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dicesi in conseguenza di una malattia di fegato procuratagli dalla pena per la causa col Municipio rispetto alla sua villa, e nel suo palazzo in piazza del Foro Traiano si suicidò il giovane marchese Napoleone di Roccagiovane.

La famiglia era assente e la camera mortuaria fu invasa dai cronisti dei giornali, i quali poterono leggere anche le ultime parole tracciate dal morente, e rivelare la causa che lo aveva spinto al suicidio, e il nome della dama per la quale si era ucciso.

Quella malsana curiosità dispiacque a tutti, e alcuni giornali più all’antica, cioè più cauti e riguardosi, protestarono, ma tutto fu inutile perché lo stesso fatto si è sempre ripetuto di poi ogni qualvolta la sventura ha colpito una casa.

Dal signor Rouvier, inviato della Repubblica francese, dal signor Decrais, ambasciatore presso il Quirinale, dal ministro Robilant e dall’on. Boselli era stato firmato il trattato di navigazione fra la Francia e l’Italia, ma qui si parlava di denunziare il trattato doganale, che era in facoltà delle nazioni contraenti di far cessare prima del 1888, e a Torino e a Milano vi era in quel senso una viva agitazione.

Il 23 novembre si riaprì la Camera e il presidente annunziò nientemeno che 20 interrogazioni. Ve n’erano sull’affare Turi, sulla politica estera, su quella interna, sulle ferrovie, su ogni cosa un po’. L’on. Depretis propose che si stabilisse di discuterle la domenica, dovendosi subito sbrigare i bilanci. Ma questi non furono discussi altro che in parte, e le sole deliberazioni importanti che prese la Camera furono quelle per accordare una pensione alle vedove e agli orfani dei Mille, e per la tumulazione delle ceneri di Rossini a Santa Croce, come aveva proposto l’on. Filippo Mariotti.

Alla Camera, il giorno 10 dicembre poco dopo le 4 giunse la notizia della morte di Marco Minghetti e si vide allora, dal rimpianto dei colleghi, in quale alta stima egli fosse tenuto. Il presidente Biancheri non gli fece elogio funebre uniformandosi alla volontà di lui, che tre giorni prima avevagli scritto in quel senso prevedendo prossima la fine.

Attorno al letto di morte del grande uomo di Stato non ci furono pettegolezzi, nè tentativi di ritrattazione. Marco Minghetti morì da cattolico. Egli aveva detto spesso a monsignore Anzino, talvolta celiando, talvolta seriamente, che in punto di morte lo avrebbe voluto accanto a sè, e la Regina informata di questo desiderio fece telegrafare a monsignore a Mantova che partisse subito. Il prelato giunse alle 11 di mattina e subito andò in piazza Paganica in casa Minghetti, ove trovò riuniti accanto al letto del morente donna Laura, il figliastro, principe di Camporeale, la duchessa di Sermoneta, il nipote Ernesto Masi e gli amici Bonghi, Spaventa, Visconti-Venosta e il senatore Giovanni Morelli. In presenza di questi amici monsignore Anzino amministrò a Marco Minghetti l’estrema unzione. I preti mandati dal Cardinal Vicario e dal Parroco di S. Angelo in Pescheria non furono introdotti per ordine del principe di Camporeale.

Il Re era stato il giorno prima insieme con la Regina a visitarlo, e alle parole di conforto del Sovrano, Minghetti rispose: «Avrei desiderato vivere per servire ancora la patria e lei».

Tutti lo sentivano che la morte del Minghetti era una perdita per il paese, e il Depretis soprattutto, al quale aveva dato negli ultimi tempi così largo appoggio; e i telegrammi e le condoglianze che giunsero alla vedova furono innumerevoli. Tutti i Principi della casa di Savoia, tutti i ministri italiani, il Principe Imperiale di Germania, espressero a donna Laura il loro cordoglio, e Bologna, la città nativa dell’estinto, mandò qui rappresentanze, come ne mandarono Legnago, che il Minghetti rappresentava al Parlamento, e le principali città italiane. La proposta di onorare a Bologna Marco Minghetti parti dal professor Ceneri, perché l’insigne non aveva avuto nemici, ma soltanto avversari in politica. Anche il testamento di lui