si protrassero fino a metà marzo, fecero un grande lavorio.
La Camera si riunì il 15 e intraprese subito la discussione sui provvedimenti finanziari per coprire il disavanzo. E non tanto dalle discussioni quanto dal linguaggio dei giornali d’opposizione il Presidente del Consiglio poté arguire le intenzioni degli avversari. Essi ritenevano che il Depretis volesse sciogliere la Camera e non volevano che egli facesse le elezioni; dunque era necessario rovesciarlo. Ma forse l’opposizione non trovò ubbedienza fra i suoi gregari, il fatto si è che la Camera approvò a grande maggioranza i provvedimenti finanziari e dopo poco li votò anche il Senato insieme con i bilanci d’assestamento e con la legge per i maestri elementari, che andò subito in vigore.
Mentre la Camera era adunata, il Depretis, stanco della guerra che gli si faceva con mille mezzi, accennò il desiderio di ritirarsi e ogni giorno si aspettava di sentirglielo annunziare durante la seduta. Già erasi impegnata la discussione sugli uomini che dovevano raccogliere l’eredità di lui; chi credeva costituzionale il partito di chiamare il Cairoli, come capo riconosciuto della opposizione; chi assicurava più opportuno un ministero Nicotera-Robilant-Saracco; giunse dunque come una bomba l’annunzio che fece il Presidente del Consiglio, nella seduta del 14 aprile, che la Camera era sciolta e i comizii sarebbero stati convocati il 23 maggio.
In quei primi mesi del 1886, si continuò a lavorare a Roma con la solita alacrità, senza badare a tante precauzioni, purchè le fabbriche giungessero fino al tetto e si potessero presto affittare.
Mentre i grandi lavori pubblici erano condotti con oculatezza, quelli privati erano fatti alla peggio. Ogni momento crollava la volta di una casa in costruzione e gli operai restavano vittime della imprevidenza e della ignoranza dei costruttori: un disastro più grave degli altri avvenne ai Prati di Castello in fondo alla via Reale, in un fabbricato di proprietà Tosoni. Tre uomini rimasero uccisi e quattro gravemente feriti. La città si commosse profondamente; il Re, sempre primo nel lenire ogni sventura, mandò soccorsi alle famiglie delle vittime ed ai feriti, i costruttori furono arrestati e tutti i muratori di Roma - ed erano migliaia e migliaia - vollero rendere un tributo di affetto ai loro compagni, accompagnandoli al Cimitero. La mattina del trasporto - una trista mattina di marzo molti operai, lasciato il lavoro, corsero di fabbrica in fabbrica a chiamare i compagni, riunirono donne, ragazzi, vecchi e giovani e vestiti com’erano, con gli abiti e il viso schiz-