Rivista di Cavalleria - Volume I/I/La Cavalleria in Africa
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La Cavalleria in Africa
I.
È questo il soggetto di una conferenza da me tenuta nel febbraio del 1896, nella quale, prendendo ad esame ogni singolo combattimento delle nostre campagne d’Africa, volli dimostrare la necessità di quest’arma, attribuendo in gran parte alla sua assenza i nostri rovesci, ed alla sua cooperazione un gran merito per le riportate nostre vittorie.
Se le mie parole non furono prese in seria considerazione, furono però benignamente ascoltate; il mio amor proprio ne restò soddisfatto per la persuasione che lentamente vidi nascere in chi mi lesse e ascoltò, avanti all’evidenza dei fatti successi, ed al dilemma circa il terreno, risolto nel senso che come era percorso dai baggàra e dalle migliaia di galla, poteva percorrerlo qualche nostro squadrone, montato alla loro foggia, od a quella degli spahis francesi, degli egiziani, ed anche degli indoinglesi regolari, od irregolari di Deoli ed Erinpoura.
Nè si potè impugnare la verità, che in tutti i combattimenti nei quali prese parte la cavalleria, le truppe nostre ebbero il sopravvento, ed in quelli, nei quali essa non cooperò colle altre armi, ebbero invece la peggio.
La serie dei fatti d’armi, da me presi in esame, incominciava col combattimento di Agordat, e terminava coll’accerchiamento di Makallé, mentre il comandante in capo italiano concentrava il suo campo ad Adigrat, in attesa di rinforzi dalla madre patria.
In questo periodo, di cavalleria in Africa non si mandarono che pochi soldati, dai vari reggimenti..... a fare il servizio di conducenti di cammelli, e di muli. Lo squadrone di cacciatori rimaneva a Cheren; nel teatro meridionale di guerra non avevamo un solo cavalleggero!
Sopravvenne l’infausta giornata del 1° marzo, la disfatta completa del corpo di spedizione ad Adua.
Non c’era cavalleria.... la mia proposizione veniva di nuovo dimostrata purtroppo da un altro, ormai irreparabile, disastro.
Ma davanti a quella immane sciagura, ed a più serie cause, che la originarono, l’esame dei particolari dell’impiego tattico di un’arma, che non c’era, e che si reclamava, sarebbe stato allora fuor di proposito, ed in silenzio mi riconfermai sempre più nella mia opinione.
Senonchè nello scorso giugno, più di un anno dopo, comparve nella Revue de Cavalerie un articolo del quale nello prime righe lessi con mio stupore queste parole: «les désastres italiens (in Africa), sont dus surtout à l’absence de cavalerie dans le corps expéditionnaire».
Pur deplorando, in quell’istante, che fosse una voce non italiana, che faceva un’eco così consona al grido di rimpianto già da me emesso assai prima, mi compiacqui però leggere nell’articolo le mie stesse parole, espresse le mie stesse idee, dedotte le medesime conclusioni.
Un rapido sguardo all’articolo, un breve sunto della mia conferenza convinceranno chi legge, e l’autorevole voce di quello, corroborerà quanto io già dissi in questa.
II.
Siamo ad Amba-Alagi nel dicembre del ’95.
«L’absence de cavalerie au corps de couverture (generale Arimondi) a eu des conséquences désastreuses. Toselli prévenu à temps de l’approche de forces supérieures aux siennes eût pu refuser le combat, et se replier. Les deux groupes (Toselli-Arimondi) du corps de couverture, éloignés à peine de 50 kilom. l’un de l’autre n’ont aucun lien entre eux. C’est par quelques fuyards, qu’Arimondi apprend le désastre d’Amba-Alagi. dant le negus lance au loin sa cavalerie.... la garnison de Makallé est aussitôt cernée par les cavaliers gallas, bientôt suivis par le corps de Makonnen».
Il Negus intanto — così prosegue l’articolo — attraverso ad una regione accidentata, quanto il massiccio dei Pirenei, marcia a grandi giornate, preceduto dalla sua cavalleria che prende il contatto cogli italiani..... Questi continuano a ricevere rinforzi di fanteria e di artiglieria «mais pas un seul cavalier, sous le mauvais prétexte que le termin est impropre à l’action de l’arme».
Glà le forze italiane sono riunite ad Adigrat; si vedono già gli abissini, poi tutto ad un tratto scompaiono. Nel generale italiano cresce l’inquietudine «l’ennemi nous tourne sans doute» esclama egli «peut-être est-il en marche sur Massaoua» e così (dice la Revue de Cavalerie) «on vit à Adigrat dans un état d’affolement perpétuel. A quoi tient cet état d’incertitude énervante sur les projets de l’adversaire? A l’absence de cavalerie».
Ed in questo stato d’incertezza di tentennamento, d’indecisione si perde un tempo prezioso (se ne conoscono purtroppo le conseguenze) e si giunge al 29 febbraio.
30.000 italiani (è sempre la Revue che parla) ripartiti in quattro brigate sono accampati sulle alture, che si estendono da Sauria al colle di Zala; gli abissini (60.000 fucili) al nord di Adua; il Negus ha mandato a 40 chilometri indietro la sua cavalleria a foraggiare, e non ha sottomano che un migliaio di cavalieri galla.
Alle 21 gl’italiani su tre colonne si portano sulle alture, che si estendono tra il colle di Chidane-Meret e Rebbi-Arienne. La colonna di sinistra (generale Albertone) «se trompe, et vient croiser, et l’etarder la colonne du centre (Arimondi). Quelques cavaliers éclairant les colonnes auraient permis d’éviter ce contre-temps».
Albertone allora riprende la marcia, oltrepassa il punto, ove doveva fermarsi, ed urta contro tutto l’esercito abissino. È annientato. Intanto gli abissini attaccano ed avviluppano il centro e la destra degli italiani. «Chaque colonne restée, faute de cavalerie, sans aucun lien tactique avec les colonnes voisines, livre combat pour son compte; il n’y a aucune action d’ensemble».
Intanto dai monti di Abba-Garima, Menelik segue tutte le fasi della battaglia, e quando verso le 11 ¾ «il voit les fanions des generaux Baratieri et Eliena, qui se retirent, il s’écrie: Oh! si j’avais ma cavalerie!
«Si le 30.000 cavaliers gallas avaient pris part à la bataille, l’armée italienne toute entière eût été anéantie.»
E con queste verità indiscutibili così si pone fine all’articolo:
«Ces faits prouvent que les nécessités tactiques, qui exigent imperieusement la présence des trois armes dans un corps appelé à opérer isolèment sont absolument les mêmes sous toutes les latitudes, en Afrique comme en Europe.
«Il n’était pas inutile de rappeler que la cavalerie doit jouer un rôle aussi important dans les expéditions coloniales, que dans les guerres européennes.»
Ed in altro articolo, (La colonne expèditionnaire et la cavalerie à Madagascar) il periodico francese ritorna di nuovo su questo argomento. «Se il 29 febbraio, egli dice, le tre brigate che si avanzavano avessero avuto dei piccoli gruppi di cavalieri per riconoscere le strade e stabilire il collegamento, si sarebbero molto probabilmente potuti evitare gli errori, che si produssero nella marcia. E se, quando il 1° marzo il generale Dabormida alle 5 del mattino arrivò al colle di Rebbi, e non trovò sulla sua sinistra il generale Albertone al colle di Chidane-Meret, avesse potuto disporre di qualche cavaliere per ritrovare questa brigata, e riferirne al generale in capo, e questi a sua volta avesse potuto trasmettere i suoi ordini alla brigata Arimondi, e lanciare qualche ricognizione verso sud-ovest, laddove sentiva il cannone, è probabile che le due brigate Arimondi e Dabormida, prevenute della marcia dei Ras Maltonnen e Mangascià avrebbero potuto, se non riordinare la situazione, eseguire almeno la ritirata in buon ordine. Queste sono semplici ipotesi, ma è certo che il comandante è stato male informato, e quindi impossibilitato a dare degli ordini.
«Et bien qu’on ne puisse attribuer exclusivément ces conditions fàcheuses au manque absolu de cavalerie, on ne peut s’empêcher cependant de reconnaître, que la promptitude des renseignements, et de la transmission des ordres est une question vitale en campagne, que la cavalerie est l'arme la plus propre à la résoudre; enfin que dans cet ordre d’idées les plus petites causes peuvent produire les plus grands résultats.»
E a coloro che per avventura obbiettassero la difficoltà del terreno risponde:
«Il suffira d’opposer l'exemple de l'armée choanne elle-même, dont la cavalerie galla fort nombreuse put non seulement intervenir dans le combat, mais encore accomplir jusqu’au milieu de la nuit une poursuite active et ininterrompue.»
III.
La Revue de Cavalerie si è limitata nei suoi articoli ai fatti successi nel teatro di guerra meridionale dell’Eritrea; ed era ben naturale.
Essa si proponeva di dimostrare a quali disastrose conseguenze abbia portato l’assenza della cavalleria dal combattimento.
Noi però, che volevamo anche accennare alla necessità di aumentare le forze di quest’arma là, ove fu con buon risultato impiegata, abbiamo dovuto prendere in esame anche i fatti che sì svolsero alla frontiera occidentale, cioè ad Agordat, e Cassala contro i Dervisci, ed anche nel teatro sud a Coatit.
Fino dall'11 dicembre 1893 si avevano vaghe notizie di movimenti dei Dervisci, e devonsi in grandissima parte alle informazioni della nostra cavalleria, dei due squadroni cioè di Cheren e Asmara, le conseguenti disposizioni, prese dal colonnello Arimondi, sia pel rifornimento di viveri, e munizioni nel forte di Agordat, come pel concentramento delle truppe stesse.
Tralascierò la descrizione di questa battaglia, che tutti noi conosciamo, che secondo il parere di ognuno è la più brillante di tutta la campagna d’Africa, e nella quale appena 2.400 dei nostri, cioè due battaglioni, le bande del Barca, due batterie da montagna e due squadroni (capitani Framarin e Carchidio) respinsero i Dervisci che contavano 8.000 fucili, 3.000 lancie e 600 cavalieri.
Merita in questa battaglia singolare menzione lo squadrone di Cheren (Carchidio), il quale respinge con cariche la cavalleria baggàra a Cufit, fronteggia con valore l’avanzata della massa mahadista a Sciaglet, sull’Achermannà, sul Giachè.
Ed oltre ai già segnalati servigi resi nell’esplorazione, che come abbiamo detto fruttarono una così brillante vittoria, ed ai ripetuti e ben riusciti attacchi a cavallo, quest’arma, come spessissimo avverrà nei teatri di guerra europei, nell’ora suprema della ripresa offensiva appieda coi due squadroni, e lanciata insieme alla compagnia di riserva all’attacco, dà nuovo vigore al combattimento, rianima i nostri che ritornati all’attacco ricuperano i pezzi perduti, e sgominano la massa nemica ricacciandola sbaragliata nel Barca.
E circa al combattimento nel forte, giova notare quanto dice la relazione ufficiale:
«la cavalleria nostra, a cagione delle condizioni topografiche del campo di combattimento, non potè spiegare l’azione propria della cavalleria, ma appiedata mostrò le stesse qualità della fanteria, e concorse al contro-attacco»
Siamo al 17 luglio del ’94. Cassala! Quanta gloria ricorda a noi questo nome!
La medaglia d’oro al valore, conferita a quel prode, capo dello squadrone di Cheren, capitano Carchidio, quale aureola di gloria tramanda oggi un suo raggio alla posterità, in attestato di quell’onore che l’Italia gli tributò!
Anelante di attaccare i cavalieri nemici esce il capitano dal quadrato, formato dal grosso della colonna, alla testa di 96 cavalieri, ed al grido di Savoia ripetuto da tutti con slancio eroico e confuso con quello fanatico di Cufer Cufer, carica i ben 250 baggàra, direttisi contro il fianco sinistro dello squadrone italiano; la mischia è generale, accanita, ed in breve numerosi caduti giacciono da ambe le parti. Chè se i dervisci sono scossi, gli italiani non sono in grado di prolungare la lotta, giacchè quasi un terzo di essi sono fuori di combattimento. Al comando «Ritirata, galoppo» Carchidio cade trafitto da ben 11 colpi di lancia.... L’eroe aveva compiuta la sua missione, e spariva circonfuso di gloria, dalla scena di questo episodio della battaglia.
Anche qui la cavalleria concorse efficacemente colla sua azione al conseguimento della vittoria. Compiè una delle sue più belle missioni, assegnatele sul campo di battaglia nelle guerre moderne, quella cioè di attirare a sè la cavalleria avversaria, e di gettarla già scossa dalle granate, sotto i colpi della fanteria che ebbe così tutto il tempo di spiegarsi dal quadrato, e di aprire il fuoco.
Pur troppo qui è da deploratasi l’esiguità di forze della cavalleria, che aveva davanti a sè un’orda di cavalieri sei volte maggiore. E devesi attribuire a questa deficienza di forze il non averla potuta lanciare all’inseguimento. E poichè è risaputo che la cavalleria baggàra protesse la ritirata dei Dervisci, il terreno si sarebbe più o meno prestato anche alla nostra, per molestare ed incalzare il nemico, rigettandolo nell'Atbara.
Nè credasi che si avesse a che fare con un nemico di poca vaglia.
Il contegno della cavalleria baggàra merita d’esser preso in considerazione. Le sue ricognizioni furono condotte con molta oculatezza ed intelligenza; con senno essa rinunciò a vari attacchi contro quadrati di fanteria, armata di fucili a tiro rapido; stormeggiando nascose la propria forza, tese agguati, ed attaccò inaspettata il fianco sinistro dello squadrone, già lanciato alla carica, in una parola seppe combattere con tutte le regole dell’arte moderna la più razionale, e su di un terreno, tutto cespugli, mirò più direttamente ad avvolgere, anzichè ad infrangere coll’urto.
Ed ora una osservazione, a conferma di una mia proposta circa l’armamento della nostra cavalleria in Africa. Da pochi o nessuno (lo dissero gli ufficiali dello squadrone) fu adoperata la sciabola, gli ufficiali, e graduati adoperarono la pistola, i soldati, anche nella mischia, fecero uso del loro moschetto. Perchè?
Poteva lo squadrone, spossato omai dopo tanto galoppo e carriera su quel terreno, appena riordinato riprendere l’offensiva? No; nè poteva certamente appiedare, nè attendere da pie’ fermo colla sciabola in pugno il nemico.
Non è forse il caso di studiar bene la cosa, e di provvedere anche regolarmente, se non convenga oggi, specialmente col moschetto a ripetizione, e di lunga portata, in alcune circostanze di tempo e di luogo far fuoco a cavallo?
IV.
Ed ora entriamo in un terreno più difficile per la cavalleria, nel teatro di guerra meridionale.
Nel combattimento di Coatit e Senafè del gennaio dell’anno appresso prende parte un sol plotone di cavalleria, che fu in principio impiegato nel servizio di corrispondenza e di guida. Nè il suo impiego sarebbe stato efficace nel combattimento in causa dell’esiguità del reparto, e della conformazione del terreno stesso, tutto collinoso che ad Est e a Nord-Est di Coatit scende dapprima in una insenatura ondulata, per risalire e declinare poscia di nuovo, verso oriente, a balze più o meno pronunciate; vero terreno da altipiano etiopico, sconvolto e sassoso, interrotto da fossi, spesseggiante di sterpi, massi e cespugli.
È certo però che nell’inseguimento, se si avessero avuti un paio di squadroni a disposizione, questi avrebbero potuto almeno tenere il contatto, e riferire che Mangascià a tarda sera, al sorgere della luna, con tutti i suoi guerrieri era già partito per Digsa. Invece il contatto fu perduto completamente, e non si seppe che a mezzanotte della fuga del Ras, da un prete cofto, intromessosi come paciere tra il generale italiano e Mangascià.
E che il terreno, sebbene difficile, fosse percorribile dalla cavalleria, ce lo dimostra la ricognizione del tenente Ferrari, che se non potè spingersi troppo avanti, fu in causa dell’esiguità della forza del suo reparto, che non gli permise di distaccarsi troppo dal grosso.
E qui scompare dall’orizzonte etiopico, dalla parte italiana, la cavalleria.
Siamo ad Amba Alagi nel dicembre dello stesso anno 1895.
Tutti conosciamo ormai il concentramento degli Scioani, che ai primi di questo mese, raccolti a Borumieda, in parecchie diecine di migliaia giungono inaspettati al confine del Tigrè.
L’avanguardia, forte dì più di 20.000 uomini agli ordini di Ras Makonnen, il giorno 6 è in vista dell’Amba Alagi. Ma il maggiore Toselli fino al mattino del 7 non ha un'idea precisa dell'uragano, che sta per scatenarsi; alle 6 1|2 vede bensì davanti a sè scorazzare dei cavalieri nemici nel piano di Atzalà, che esplorano le nostre forze; ma non dispone di un sol cavaliere per ributtarli, e riconoscere dietro di loro.
Troppo tardi scorge le ingenti forze che si avanzano; ormai gli è impossibile di ritirarsi, di avvertirne in tempo il generale Arimondi, col quale non è collegato in nessun modo per la trasmissione degli ordini e degli avvisi, e per ricevere dei soccorsi che lo proteggano almeno nella ritirata, e rendano meno grave l’imminente disastro che lo minaccia.
Soltanto alle 9,45 è informato del movimento girante di Ras Alula e di Mangascià sulla sua ala destra pel colle di Togorà!
Ormai tutto è perduto, il combattimento con sovrumani sforzi si protrae oltre mezzogiorno, ma alfine s’inizia la ritirata che precipita subito in un vero disastro.
L’ora suprema del sacrifizio è suonata, e Toselli cade da eroe «quando nessuna forza al mondo» fu scritto «avrebbe potuto porvi riparo.»
La cavalleria galla, che dopo l’esplorazione saggiamente aveva ripiegato, e si era ecclissata durante tutto il combattimento, appena iniziata la ritirata dei nostri viene lanciata all'inseguimento, e, molestando, giunge fino a 100 passi dalla fronte del generale Arimondi — accorso ad Aderà, perchè avvertito da alcuni fuggiaschi — schioppettando ed uccidendo, dicesi, perfino il cavallo del generale.
E qui aveva termine la mia conferenza relativamente allo esame dei combattimenti, quando cioè, come dissi, le forze italiane si concentravano ad Adigrat, e Makallè, presidiato dalle nostre truppe, veniva accerchiato.
Senonchè, tornando indietro di qualche anno, chiudeva, accennando ad un’altra circostanza nella quale la cavalleria in Africa rese segnalati servigi, d’ordine più elevato, al governo dell’Eritrea, infondendo fra le tribù, anche oltre i confini, il desiderio e la speranza della protezione italiana.
L’antico «squadrone esploratori» agli ordini del maggiore Toselli, allora capitano di stato maggiore, in occasione della marcia del generale Orero su Adua, mentre in questa città italiani e tigrini il 20 gennaio 1890 commemoravano i morti e l’anniversario di Dogali «sventava nello Zungy la vigilanza dei sotto-capi di Alula, e portava il nome italiano alle falde del Gheralta, irradiando le sue punte fino a Makallè».
Sono queste parole del povero maggiore Toselli nella sua Pro Africa d’un Eritreo pag. 45-46.
Che se questo squadrone indigeno, o pochi cavalieri soltanto, su muletti abissini, avessero sei anni dopo calpestato di nuovo, spingendosi fino ad Amba-Alagi, quei difficili sentieri, inerpicantisi per gli anfratti delle ambe, e i burroni, questo prode soldato avrebbe potuto raccogliere i frutti da lui seminati nella sua assidua, ed intelligente preparazione, e dalla nostra arma avrebbe almeno riscosso in premio la sua salvezza.
V.
Dal succinto esame dei combattimenti, dai rapporti ufficiali, e da quanto la stampa in genere ha scritto, in questa guerra si ha sovratutto da deplorare la deficienza del servizio d’informazioni, e di una celere corrispondenza tra i reparti isolati: principali missioni della cavalleria nelle guerre moderne. Noi ci siamo spinti fin nel cuore dell’Abissinia, con una guerra offensiva, senza un solo uomo di cavalleria.
Si è detto che a questo servizio bastavano gli ascari, ma oltre alla dubbia fedeltà loro, essi non ponno avere nè la resistenza nè la velocità d’un cavallo, nè di un muletto.
Le obbiezioni circa le difficoltà del terreno cadono, come abbiamo visto, davanti al fatto che i galla e i baggàra lo corrono in tutti i sensi per esplorare, riferire, combattere, inseguire e razziare. La cavalleria è da loro impiegata secondo i più giudiziosi criteri dell’arte militare moderna.
Iniziano il combattimento con una ricognizione, durante questo scompaiono, rompono linee telegrafiche, nella ritirata proteggono, nell’inseguimento molestano, incalzano, fanno fuoco.
Dei galla abbiamo visto masse fino a 30.000 uomini ad Amba Alagi e ad Adua far fuoco da cavallo, riconoscere ed inseguire.
Dei baggàra così scrivevasi allora dall’Africa:
Bisogna continuamente stare all'erta dalle sorprese, essendo essi arditissimi ed abili cavalieri, i più tenaci e fanatici apostoli del Mahadi.
Partono dall’Atbara, traversano una regione senz’acqua, giungono fino a Cassala e razziano. Non sempre però riescono; sorpresi dai nostri ascari in appiattamento, ritornano ad El-Fascer e ad Osobri tranquillamente senza bere e mangiare dopo aver percorso più di 130 chilometri.
Rompono le linee telegrafiche, uccidono tutte le persone che trovano isolate, rubano buoi, pecore e tutto ciò che loro si para per via.
Sono bei tipi! Occorrerebbe a noi uno squadrone di simile cavalleria.
Noi avevamo allora prima di Adua, in Africa, un solo squadrone, a Cheren, chiamato «squadrone eritreo». Contava 130 cavalli e 240 uomini, su tre plotoni comandati da tre ufficiali. I cavalli erano splendidi, indiani, provenienti da Bombay, acquistati colà dal comandante lo squadrone coadiuvato da ufficiali veterinari, coll’aspetto del cavallo arabo e più propriamente scioano, ma più alti di questo; di forme snelle con piccola testa, muso camuso, criniera e coda lunga. Quando hanno il cavaliere in sella, inarcano le reni e diventano bellissimi, elastici nei movimenti, velocissimi nella carica, materiale prezioso che bene istruito ed adoperato con savii criteri di una tattica nuova, subordinata al nemico che si deve combattere, può rendere utilissimi servizi alla Colonia.
La Francia, leggo in un articolo della Revue de Cavalerie, ha in Africa una cavalleria indigena, gli spahis, che rese così segnalati servigi nella guerra contro l’Emiro, e che fu organizzata dal colonnello Yusuf «la personnalité la plus éclatante des spahis, l’homme de la première époque, des heures difficiles, des ardentes mêlées, des témérités fabuleuses, des splendides aventures de guerre...... et qui a conduit de si longues et pénibles excursions en Algerie.»
Nè la Francia rinunziò alla cavalleria in quelle regioni in causa del terreno difficile quanto quello dell’Etiopia.
Ecco dove combatte lo spahis: «dans les terrains les plus affreusement tourmentés, sur les arêts vives des montagnes, aussi bien que au fond du ravin rocailleux. Il s’avance audaceusement le jour et la nuit dans les contrées, sans autre moyen de parcours, que de chemins de chêvres.»
La Francia seppe anche trovare i cavalli adatti a questi terreni, ed a vivere in quei climi, ed in quelle inospitali regioni. «Les chevaux sont plus ou moins nourris, et tres-irrégulièrement, tantôt de l’orge à musette pleine après les razzias, tantôt des plantes chètives des sables arides.»
L’Inghilterra ha nelle Indie una cavalleria indigena di 155 squadroni, con quadri inglesi, e due squadroni irregolari di Deoli e di Erinpoura. Mi dilungherei troppo se volessi solo accennare all’impegno perseverante, proprio di questa nazione, col quale da tanti anni ha cercato di ottenere un tipo di cavallo adatto a quelle regioni. I ponys per la montagna, i persiani, i turcomanni e gli arabi del Golfo (questi ultimi di poco prezzo) sono incettati annualmente, e spediti a Bombay.
Vi sono anche molti cavalli afgani detti di Kaboul, ma i migliori sono gli australiani, per resistenza, forza, andatura.
Ha perfino introdotto cavalli ungheresi, non senza successo, i quali si acclimatano facilmente.
Noi potremmo facilmente acquistare in Egitto il cavallo arabo descritto dal colonnello Samminiatelli, e del quale questi si servì nella scorreria di cavalleria da lui fatta nel 1890 tra la 2a e 3a cateratta del Nilo cogli egiziani, per ritrovare il contatto coi Dervisci.
I piccoli soriani, egli dice, figli dei figli di arabi comuni, superavano quei dirupi scoscesi, e quei letti di torrenti tormentati ed a sbalzi di quasi un metro e talvolta più, agili e svelti come cani levrieri coi loro cavalieri in sella, come li portassero sul terreno della parata. Ed in quegli otto giorni pochissimi furono i ferri che si perderono, tre soli su 240 i contusi, nessuno bisognoso di cure per malattia od accidenti; eppure non mangiavano che una sola volta al giorno, ed in quella, soltanto tre chilogrammi d’orzo, e non si abbeveravano che alla sera. La media delle marcie era di 36 a 40 miglia (58-65 Chm.) senza contare il servizio di esplorazione ad una temperatura di 35 a 40 centigradi.
Ora il cavallo per l'altipiano etiopico c’è, sia questo a Bombay, in Algeria, in Egitto, in Ungheria ed anche in Sardegna, è sempre possibile procurarselo.
Anche i russi nella campagna del 1876-77 l’avevano, e con quello attraversarono i Balkani, per dei sentieri difficilissimi, quanto quelli delle montagne africane.
Che se poi non si volesse darci il lusso di avere degli squadroni montati su cavalli, perchè non si formerebbero di muletti come l’antico nostro «squadrone esploratori» già nominato?
Uomini leggieri, svelti, intelligenti ed arditi, tiratori bene esercitati, armati di moschetto a tiro rapido, rivoltella e coltello da caccia, indigeni o bianchi, montati su cavalli piccoli, reclutati nello stesso continente africano, ed anche su muletti abissini, ecco la cavalleria che a parere mio, in forza di cinque o sei squadroni almeno dovrebbe disimpegnare in Africa il servizio di esplorazione, informazione e corrispondenza ed all’occorrenza combattere con l’arma a fuoco.
E nel febbraio del 1896, così terminava la mia conferenza:
Per un esercito come ha ora l’Italia, per un corpo di spedizione come quello che si organizza adesso, non mi pare pretendere troppo reclamando 5 o 6 squadroni di cavalleria per questa campagna.
Auguriamoci intanto che i nostri voti sieno esauditi, e che la nostra arma, chiamata anche essa al battesimo del fuoco, nel cuore del continente africano, rischiari al supremo comando la via, che lo condurrà alla vittoria!1.
Lucca, Dicembre 1897.
L. Libri Tenente Colonnello. |
Note
- ↑ Il Militär Wochemblatt del 20 ottobre, che si stampa a Berlino, contiene un articolo che ha per titolo:
«Le conseguenze della mancanza di cavalleria dalla parte italiana nella campagna abissina».
L’autore dopo di avere ricordato come al corpo di operazione italiano in Eritrea non fosse addetto neppure un soldato dì cavalleria, soggiunge:
«Ammesso anche che questa arma non avesse potuto essere utile in quelle contrade, così difficili, del teatro di guerra, tuttavia l'opinione pubblica in Italia, ove in causa del terreno si ritiene la cavalleria un’arma di lusso inutile ed inopportuna, ha una parte di responsabilità in quella ommissione che ebbe conseguenze così fatali. Ne derivò una mancanza assoluta di esplorazione ed i condottieri furono male informati dalle notizie, che loro pervenivano per mezzo degli informatori, sovente poco fidati.»
Viene quindi ad accennare al combattimento di Amba Alagi e conclude:
«Senza dubbio qualche squadrone di cavalleria bene impiegato avrebbe potuto impedire quella sconfitta.»
E dopo aver parlato della battaglia di Adua, così termina l’articolo.
«È certo che quella campagna non sarebbe stata così disgraziata per gli italiani se al corpo di operazione fosse stata assegnata sufficiente cavalleria.»