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zati di calce, si recarono presso San Giacomo, da dove mossero i carri concessi dai municipio per il trasporto delle vittime. Dietro quei carri sfilarono muti, silenziosi tutti quei muratori, passando per il Corso e per via Nazionale. La loro vista stringeva il cuore e credo che più desolante e più numerosa dimostrazione non abbia mai traversato le vie di Roma. Quei carri, quella gente lacera, che portava sul viso la traccia delle fatiche, quel silenzio di tomba impietosivano tutti e facevano pensare che cosa sarebbe avvenuto se quella immensa turba di miseri invece di chinare rassegnati il capo, si fossero lasciati vincere dallo spirito di ribellione. Roma non sapeva quanti infelici contava fra le sue mura; quel giorno potè contarli e ne fu sgomenta.

Non solo si costruiva malamente dal punto di vista della solidità, ma anche dell’estetica, e i tedeschi furono i primi a levare la voce.

Hermann Grimm, un devoto amico dell’Italia, scrisse un articolo nella Rundschau sulla distruzione di Roma, che mise qui il campo a rumore e fece nascere vive proteste, anche una del Grispigni in Consiglio. Le proteste erano giuste, perchè i monumenti erano rispettati; ma più effetto fece la lettera del Gregorovius al presidente dell’Accademia di San Luca, con la quale dimostrava che i lavori compiuti negli ultimi anni non rispondevano al concetto artistico di altri tempi, perchè si capì che il Gregorovius era nel vero.

Era allora assessore per l’edilizia il Balestra, che già si era fatto dare del tiranno perchè aveva imposto ai costruttori dell’Esedra di Termini d’inalzare case con porticati. Era un’idea vagheggiata da lui, quella di creare a Roma molti portici, e che aveva già trionfato nella sistemazione del lungo Tevere. Il Comune doveva far eseguire quei lavori lungo il fiume in un periodo di tempo di 25 anni.

In quell’anno vi fu al Palazzo delle Belle Arti un’altra esposizione artistico-industriale, promossa dal Museo Artistico-Industriale e dal comm. Biagio Placidi. Furono esposti i metalli e l’ordinamento non poteva riuscire più bello. Vi concorsero l’Armeria Reale di Torino, mandando a Roma anche l’armatura di Emanuele Filiberto, il signor Raoul Richard, il conte Cesare Pace, tutti i grandi orefici di Roma, la fabbrica Franci di Siena, quella Tis, il del Boschetto, e poi una quantità di altri musei e di privati, cosicchè la mostra riuscì bellissima. La inaugurarano i Sovrani sui primi di febbraio e rimase aperta diversi mesi, con molto piacere degli amatori di oggetti artistici e con grande utilità per gli studiosi. Il duca Torlonia incoraggiava queste esposizioni parziali, e come sindaco accordava ai promotori ogni sorta di facilitazioni.

Il giorno 8 febbraio si spense a Roma, nel suo palazzo in piazza Venezia, il principe don Alessandro Torlonia e la notizia della sua morte fu un vero lutto per la città.

Don Alessandro era molto vecchio, ma tutti, a ogni annunzio delle frequenti malattie che lo travagliavano negli ultimi anni, facevano voti perchè fosse ancora conservato in vita. Non c’era a Roma persona che non lo conoscesse, almeno di vista. Andava sempre vestito con un lungo soprabito antiquato di color marrone, chiuso fino al mento, non portava mai camicie insaldate, e sul capo aveva sempre un alto cilindro arruffato a larghe tese, e attorno al collo una cravatta nera avvoltata all’usanza antica. Nei ricevimenti indossava una giubba turchina a bottoni dorati, e non aveva mai dismesso la moda della camicia a sbuffi e del jabot.

Fino al 1870, don Alessandro aveva gli equipaggi con le livree rosse, come quelle di Casa Reale. Venuta la Corte qui, le cambiò. Egli usciva sempre con due carrozze tirate da due magnifiche pariglie di storni. Nella prima andava lui, nella seconda gli impiegati addetti alla sua casa. Questo era il suo solo lusso; in casa menava, fra tante ricchezze, vita modestissima. Egli abitava