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sità, di baje fresche ed ombreggiate, di farfalle e di fiori. Esse cantano...
Una sola forse... grande, immobile, ritta, pensosa... Dio! come è cupa e afflitta dietro alle sue compagne, e che vuol ella da me? Ah non perseguitare il mio pensiero, larva imperfetta dell’amata che più non è, non turbare le dolci attrattive delle mie veglie col rimprovero spaventoso della visione. E poichè io t’ho pianta sette anni, lasciami dimenticare nelle innocenti delizie delle danze delle silfidi e della musica delie fate, lasciami dimenticare le lagrime che ancor mi bruciano le gote. Tu vedi bene ch’esse vengono, tu vedi i loro gruppi intrecciarsi, arrotondarsi in festoni mobili incostanti, che si disputano, si succedono, si avvicinano, si fuggono, salgono come l’onda portata dai flutti, e discendendo come essa, precipitando sullo loro onde fuggitive tutti i colori dell’iride abbracciatile e cielo e mare quando la tempesta sul finire viene a spezzar nel morire l’ultimo punto del suo cerchio immenso contro la prora della nave. E che importano a me gli accidenti del mare e le curiose inquietudini del viaggiatore, a me cui un favore divino, che fu forse in tempi antichi uno dei privilegi dell’uomo affranca quando io lo voglio (beneficio delizioso del sonno) da tutti i pericoli che vi minacciano? Appena gli occhi miei sono chiusi, appena cessa la melodia che ravvivava i miei sensi; che il creatore degli incanti notturni scava davanti a me qualche abisso profondo, baratro sconosciuto ove spirano tutte le forme, tutti i suoni e tutto le luci della terra, se sur un torrente impetuoso e avido di morte egli getta qualche ponte rapido, angusto, sdrucciolevole, che non promette nulla di buono, s’egli mi slancia all’estremità d’un’asse elastica, tremola, sovrastante a precipizi che l’occhio stesso teme di scandagliare... tranquillo io percuoto il terreno obbediente ad un piede uso a comandargli. Egli cede, risponde, io parto e, contento di abbandonare gli uomini, vedo fuggire sotto il mio facile volo le rive azzurre dei continenti, i tetri deserti del mare, il tetto vario delle foreste che screziano il verde nascente della primavera, colla porpora e l’oro dell’autunno e col bronzo greggio e il violetto sbiadito delle foglie avvizzite dell’inverno. Se qualche uccello stordito fa rumoreggiare il mio orecchio e le sue ali anelanti, io mi slancio, salgo ancora, aspiro i mondi nuovi. Il fiume non è che un filo che si cancella in una verdura opaca, le montagne non sono che punti vaghi, la cui cima si confonde colla base, l’Oceano che una macchia oscura in non so qual massa smarrita in mezzo all’aria, ove si gira più rapidamente che l’aliosso a sei faccie che i fanciulli d’Atene fanno roteare sul suo asse, acuto lungo le gallerie dalle lunghe lastre che abbracciano il Ceramico.