Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXXIII

Capitolo XXXIII

Giorgio e Rosalinda Howard
Federigo Leighton e la mia fortuna artistica.
«Il risveglio».

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Capitolo XXXIII

Giorgio e Rosalinda Howard
Federigo Leighton e la mia fortuna artistica.
«Il risveglio».
Capitolo XXXII Capitolo XXXIV
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XXXIII.

GIORGIO E ROSALINDA HOWARD

FEDERIGO LEIGHTON E LA MIA FORTUNA ARTISTICA.

«IL RISVEGLIO».


Il mio studio di Via Margutta N. 33 che dal proprietario di tutti i numerosi studi di quello stabile, certo Dovizielli, il quale teneva pure un negozio di quadri, venne espressamente costruito per me quando, dopo l’assedio, mi diedi tutto alla pittura; studio che mai lasciai e che tuttora occupo, divenne un attivo centro di cospirazione. Il luogo si prestava assai bene allo scopo. L’ingresso sulla Via Margutta aveva, lo studio, a comune con moltissimi altri studii ed alloggi dello stesso stabile. Cosicchè non poteva dar molto nell’occhio la gente che andava e veniva. Di più, per giungere allo studio mio, bisognava, fra cortile, anditi, scala e scalette, fare un non breve percorso e non diretto che dava tempo, al portiere od a qualche compagno lasciato di guardia al portone, di dare l’allarme; e si avrebbe avuto, in tal caso, comodamente tutto il tempo di squagliarsi per vie diverse, attraverso un cortile laterale di uno stabile vicino od il giardino a tergo, da cui, con una scala a mano, si poteva facilmente raggiungere il Pincio.


In un bel pomeriggio dell’inverno 1865-66 io ero in questo mio studio intento a dipingere, quando sentii battere alla mia porta. Aperto che ebbi, mi trovai dinanzi a una coppia di giovani sposi di molta distinzione, che subito mi apparvero essere, come erano, inglesi; Ia sposa aveva in braccio un bambino lattante. [p. 172 modifica]Domandarono di vedere la mia pittura; ed io, preso subito da viva simpatia per essi, ben volentieri li accolsi. Entrati che furono, vidi quale bella e nobile figura di giovane donna fosse la sposa e quanta finezza di tratti e di fare avesse lo sposo. Si esprimevano abbastanza bene in italiano; giudicavano la mia pittura con intendimento e lo sposo mi confidò di essere un poco pittore anche lui. La mia simpatia per i due sposi di molto si fece più viva per l’ammirazione che manifestavano per l’Italia, assieme alla gran gioia di trovarvisi.

Conoscevano gli sforzi degli Italiani per liberarsi dagli stranieri e dal Papa; e, sopratutto la sposa, mi parlò delle nostre lotte con tanto calore, con tale lampeggiar d’occhi, che si sarebbe detto fosse essa una ardentissima patriota italiana. Quando se ne andarono, lasciandomi affascinato, mi detter la loro carta. Erano: Mister George Howard e la sua sposa Rosalinda. Il lattante, che questa aveva in braccio, era la loro prima nata Maria. Malgrado il nome senza titoli e la loro semplicità, a me apparvero una coppia di principi sposi in incognito.

Questo Mr. Howard con la gentile sua compagna doveano diventare, per me, come divennero, fra i migliori, più affezionati amici della mia vita; di una amicizia sicura e costante che dura ancora, fatta più cara da tanti comuni ricordi, da circa trentacinque anni. Giorgio Howard divenne per me un buon allievo e Rosalinda Howard Stanley un’amica, che prese sempre il maggiore interesse all’opera mia di artista e di italiano.

Tale tanto cara amicizia durava già da alcuni anni, liberata Roma io ero divenuto marito e padre, quando gli Howard mi fecero sapere che, avendo ereditato da uno zio, erano lieti di essere in grado di ospitare gli amici; e mi pregavano di andare con mia moglie e la nostra figliuolina Giorgia a star alcun tempo con loro.

Andati, trovammo che la lor casa di campagna era un sontuoso castello con tutte le comodità ed il lusso di una dimora principesca. Erano i principi travestiti che lasciavano il loro [p. 173 modifica]incognito?... Era semplicemente questo: che, morto un suo zio, Giorgio Howard era diventato Conte di Carlisle ed era andato in possesso di tutti i castelli, Ie terre, i palazzi, le proprietà che in Inghilterra formano il molto cospicuo appannaggio dei primogeniti delle famiglie dei Lords ereditarii. Questo mutamento di fortuna in nulla cangiò alla nostra ormai non più recente amicizia se non in questo: che il Conte e la Contessa di Carlisle divennero grandi compratori dei quadri che io esponeva a Londra o che essi, nei lor viaggi in Italia, vedevano nel mio studio anche, talvolta, appena cominciati. E questo avvenne, per esempio, del mio gran quadro «Frate Francesco e Frate Sole».

Quelli tra i miei quadri che più io ami sono, ora, lor proprietà, avendo essi ricomprato mie opere da me già vendute ad altri. E questo è stato sempre per me, come è, un gran conforto che attenuava il dispiacere, che ho sempre provato al momento di separarmene. Ho potuto più volte rivederli nelle mie dimore in Inghilterra; e mi par di non essermene distaccato del tutto, poichè la somma gentilezza di questi miei vecchi amici, con le ripetute dimore che io vi ho fatto assieme alla mia famigliuola, fan che io consideri le lor residenze di Naworth Castle, di Castle Howard, di Palace Green un po’ come casa mia.

Del resto Giorgio Howard, anche quando fu Conte di Carlisle e sedette alla Camera dei Lords come pari d’Inghilterra, rimase sempre, oltre che un affezionato amico, un artista: ed ha sempre meco trattato come con un compagno di lavoro. E come tale, più volte, a Roma, a Bocca d’Arno, a Siena o dovunque io fossi a lavorare dal vero, è, spontaneo, venuto a viver e lavorar meco nella semplice mia casa di artista. Ed a lungo vi ha dimorato, laborioso e felice.


Essendo stata, questa mia amicizia con gli Howard, di capitale importanza nella mia vita e per la fortuna dell’arte mia, credo sia interessante che io narri il curioso caso a cui la debbo.

[p. 174 modifica]Gli sposi Howard, nel loro tanto lieto viaggio in Italia, che non essendo allora ricchi compievano viaggiando su le ferrovie in terza classe per poter comprar, col danaro così risparmiato, cose d’arte, prima di capitar a Roma s’eran fermati per qualche tempo a Firenze. E quivi, visitando la galleria di Palazzo Pitti, avean notato che un dei soliti copiatori di quadri era dietro a copiare «Il Concerto» di Giorgione. E si erano interessati del quadro e dell’artista che lo copiava. Era questo un certo Marcato profugo politico veneziano, modesto e coscienzioso artista, dell’Arte e della Patria amantissimo. Questo, ed il trovarci entrambi in esilio dalla rispettiva nostra città natale, fece che ci legassimo di molta reciproca simpatia; la quale, nel buono e semplice uomo, giungeva fino alla più viva ammirazione per me, mista ad esagerata riconoscenza per qualche interesse che gli avevo mostrato e per qualche pratico suggerimento artistico da me datogli. Verboso, come sanno esserlo i Veneziani, non gli parve vero di far sapere ai due giovani inglesi ch’ero stato io a consigliarli di eseguire la copia di quel quadro, che allora pochi curavano. E pare che non perdesse l’occasione per diffondersi nell’elogio dei miei meriti di artista e di italiano. E tante ne dovette egli dire, da eccitare nei due nobili sposi, caldi per ogni idealità, il desiderio di personalmente conoscere questo italiano artista e cospiratore.

Ad essi il buon Marcato ebbe premura di dar loro il mio indirizzo di Roma. Ed essi vennero a me.


Le maggiori soddisfazioni che nella vita, dopo quelle procuratemi dalle patrie fortune, io abbia godute, le debbo a Federigo Leighton ed a Giorgio e Rosalinda Howard. Massimamente per il loro suggerimento ed appoggio, io fui in grado di far conoscere ed apprezzare la mia pittura che nel mio paese non era compresa nè considerata. Debbo ad essi se le migliori personalità del loro grande paese, che negli ultimi decenni capitarono a Roma, a cominciare dai membri della Famiglia Reale britannica, non mancarono di fare una visita al [p. 175 modifica]mio studio di Via Margutta e di prodigarmi i segni della loro maggior simpatia e considerazione. A mezzo di tali miei preziosi amici io contrassi non poche altre care ed interessanti amicizie, di quelle che elevano l’animo ed accrescono il pregio della vita.

Se nel 1882 io potei decidermi ad arrischiare, durante la season a Londra, una esposizione di circa sessanta miei quadri; se la stessa ebbe, per ogni riguardo, il maggior successo ch’io potessi desiderare, fu perchè mi sentiva solido il terreno sotto i piedi per la cooperazione alla buona riuscita che quegli incomparabili amici mi prodigarono.

E la riuscita fu tale che nella grande metropoli fui, quell’anno, per qualche settimana, come uno degli uomini del giorno. E mi toccarono, da me punto desiderate e talvolta a me piuttosto fastidiose, onoranze che a Londra si è consueti tributare alle personalità in vista, anche straniere, che durante la season si trovino in quella capitale. Così, ad esempio, dovetti intervenire a non so più qual grande banchetto officiale che il Lord Mayor suole dar ogni anno in quella occasione. Tutte cose alle quali io mi rassegnavo di buon cuore, principalmente perchè mi pareva che gli onori che si tributavano a me si volgessero anche all’Italia ed all’Arte Italiana, che, a quei tempi, veramente, non erano molto considerate.


Fu in quella occasione che mi avvenne un fatto nel quale non so ancor dire se, allora, io mi conducessi come io avrei dovuto. Il Principe di Galles, futuro Eduardo VII, avea a quell’epoca, essendo la Regina Vittoria già innanzi negli anni e schiva di mostrarsi in pubblico, una specie di rappresentanza, per talune circostanze, della Sovrana. Così, certo per i buoni uffici degli amici miei, non mancò di venire a visitare la mia grande mostra. Ciò che, se era un grande onore per me e per l’arte mia, era, pure, poichè colà i personaggi reali poco si prodigano, un grandissimo richiamo al pubblico elegante e ricco, che si addensa a Londra durante quei mesi, per la mia mostra.

[p. 176 modifica]Il Principe, che io era a ricevere ed accompagnare nel giro delle sale, ebbe per me e per la mia pittura parole di quella squisita gentilezza ad esso propria; e di pittura mi parlò con intendimento non ordinario. Da ultimo, con non poca e punto gradita mia sorpresa, mi disse che sarebbe stato assai lieto di avermi ospite nel suo Castello di Sandrigham per dipingervi non so più quali località di quel paesaggio ad esso predilette. Al che io, forse anche un po’ troppo precipitoso, rifiutai l’invito; dicendo che dovevo tornar al più presto in Italia a compiervi altre pitture....

Questo mio pronto e reciso rifiuto di un invito che, ad un tempo, era per me grande e raro onore e che sarebbe stato anche, direttamente e indirettamente, assai in vario modo per me proficuo, mi venne poi rimproverato da taluni degli amici miei; sia per aver risposto con una scortesia ad una somma gentilezza di tanto personaggio, sia perchè, con ciò, io avevo dato un balordo calcio alla dea Fortuna.

Di essere potuto apparir scortese mi fu amaro. Ma coloro fra gli amici miei che meglio mi conoscevano, mi compresero in questo mio atto che era agli altri inconcepibile. Capirono che io non ne potevo più per tutte quelle settimane di vita in mezzo all’elegante baraonda della season londinese, con tutti i suoi pranzi, ricevimenti, parties, ecc., di dover indossare ogni sera la marsina, per corrispondere ad inviti di persone che mi eran, quasi sempre, indifferenti; e che m’invitavano per l’ambizione di avere in casa propria un uomo che, in quei giorni, avea fatto molto parlar di sè. Capirono che io, riuscita la mia esposizione al di là d’ogni più rosea speranza, non vedevo l’ora ed il momento di ritrovarmi sotto il cielo del mio paese, nella quiete della mia famigliuola, in piena libertà di dipingere quello che meglio io avessi sentito. E, veramente, queste furono le ragioni del mio rifiuto. Io proprio ebbi spavento di trovarmi nelle costrizioni della dimora in un castello reale; e, per di più, obbligato a far quadri per commissione, dipingendo quel che piaceva agli altri e che a me, [p. I 40 modifica] Nino Costa. La Vaga Loggia (Firenze) [p. 177 modifica]probabilmente, non avrebbe detto nulla. Ciò che sarei stato del tutto incapace di fare.

Mi par, dunque, di non dovermi pentire del mio rifiuto del principesco invito. Solo riconosco che avrei potuto benissimo evitarlo in altro modo, più cortigiano. Per esempio dicendo, con grande effusione di gratitudine di sì sul momento, e poi, con qualche garbato pretesto, liberarmi dall’impegno. Così io avrei dovuto condurmi; ma, per farlo, avrebbe bisognato io fossi uomo di corte o di società, un diplomatico, invece di un crudo artista, un po’ selvatico, quale io sono.


Riandando la ormai lunga mia vita ed i rapporti che mi ha portato con persone dei più alti ceti, ripensando al modo di pensare, di sentire dei miei amici Howard, nell’intimità dei quali durante decenni io ho vissuto e con cui, da lontano, mi tenni in frequente corrispondenza epistolare, posso dire come giammai, come in essi, in alcuno trovai congiunta la nobiltà del sangue con la nobiltà del cuore.

La mia riconoscenza per essi, come per Federigo Leighton, deve essere ricordata dai miei e da quanti mi amano.

La loro operante amicizia creò a me, straniero, nel loro paese quell’assieme di relazioni, di amicizie, di simpatie, di fama, che valse a formarmi in Inghilterra, una posizione artistica, che anche moltissimi artisti inglesi potevano invidiarmi. Questa mia posizione non scemava quando la morte portava via, benchè di me più giovane, il mio fraterno amico Federigo Leighton. Anzi dopo che questa era avvenuta, lasciandomi nella maggior desolazione, assai mi confortò il massimo riconoscimento, forse, che abbia avuta l’arte mia.

Fra i quadri che più a lungo io abbia tenuto sul cavalletto, uno ne avevo, che poi chiamai «Il Risveglio» ai quali gli amici avean fatta molta fama. E che più volte avrebbe avuto il suo compratore, se io avessi consentito a separarmi da questo figliuolo dell’anima mia. Questo quadro rappresenta un tratto [p. 178 modifica]di paese su la riva destra dell’Arno prossima alla foce. Ha al primo piano una distesa di steppa cespugliata e paludosa, al secondo piano la oscura massa della pineta di San Rossore.

E nel fondo, vera ragione del quadro, le maestose Apuane tagliate sul cielo multicolore al sorgere della primissima alba. È proprio il motivo e l’effetto stesso che, navigando nei primi mesi del ’59 per andar a militare con Re Vittorio contro l’Austria, m’era apparso per la prima volta, affascinandomi per la sua divina bellezza. Questo mio figliuolo m’era particolarmente caro, anche in ragione di quel che m’era costato. Perchè, invero, non eran state poche le ultime ore della notte da me trascorse al freddo ed all’umido, per cogliere e riprodurre il fugacissimo effetto. Ciò che, forse, era stata origine della tanto grave artrite che, fra il finir del 1877 ed il cominciar del 1878, poco mancò non mi mandasse all’altro mondo.

Io voleva che questo figliuolo, prima di staccarsi da me, raggiungesse la maggior perfezione possibile per poter fare onore al padre.

Finalmente lo ripresi con l’animo di finirlo. Ricordo che, allora, Lord Vivian, che era ambasciatore britannico a Roma, si compiaceva di venire a vedermici lavorare. E fu per suggerimento di lui ch’io mi decisi a toglier dal primo piano del quadro la figura di giovine uomo che si svegliava col sole.

Esposto «Il Risveglio» a Londra, nel 1896, v’ebbe il maggior successo, specie fra gli artisti; come io, che ve lo avea accompagnato vi ebbi l’accoglienza più calda ed affettuosa.

Pareva, proprio, che tutti fosser d’intesa di consolarmi nel mio rammarico di non trovarvi più vivo il mio Leighton.

Coronamento di tale accoglienza fu che i maggiori artisti inglesi vollero che «Il Risveglio» rimanesse a Londra; e per comprarlo si quotarono ed il quadro donarono alla «National Gallery». Veramente era norma di questa che non dovessero esservi ammesse se non opere di artisti defunti ed io ero tuttora vivo, se non più ancor verde. Ma si decise che il mio quadro potesse esservi accolto a rappresentarvi la moderna [p. 179 modifica]Arte Italiana, in grazia del plebiscito dei massimi esponenti dell’Arte Britannica che alla Galleria lo donavano.

Così, quei generosi amici, compartivano a me italiano, un privilegiato onore che alcuno degli artisti del lor grande paese avea mai ottenuto.