Racconti fantastici (Nodier)/Smarra o il demonio della notte/Il racconto
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IL RACCONTO
- . . . . . . . . . . . . . O rebus meis
- Non infideles arbitræ
- Nox et Diana, quæ silentium regis,
- Arcana cum fiunt sacra;
- Nunc, nunc adeste....1
- . . . . . . . . . . . . . O rebus meis
Per qual decreto questi spiriti irritati vengono essi a spaventarmi coi loro schiamazzi e colle loro ligure da folletto? Chi scaraventa davanti a me questi raggi di fuoco? Chi mi fa smarrir la via nella foresta? Orride scimmie i cui denti stridono e mordono, ovvero ricci che attraversano apposta i sentieri per trovarsi sui miei passi e ferirmi colle loro spine. |
Aveva compiuti gli studi alla scuola di filosofia d’Atene e desideroso di conoscere le bellezze della Grecia, visitavo per la prima volta la poetica Tessaglia. Le mie schiave m’aspettavano a Larissa in un palazzo in ordine per ricevermi. Aveva voluto percorrere solo e nelle ore solenni della notte questa foresta, fumosa per i sortilegi dei maghi, la quale stende di lunghe cortine d’alberi verdi sullo rive del Peneo. Le cupe ombre che s’accumulavano sull’immenso baldacchino di legno lasciavano appena sfuggire attraverso i rami più radi, in una radura aperta senza dubbio dalla scure del boscaiolo, il raggio tremolante di una stella pallida e avvolta nella nebbia. Le mie pupille pesanti si abbassavano mio malgrado sugli occhi stanchi di cercare la traccia biancastra del sentiero cancellantesi nel bosco ceduo; e non resistevo al sonno che seguendo con penosa attenzione il rumore dei piedi del mio cavallo che cadendo simmetricamente sul suolo, ora faceva stridore l’arena e ora gemere l’erba secca. Se a volte si fermava, svegliato per l’appunto dal suo stesso riposo io lo chiamavo con voce forte e affrettavo la sua marcia troppo lenta per la mia stanchezza e la mia impazienza. Stupito di non so che ostacolo sconosciuto, egli si slanciava a sbalzo, gettava dalle narici dei nitriti di fuoco, s’impennava per terrore e arretrava ancor più spaventato per i lampi che i ciottoli spezzati facevano zampillare sotto i miei passi.
Flegone! Flegone! gli dissi io, battendo colla mia testa aggravata il suo collo che si raddrizzava per lo spavento, o mio caro Flegone, non è forse tempo di arrivare a Larissa ove ci aspettano i piaceri e sopratutto un dolcissimo sonno?!
Ancora un istante di coraggio e dormirai su un letto di fiori scelti; poichè la paglia dorata che si raccoglie pei buoi di Cerere non è abbastanza fresca per te... Tu non vedi, rispose l’animale trasalendo... non vedi le torcie che scuotono davanti a noi e divoranti l’erica mescolando dei vapori mortali all’aria che respiro... Come vuoi tu che io attraversi i loro cerchi magici e le loro danze minacciose, che farebbero indietreggiare fino i cavalli del sole?!
Eppure il passo cadenzato del mio cavallo continuava sempre a risuonare nel mio orecchio e il sonno più profondo sospendeva ancor più a lungo le mie inquietudini. Solo da un momento all’altro avveniva che un gruppo rischiarato da fiamme bizzarre passava ridendo sulla mia testa... che uno spirito deforme, sotto le apparenze d’un mendicante o di un ferito, si attaccava al mio piede, facendosi trascinare con orribile gioia, o che un vecchio orrendo avente in sè la laidezza vergognosa del delitto e quella della caducità, si slanciava in groppa dietro di me legandomi colle sue braccia scarne come quelle delta morte.
— Andiamo, Flegone, gridai io, andiamo, o il più bel corsiero che mai nutrito abbia il monte Ida, affronta i perniciosi terrori che incatenano il tuo coraggio! Questi demoni non sono che vane apparenze! La mia spada roteata sulla tua testa divide le loro forme ingannatrici che si dissipano come nubi. Quando colpiti dal sole nascente i vapori del mattino galleggianti al disopra delle nostre montagne, le attorniano con una cintura semitrasparente, la loro cima, separata dalla base sembra sospesa nei cieli da una mano invisibile. È cosi, Flegone, che le streghe della Tessaglia si dividono sotto il taglio della mia spada. Non senti da lontano le grida di piacere che s’innalzano dalle mura di Larissa?... Ecco, ecco le torri superbe della citta di Tessaglia, così cara alla voluttà; e questa musica che vola nell’aria, è il canto delle sue fanciulle.
Chi di voi, sogni seduttori, che cullate l’anima inebbriata dai ricordi ineffabili del piacere, che mi ronderà il canto delle giovani figlie della Tessaglia e le notti voluttuose di Larissa? Fra le colonne di marmo semitrasparenti, sotto dodici splendide cupole riflettenti nell’oro e nel cristallo i fuochi di centomila fiamme, le giovani figliuole della Tessaglia avvolte nel vapore colorato che emana da profumi, non offrono agli occhi che una forma indecisa ed attraente che par lì lì per isvanire. La meravigliosa nuvola dondola attorno ad esse e forma sui loro gruppi incantevoli i giuochi incostanti della sua luce, i coloriti freschi della rosa, i riflessi animati dell’aurora, lo strepito abbagliante dei raggi della capricciosa opale.
A volte sono pioggia di perle che rotolano sopra le tuniche leggiere di quelle fanciulle, a volte pennacchi di fuoco spruzzanti da tutti i nodi dei legacci d’oro, che stringono i loro capelli. Non vi spaventate nel vederle più pallide delle altre figliuole della Grecia. È molto se esse appartengono alla terra, e sembrano svegliarsi da una vita già passata. Esse sono anche tristi, sia perchè vengono da un mondo ove hanno abbandonato l’amore di uno Spirito o di un Pio, sia perchè vi è nel cuore della donna che incomincia ad amare un immenso bisogno di soffrire.
Pure ascoltate. Ecco i canti delle giovani figlie della Tessaglia, la musica che sale, sale nell’aria, che commove passando come una nube armoniosa, le vetriate solitarie delle rovine care ai poeti. Ascoltate. Esse abbracciano la loro lira d’avorio, interrogano le corde sonore, che rispondono una volta, vibrano un momento, si fermano; e divenute immobili, prolungano ancora non so quale armonia infinita, che la mente percepisce con tutti i sensi, melodia pura come il più dolce pensiero d’un’anima felice, come il primo bacio d’amore prima che l’amore si sia compreso egli stesso, come lo sguardo d’una madre che accarezza la culla del fanciullo, del quale ha sognato la morte, e alla quale viene riportato, tranquillo o bello nel suo sonno. Così svanisce, abbandonato ai venti sviato dagli echi, sospeso in mezzo al silenzio del lago o morente coll’onda ai piedi della insensibile roccia l’ultimo sospiro del sistro d’una giovane che piange, poichè il suo amante non è venuto.
Esse si guardano, si protendono, si consolano, intrecciano le loro eleganti braccia, confondono la loro capigliatura ondeggiante, danzano e fanno scaturire sotto i loro passi una polvere infiammata, che vola, imbianca, si spegne, ricade in cenere d’argento; e l’armonia dei loro canti scorre sempre come un fiume di miele, come un ruscello grazioso che abbellisce de’ suoi dolcissimi mormorii le rive amate dal sole e ricche di segrete sinusità, di baje fresche ed ombreggiate, di farfalle e di fiori. Esse cantano...
Una sola forse... grande, immobile, ritta, pensosa... Dio! come è cupa e afflitta dietro alle sue compagne, e che vuol ella da me? Ah non perseguitare il mio pensiero, larva imperfetta dell’amata che più non è, non turbare le dolci attrattive delle mie veglie col rimprovero spaventoso della visione. E poichè io t’ho pianta sette anni, lasciami dimenticare nelle innocenti delizie delle danze delle silfidi e della musica delie fate, lasciami dimenticare le lagrime che ancor mi bruciano le gote. Tu vedi bene ch’esse vengono, tu vedi i loro gruppi intrecciarsi, arrotondarsi in festoni mobili incostanti, che si disputano, si succedono, si avvicinano, si fuggono, salgono come l’onda portata dai flutti, e discendendo come essa, precipitando sullo loro onde fuggitive tutti i colori dell’iride abbracciatile e cielo e mare quando la tempesta sul finire viene a spezzar nel morire l’ultimo punto del suo cerchio immenso contro la prora della nave. E che importano a me gli accidenti del mare e le curiose inquietudini del viaggiatore, a me cui un favore divino, che fu forse in tempi antichi uno dei privilegi dell’uomo affranca quando io lo voglio (beneficio delizioso del sonno) da tutti i pericoli che vi minacciano? Appena gli occhi miei sono chiusi, appena cessa la melodia che ravvivava i miei sensi; che il creatore degli incanti notturni scava davanti a me qualche abisso profondo, baratro sconosciuto ove spirano tutte le forme, tutti i suoni e tutto le luci della terra, se sur un torrente impetuoso e avido di morte egli getta qualche ponte rapido, angusto, sdrucciolevole, che non promette nulla di buono, s’egli mi slancia all’estremità d’un’asse elastica, tremola, sovrastante a precipizi che l’occhio stesso teme di scandagliare... tranquillo io percuoto il terreno obbediente ad un piede uso a comandargli. Egli cede, risponde, io parto e, contento di abbandonare gli uomini, vedo fuggire sotto il mio facile volo le rive azzurre dei continenti, i tetri deserti del mare, il tetto vario delle foreste che screziano il verde nascente della primavera, colla porpora e l’oro dell’autunno e col bronzo greggio e il violetto sbiadito delle foglie avvizzite dell’inverno. Se qualche uccello stordito fa rumoreggiare il mio orecchio e le sue ali anelanti, io mi slancio, salgo ancora, aspiro i mondi nuovi. Il fiume non è che un filo che si cancella in una verdura opaca, le montagne non sono che punti vaghi, la cui cima si confonde colla base, l’Oceano che una macchia oscura in non so qual massa smarrita in mezzo all’aria, ove si gira più rapidamente che l’aliosso a sei faccie che i fanciulli d’Atene fanno roteare sul suo asse, acuto lungo le gallerie dalle lunghe lastre che abbracciano il Ceramico.
Avete mai visto rasente i muri del Ceramico allorchè sono sforzati nei primi giorni dell’anno dai raggi del solo che rigenera il mondo, un lungo seguito d’uomini pallidi immobili, colle gote incavate dalla fame, collo sguardo spento e stupido, gli uni accoccolati come bruti, gli altri in piedi, ma appoggiati contro le colonne, e piegati a metà sotto il peso del loro corpo estenuato? Li avete voi veduti colla bocca socchiusa per aspirare ancora una volta le primo influenze dell’aria vivificante, raccogliere con mesta voluttà le dolci impressioni del calore tiepido di primavera? Lo stesso spettacolo vi avrebbe colpito lungo le mura di Larissa, poichè ci sono degli infelici da per tutto; ma qui la sventura porta l’impronta d’una fatalità speciale più degradante della miseria, più pungente della fame, più spaventevole della disperazione. Questi disgraziati s’avanzano lentamente l’uno dietro l’altro e marcano tra un passo e l’altro delle lunghe soste, come figure fantastiche, disposte da un meccanico consumato su una ruota indicante la divisione del tempo. Scorrono dodici ore prima che il corteggio silenzioso compia il giro della piazza circolare, sebbene tanto piccola che un’amante può leggere da un estremità all’altra sulla mano più o meno aperta della sua amata, il numero delle ore della notte che devono condurre l’ora tanto desiderata dell’abboccamento. Questi spettri viventi non hanno conservato quasi niente d’umano. La loro pelle rassomiglia ad una bianca pergamena stesa su uno scheletro, l’orbita de’ loro occhi non è animata da una scintilla dell’anima, le loro pallide labbra fremono d’inquietudine e di terrore, e quel ch’è ancor più spaventoso, esse formano un sorriso sdegnoso e feroce come l’ultimo pensiero d’un condannato che risoluto subisce il supplizio. La maggior parte di essi è agitata da deboli ma continue convulsioni e tremano come l’astina di ferro della ribeba che i ragazzi fanno rumoreggiare fra i loro denti. I più degni di compianto vinti dal destino che li perseguita, sono condannati a spaventare per sempre i passanti colla ributtante deformità delle loro membra rachitiche, e dei loro atteggiamenti inflessibili. Tuttavia il periodo regolare della loro vita separante due sonni è per essi quello della sospensione dei dolori da essi più temuti. Vittime della vendetta delle streghe della Tessaglia, essi ricadono in preda a tormenti che nessuna lingua può esprimere, appena il sole prostrato sotto l’orizzonte occidentale ha cessato di proteggerli contro i terribili sovrani delle tenebre. Ecco perchè essi seguono il corso troppo rapido, coll’occhio sempre fisso sullo spazio ch’egli abbraccia, nella speranza sempre vana che esso dimentichi una volta il suo letto azzurro, e che finisca per restare sospeso alle dorate nubi dell’occaso. Appena la notte viene a disingannarli, spiegando le sue ali di velo, sulle quali non resta neppure uno dei chiarori lividi che moriva poco dianzi sulle cime degli alberi; appena l’ultimo riflesso già splendente sul terso metallo del tetto di un elevato edificio è lì per isvanire corno un carbone ancora ardente in un braciere spento che imbianca a poco a poco sotto la cenere, e bentosto non si distingue quasi più nel fondo del focolare abbandonato, un mormorio formidabile s’innalza fra di essi; i loro denti battono per disperazione e per rabbia, essi si premono e s’evitano per tema di trovare ovunque dei maghi o dei fantasmi. È notte e l’inferno sta per riaprirsi!
Tra gli altri ve n’era uno le cui articolazioni scricchiolavano come molle stracche e il cui petto esalava un suono più rauco e più sordo di quello di una vite irrugginita girante a fatica nel suo cavo. Ma alcuni lembi di un ricco ricamo ancor scendente del suo mantello, uno sguardo pieno di tristezza o di grazia rianimante di tratto in tratto il suo viso abbattuto, un non so qual misto inaccessibile di abbrutimento e di fierezza che rammentava la disperazione d’una pantera assoggettata dalla spranga del cacciatore, lo faceva distinguere tra la folla de’ suoi miserabili compagni; e quando passava davanti a donne non si udiva che un sospiro. I suoi capelli cadevano in anella neglette sulle spalle che s’alzavano bianche e pure come un giglio, al disopra della sua tunica di porpora. Pure il suo collo portava l’impronta del sangue, la cicatrice triangolare d’un ferro da lancia, il segno della ferita che mi schivò Palemone all’assedio di Corinto, quando questo fido amico si precipitò sul mio cuore, davanti alla rabbia sfrenata dei soldati già vittoriosi, ma anelanti di lasciare sul campo di battaglia un cadavere di più. Ed era appunto questo Palemone che aveva pianto a lungo e che mi ritorna sempre nel sonno per ricordarmi con un bacio diacciato che noi dobbiamci ritrovare nell’altra vita. Era Palemone ancor vivo, ma serbato a un’esistenza così orribile che le larve e gli spettri infernali si consolano tra loro nel raccontarsi i suoi dolori. Palemone caduto sotto l’impero delle streghe della Tessaglia e dei demoni che compongono il loro corteggio nelle solennità, le inesplicabili solennità delle loro feste notturne. Egli si arrestò, cercò lungo tempo collo sguardo stupito di cavare un ricordo al mio aspetto, mi si avvicinò inquieto e circospetto, palpò le mie mani colla sua mano palpitante e che tremava nel pigliarle, e dopo avermi avviluppato con una stretta improvvisa che non provai senza spavento, dopo aver fisso ne’ miei occhi un pallido raggio cadente da’ suoi occhi velati come l’ultimo sprazzo attraverso il finestrino d’una prigione: — Lucio! Lucio! esclamò con un riso orrendo. — Palemone, caro Palemone, l’amico, il salvatore di Lucio!... In un altro mondo, rispose, abbassando la voce; me ne rammento... Era in un altro mondo, in una vita non appartenente al sonno e a’ suoi fantasmi!... — Che parli tu di fantasmi?... — Guarda, rispose egli stendendo il dito nel crepuscolo. Eccoli che vengono!
Oh! non ti abbandonare alle inquietudini alle tenebre, infelice giovane! quando le ombre delle montagne discendono ingigantendo, raccostano da ogni parte la cima e i lati delle loro immani piramidi e finiscono per abbracciarsi in silenzio sulla terra oscura; quando lo fantastiche immagini delle nuvole si estendono, si confondono, e rientrano insieme sotto il velo protettore della notte come sposi clandestini, quando gli uccelli funebri cominciano a stridere dietro i boschi, e che i rettili cantano con voce rotta qualche parola monotona sull’orlo delle paludi... allora, mio Palemone, non abbandonare la tua tormentata immaginazione alle illusioni dell’ombra e della solitudine. Fuggi i sentieri nascosti ove gli spettri si danno convegno per ordire delle nere congiure contro la pace degli uomini; fuggi la vicinanza dei cimiteri ove si raduna il consiglio misterioso dei morti quando avvolti nei loro sudari appaiono davanti l’areopago sedente nei feretri, fuggi le praterie spoglie di alberi ove l’erba calpestata in circolo nerastro, sterile e secco sotto i passi cadenzati delle streghe. Vuoi credermi Palemone? Quando la luce spaventata dall’avvicinarsi degli spiriti malvagi, si arretra impallidendo, vieni a rianimare con me i suoi prestigi nelle feste dell’opulenza e nelle orgie della voluttà. L’oro manca egli mai a’ miei desideri? Le miniere più preziose hanno esse una vena nascosta che mi rifiuti i suoi tesori? La sabbia stessa dei ruscelli si trasforma sotto la mia mano in pietre preziose che farebbero l’ornamento della corona dei re. Mi credi, Palemone? Il giorno si spegnerebbe invano tanto che i fuochi che i suoi raggi hanno illuminato per uso dell’uomo, splendono ancora nelle illuminazioni dei festini o negli splendori più discreti che abbelliscono lo deliziose veglie dell’amore. I demoni, tu lo sai, paventano i vapori odorosi della cera e dell’olio imbalsamato, i quali brillano dolcemente nell’alabastro o diffondono dello tenebro rosate attraverso la doppia seta delle nostre ricche tende.
Essi fremono all’aspetto dei marmi levigati rischiarati per mezzo di lampadari dai cristalli mobili che lanciano attorno di essi dei lunghi sprazzi diamantini come una cascata, tocca dall’ultimo sguardo d’addio del sole cadente.
Giammai una tetra lamia, una manta scarna osò esporre la ributtante laidezza dei suoi tratti nei banchotti della Tessaglia. La luna stessa da queste invocata sovente le spaventa, quando lascia cadere su di esse uno di quei raggi passeggeri che danno agli oggetti da essi sdorati la fosca bianchezza dello stagno. E allora fuggono più lapide del colubro, avvertito dal rumore del grano di sabbia che rotola sotto i piedi del viaggiatore. Non temere che ti sorprendano nei fuochi risplendenti nel mio palazzo e che raggiano da tutte le parti sull’abbagliante acciajo degli specchi. Piuttosto vedi, Palemone mio. con quale agilità esse si sono allontanate da noi mentre camminiamo fra le faci de’ miei servi, in queste gallerie ornate da statue, capolavori inimitabili del genio della Grecia. — Qualcuna di queste immagini ti avrebbe rivelata con un movimento minaccioso la presenza di questi spiriti fantastici, che le animano qualche volta, quando l’ultima luce si stacca dall’ultima lampada sale e si estingue nell’aria? L’immobilità delle loro forme, la purità dei loro tratti, la calma delle loro attitudini che non cangeranno mai, rassicurerebbero lo spavento stesso. Se qualche strano rumore ha colpito il tuo orecchio, o fratello prezioso del cuor mio! è quello della vigile ninfa che spande sulle tue membra affievolite dalla fatica i tesori della sua urna di cristallo, mescolandovi dei profumi fin qui ignoti a Larissa, un’ombra limpida da me raccolta sulla spiaggia dei mari bagnanti la culla del sole, il succo d’un fiore mille volte più soave della rosa, il quale non cresce che nelle folte ombre della bruna Corcira,2 i fiori d’un arbusto amato da Apollo e da suo figlio e che mostra sulle roccie d’Epidauro i suoi mazzi composti di cembali, di porpora tremanti sotto il peso della rugiada. E come gl’incanti dei maghi intorbiderebbero la purità delle acque che cullano a te d’intorno le loro onde d’argento? Mirteo, questa bella Mirteo dai capelli biondi, la più giovane e la più cara delle mie schiave, quella, che tu hai visto inchinarsi al tuo passaggio, perchè ama tutto ciò ch’io amo... ha degli incanti non conosciuti che da lei e da uno spirito che glieli confida nei misteri del sonno; ella erra adesso come un’ombra attorna al luogo dei bagni ove si alza a poco a poco la superficie dell’onda salutare, ella corre, cantando dello arie che scacciano i demoni, e toccando di tempo in tempo le corde di un’arpa errante che alcuni geni ubbidienti non mancano mai di offrirle prima che i suoi desideri abbiano il tempo di farsi conoscere passando dalla sua anima a’ suoi occhi. Ella va, corre e l’arpa va, corre e canta sotto la sua mano. Ascolta il tintinnio dell’arpa che risuona, la voce dell’arpa di Mirteo: è un suono pieno, grave, solenne che fa dimenticare le idee terrestri, che si prolunga, si sostiene, occupa l’anima come un pensiero grave, severo: e poi vola, fugge, svanisce, ritorna; e le arie dell’arpa di Mirteo (incanto meraviglioso delle notti), le arie dell’arpa di Mirteo che volano, fuggono svaniscono, e ritornano ancora — come ella canta, confesse volano, le arie dell’arpa di Mirteo, le arie che scacciano i demoni!... Ascolta, Palemone, le odi tu?
In verità io ho provato tutte le illusioni dei sogni, e che sarei allora diventato senza il soccorso dell’arpa di Mirteo, senza il soccorso della sua voce, così pronta ad interrompere il riposo travagliato e gemebondo delle mie notti?... Quante volte nel mio sonno mi sono inchinato sull’onda limpida e placida, l’onda troppo fedele nel riprodurre i miei lineamenti alterati, i miei capelli drizzati per terrore, il mio sguardo fisso e triste come quello della disperazione, che non piange più!... Quante volte ho fremuto, vedendo le tracce di un sangue livido correre intorno allo mie pallide labbra; sentendo i miei denti tremanti, spinti fuori dai loro alveoli, le mie unghie staccate dalle loro radici, crollare e cadere! Quante volte inorridito dalla mia nudità, dalla mia vergognosa nudità mi sono abbandonato inquieto allo scherno della folla con una tunica più corta, più leggera, più trasparente di quella che avvolge una cortigiana lì presso al letto sfrontato della dissolutezza! Oh! quante volte delle visioni più orride, delle visioni che Palemone stesso non conosco punto... E che sarei divenuto allora, che sarei divenuto senza il soccorso dell’arpa di Mirteo, senza il soccorso della sua voce e dell’armonia ch’ella insegna alle sue sorelle, quando la circondano obbedienti, per calmare i terrori dell’infelice che dorme, per far sentire dei canti venuti da lontano, come il venticello scorrente fra poche vele, canti che si maritano, che assopiscono i sogni tumultuosi del cuore, e che incantano il loro silenzio in una lunga melodia.
E ora, ecco le sorelle di Mirteo, che hanno preparato il festino. Vi è Teia, riconoscibile fra tutte le figlie della Tessaglia quantunque la maggior parte di esse abbia una capigliatura nerissima cadente sulle spalle più bianche dell’alabastro, ma non ve n’ha punto che abbiano dei capelli inanellati in onde flessibili e voluttuose come i capelli neri di Tela. È dessa che pende sulla coppa ardente dove imbianca un vino bollente il vaso d’una preziosa argilla e da cui lascia cadere a goccia a goccia in topazi liquidi il miele più squisito che giammai si sia raccolto sugli olmi della Sicilia. L’ape priva del suo tesoro vola inquieta in mezzo ai fiori, essa s’appende ai rami salutari dell’albero abbandonato, chiedendo il suo miele ai zeffiri.
Essa mormora di dolore, perchè i suoi piccini non avranno più asilo in alcuno dei mille palazzi a cinque muri che loro aveva eretto con una cera leggiera e trasparente, e non gusteranno il miele da lei raccolto per essi sui cespugli profumati del monte Ibla. È Tela che mette nel mio vino bollente il miele rapito alle api di Sicilia; e le altre suore di Tela, quelle che hanno i capelli neri, poichè di bionda non v’ha che Mirteo, corrono sommesse, premuroso accarezzanti con un docile sorriso intorno all’apparecchiamento del banchetto. Esse seminano fiori di granato, foglie di rose sul latte schiumato, o anche attizzano fornelli i d’ambra e d’incenso che bruciano sotto la cappa infiammata ove imbianca un vino bollente, le fiamme che si curvano da lungi attorno all’orlo circolare, che s’inchinano, che si raccostano, che lo toccano, che accarezzano le sue labbra d’oro, e finiscono per confondersi colle fiamme dalle bianche e azzurre lingue, che volano sul vino. Le fiamme salgono, discendono, si sviano come questo demonio fantastico delle solitudini che ama mirarsi nelle fontane. Chi potrà dire quante volte la coppa ha fatto il giro della tavola del festino, quante volte già vuota ha visto i suoi orli inondati di novello nettare? Giovinette, non risparmiate nè il vino, nè l’idromele. 11 sole non cessa di nuovamente gonfiare l’uva, e di versare i raggi del suo immortale splendore sui meravigliosi grappoli dondolanti dai ricchi festoni delle nostre vigne, e tra le foglie imbrunite dei pampani arrotondati in ghirlande che corrono fra i gelsi della Tempe. Ancora questa libazione per cacciare i demoni della notte? Quanto a me, non vedo più qui che gli spiriti allegri dell’ubbriachezza che si sprigionano strepitando dalla schiuma fremente, si perseguitano nell’aria come moscerini di fuoco o vengono ad abbagliare colle loro ali raggianti le mie pupille infiammate, simili agli agili insetti cui la natura ha ornato di fuochi innocenti e che spesso nella silenziosa frescura d’una breve notte d’estate, si vedono spiccare a sciame nel mezzo d’un cespuglio di verdure, come uno sprazzo di scintille sotto i raddoppiati colpi del fabbro. Essi galleggiano portati da un leggero venticello che passa o, chiamati da qualche dolce profumo di cui essi si nutrono, nei calici delle rose. La nube luminosa passeggia, si culla, riposasi o gira un po’ su sè stessa, e cade tutt’intera sulla cima di un giovane pino che illumina come una piramide consacrata alle feste pubbliche, o alla sbarra inferiore di una gran catena, alla quale dà l’aspetto d una girandola preparata per le veglie della foresta. Guarda come essi giuocano dintorno a te, come fremono nei fiori, come irradiano i riflessi di fuoco sui vasi puliti; questi non sono demoni nemici. Essi danzano, si divertono, hanno l’abbandono e i fragori della follia.
S’essi amano a vote turbare il riposo degli uomini; non è che per soddisfare, come un fanciullo stordito a ridenti capricci. Essi si rotolano, i maliziosi! nel lino arruffato in giro al fuso di una vecchia pastora, intrecciano, imbrogliano i fili smarriti e moltiplicano i nodi opposti sotto gli sforzi della inutile abilita ili lei. Quando un viaggiatore che ha perduto la strada, cerca con avido occhio attraverso l’orizzonte della notte qualche punto luminoso, che gli prometta un asilo, essi per lungo tempo lo fanno andare di sentiero in sentiero, allo splendore d’un fuoco infedele, al rumore d’una voce ingannatrice, o dall’abbaiamento lontano d’un vigile cane che vaga come una sentinella intorno al solitario podere, e abusano così della speranza del povero viaggiatore fino a che tocchi di pietà per la fatica del poveretto gli presentano tutto ad un tratto un alloggio inaspettato, che nessuno aveva mai visto in questo deserto, e a volte anche è stupito di trovare al suo arrivo un focolare scintillante, il cui solo aspetto inspira l’allegria, de’ cibi rari e delicati, di cui il caso ha fornita la capanna del pescatore o del cacciatore di contrabbando e una giovinetta bella come le Grazie, che lo serve, tenendo timorosa gli occhi al suolo, poichè questo straniero le è parso fatale a guardare. L’indomani, sorpreso che un riposo così breve gli abbia ridate le forze, si alza beato al canto della lodoletta che saluta un cielo puro, e ode che il suo errore fortunato gli ha raccorciato il cammino di venti stadi e mezzo; e il suo cavallo nitrendo d’impazienza, colle narici aperte, il pelo lucido, la criniera liscia e splendida, batte il terreno con triplice segnale di partenza. Il folletto balza dalla groppa alla testa del cavallo del viaggiatore, colle sue esili dita stringe l’abbondante criniera, la svolge, la rialza a onde; guarda, s’applaude di ciò che ha fatto e se ne va contento per godersi poi il dispetto di un uomo addormentato che abbrucia di sete, e che vede fuggire, sminuire, svaporare davanti alle sue labbra allungate una rinfrescante bevanda; che scandaglia inutilmente con uno sguardo la coppa; che aspira inutilmente il liquore assente; poi si risveglia e trova il vaso pieno di vino di Siracusa che egli ancor non ha gustato; e che il folletto l’ha pigiato da uva scelta, mentre divertivasi delle inquietudini del sonno di lui. Qui tu puoi bere, parlare, dormire senza terrore perchè i folletti sono nostri amici.
Soddisfa solamente all’impaziente curiosità di Tela e di Mirteo, alla curiosità più interessata di Telaria, che non ha mai staccato da te le sue lunghe e maestose ciglia, i suoi grandi occhi neri che girano come astri benigni in un cielo bagnato del più tenero azzurro. Raccontaci, Palemone, i strani dolori che hai creduto di provare sotto l’impero delle streghe, poichè i tormenti di che essi perseguitano la nostra immaginazione non sono che la vana illusione di un sogno che svanisce al primo raggio dell’aurora. Teia, Telaria e Mirteo sono attente... ascoltano... Ebbene parla... raccontaci le tue disperazioni, le tue paure e i falsi errori della notte; e tu Teia, versa del vino e tu, Telaria, sorridi al suo racconto, perchè il suo animo si consoli, e tu, Mirteo, se tu lo vedi sorpreso del ricordo de’ suoi traviamenti cedere a una nuova illusione, canta e solleva le corde dell’arpa magica... Domandale de’ suoni consolatori, de’ suoni che scacciano gli spiriti malvagi. È così che si liberano le austere ore della notte dall’impero tumultuoso dei sogni, e che si sfugge di piacere in piacere ai sinistri incantesimi che riempiono la terra durante l’assenza del sole.
Note
- ↑ Siate propizi alle mie imprese, arbitro non infedeli, notte e tu, Diana che governi il silenzio, quando si compiono i sacri misteri.
- ↑ Io credo non si tratti qui dell’antica Corcira, ma dell’isola di Curzola, che i Greci chiamavano Corcira la bruna per l’aspetto che da lontano le davano le vaste foreste di cui era coperta.
(Nota dell’autore).