Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXXII
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Missione politica in Roma
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XXXII.
MISSIONE POLITICA IN ROMA.
Dopo aver lasciato Roma per la Campagna del ’59, io non avea più avuto parte diretta nelle cose politiche, pur avendo assiduamente seguìto gli avvenimenti per gettarmici dentro, quando l’occasione fosse venuta per me di farlo con utilità per le cose del paese. Mentre, però, io, tra Firenze e la costa del Mar di Toscana, Parigi, l’Inghilterra e la foresta di Fontainebleau, ero tutto assorbito dall’Arte mia, a Roma molte cose mutavano; lo spirito, sopratutto, mutava fra i capi del Comitato Nazionale Romano, che, come vedemmo, avea avuto origine dal nuovo orientamento politico deciso in Roma, nel mio studio di Via Margutta ed a capo del quale era stato messo, ed era tuttora, Giuseppe Checchetelli.
Più fatti avevano contribuito a generar questo mutamento. Principali fra questi: la partecipazione di Napoleone Ill alla guerra del ’59 e la proclamazione di Roma a Capitale del Regno, avvenuta nel ’61.
I membri del C. N. R. che da principio erano intorno a 12.000, i quali tutti pagavano una piccola quota mensile, erano stati prima di allora tutti concordi e molto decisi a far quanto si potesse per la liberazione di Roma, non ripugnando, per questo, anche da una azione diretta rivoluzionaria. Ma la guerra del ’59 aveva cavato da Roma gli elementi più caldi ed attivi del movimento nazionale, i quali, arruolati volontari per la campagna, non avevano per la più parte rimpatriato; mentre l’emigrazione romana nel Regno, giorno per giorno, si accresceva di coloro che non potevano, ormai, più sostenersi in Roma.
Ed i liberali del C. N. R. rimastivi, nella massima parte i più tepidi ed utilitarii, repugnavano da qualsiasi azione, che non fosse concordata col Governo di Torino; ed aveano per l’intervento francese nella nostra guerra scemata la loro avversione contro il già tanto odiato Luigi Napoleone. Ciò che, nei più dei casi, non era già saviezza o prudenza, ma vivo desiderio di non turbare i loro propri interessi con mutamenti dello stato di cose in cui essi trovavano il loro personale tornaconto.
A questo deve aggiungersi che, annessa la Toscana, morto Cavour, avea prevalso nel partito al Governo la «Consorteria Toscana», la quale assai poco o nulla avendo fatto per l’unità, essendo essa rimasta fino all’ultimo istante ligia al Granduca, per ironia della storia, si trovava ad aver parte preponderante nel reggere la risorta Italia.
E questa infausta «Consorteria» aveva mutato del tutto lo spirite del partito che era stato di Cavour. È mentre questi si serviva, da uomo positivo che era, degli interessi per convergerli ai più alti scopi nazionali, i «consorti» credevano, e taluno forse anche in buona fede, di lavorar in prò di quelli, promuovendo egoistici interessi di partito e di casta. E secondo questi regolavano la politica dello Stato.
Fu questo prevalente spirito esclusivista e gretto nel Governo, dopo la morte di Cavour, che funestò l’Italia nel primo decennio della sua vita indipendente. E, fra l’altro, tanto maleficamente agì sulle cose di Roma, favorendo quelli elementi che mon avean punta fretta di restituirla all’Italia.
Contro questo andamento di cose moveva aspri lamenti tutta l’emigrazione romana, la quale era numerosa ed impaziente, specie a Torino, a Firenze, a Bologna. E faceva gravi accuse contro i dirigenti del C. N. R. in Roma, in specie, per il malo uso che essi facevano dei fondi del Comitato e della sovvenzione mensile di cinquemila lire che ricevevano dal Governo di Torino.
In questo generale intepidimento della politica del C. N. R. avean trovato buon giuoco i Mazziniani, i quali riordinavano le loro file, che s’ingrossavano dei delusi di quello e formavano in Roma il «Comitato di Azione»; il quale vi agiva in senso nazionale ma rigidamente repubblicano.
Questo era lo stato delle cose di Roma, quando io da Parigi, negli ultimi mesi del 1863, feci ritorno a Firenze.
I lagni erano generali, per quello, fra tutti gli emigrati romani. Gli elementi garibaldini erano irrequieti e vogliosi di ricominciar ad agire; ma s’era a poco più di un anno da Aspromonte... Nonostante, il Governo moderato aveva paura di Garibaldi e dei suoi. Tanto che, qualche mese dopo, ci fu il tentativo per indurre Garibaldi stesso a capitanare una spedizione sul Danubio, con la segreta speranza, forse, che non ne tornasse più!...
Non lieto di queste cose, me ne confortavo con l’Arte. Dopo aver lavorato intensamente tutta l’invernata e parte della primavera, tra Firenze e Bocca d’Arno, io mi disponeva a tormarmene in Francia, quando fui sorpreso dalla visita di Checchetelli. Il quale, pur essendo stabile a Torino, non avea mai cessato di essere da tutti riconosciuto capo del movimento nazionale in Roma; movimento che avea il proprio organo nel «Comitato Nazionale Romano». Checchetelli mi disse dei gravi malumori tra gli emigrati contro i maggiorenti dei rimasti a Roma. E ciò non era nuovo per me. Mi disse ancora che egli riteneva che, comunque, il C. N. R. dovesse riordinarsi e rianimarsi. Terminò col propormi che io andassi celatamente in Roma con i suoi pieni poteri, con l’incarico di indagare sul posto il vero stato delle cose; specialmente di appurare le tante accuse che si muoveva dagli emigrati contro i dirigenti locali del Comitato. Sarebbe stata sua cura di far che a Roma venissi ascoltato ed obbedito come lui stesso. Perchè avrei dovuto fermarmi, comunque, in Roma e prender, almeno per qualche tempo, nelle mie mani le redini del C. N. R.
Tale incarico era di quelli che non si ricusano. Ed io, senza esitare, lo accettai.
In una bella mattinata della fine del Giugno 1864 io, travestito da buttero, ciò che non mi accadeva per la prima volta, passavo, a cavallo, e coll’immancabile pungolo in mano, Porta del Popolo.
Rientravo, dopo alcuni anni di assenza, in Roma. Per ferrovia mi seguiva una molto bella fanciulla. Era la mia Ninfa del bosco, con la quale io era a quel tempo, tuttora nei bollori di un recente amore; e dalla quale, a quei giorni, io non avrei potuto per molto vivere lontano.
Nei primi tempi di questo mio ritorno nella mia città natale mi parve bene di starvi celato, onde poter meglio adempiere al mio incarico; che, come ho detto, consisteva sopratutto di accertare le condizioni di spirito, di organizzazione, di azione, al fine di venire in chiaro circa le aspre accuse degli emigrati contro i dirigenti del C. N. R. Mi avevano preceduto le più ampie credenziali di Giuseppe Checchetelli che tutti riconoscevano tuttavia quale capo supremo del movimento nazionale in Roma. Messomi subito all’opera, condussi a termine in breve la mia inchiesta. E venni ad assodar fatti che mi fecero concludere che le accuse di spensieratezza, di scoraggire qualunque azione e qualunque attiva propaganda, di addormentare lo spirito nazionale con vane ciancie, combattendo coloro che erano animati da maggiore ardore, erano fondate.
Veramente il numero degli inscritti al C. N. R. era tuttavia ragguardevole; e tutti, dal più al meno, pagavano la quota mensile. Ma il tempo, e gli avvenimenti cui ho accennato, avevano avuto su quello i peggiori effetti. Si era quasi del tutto spento il primitivo ardore rivoluzionario. Nell’assenza dei più ardenti, fuorusciti quasi tutti, alla testa del Comitato eran capitati uomini temperatissimi per indole o per interesse; i quali, collegati che erano col Governo di Torino, si erano fatti personaggi quasi ufficiali. A Torino, nelle sfere governative, certo non si spasimava per la liberazione di Roma, ovvero si voleva lasciarla al Papa — così molti come Massimo D’Azeglio — o Sir William Blake Richmond.
(Portrait National Gallery di Londra.) Nino Costa. Il Risveglio si aveva paura di Napoleone Ill. Aspromonte fu frutto di questa
supina soggezione alla Francia. Le cose assai peggiorarono col
Ministero che venne dopo quel di Rattazzi, di cui era parte
Minghetti, devoto a Pio IX; e nel quale preponderava la
« Consorteria » toscana che vi avea dentro tre dei suoi: Bettino Ricasoli, Ubaldino Peruzzi e Cambray Digny. A costoro si dovette la famosa Convenzione di Settembre con la Francia, mediante la quale venne stabilito il trasporto della Capitale da
Torino a Firenze e lo sgombro delle truppe francesi da Roma.
Si disse, allora, che la Capitale a Firenze altro non era se non
una tappa sulla via di Roma. Ma quanti, invece, nel cuore loro
non desideravano che Firenze rimanesse in eterno Capitale del
Regno; si illudevano di aver per sempre sepolta la Questione
Romana!...
Ricordo che mi fu fatta leggere, or è qualche tempo, una lettera che, da Cannero, Massimo d’Azeglio, agli ultimi della sua vita, scriveva al suo amico Rendu; ebbene, quegli riferiva che il Senatore Conte Pasolini così si era espresso, dopo che venne conclusa la Convenzione di Settembre:
— Finalmente, grazie a Dio, siamo liberati da Roma!...
Orbene, a credere ed a godere di essere liberati da Roma, io trovai non pochi di coloro che capeggiavano il C. N. R. che s’era costituito per liberar Roma dal Papa e darla all’ Italia.
E con questo ho detto tutto!...
Malgrado questo deplorevole stato di cose, io non mi per- detti di animo e mi diedi a tutt'uomo al lavoro di riorganiz- zazione, ad infondere nei Romani uno spirito più audace. E non senza frutto; nè si dovette certo a me se del mio lavoro non si ebbero maggiori resultati positivi.
In quest'opera di propaganda, di organizzazione, di preparazione, ormai anche come emissario della emigrazione romana, io spesi interi più di tre anni dal luglio 1864 fino a dopo Men- tana, andando continuamente avanti ed indietro tra Roma e Firenze. Questa mia azione poteva costarmi cara, se la Polizia Pontificia avesse potuto penetrarla. Ma questa, se era spietata, era anche incapacissima ed io non mi fidavo che di gente provata. E, poi, al solito, la mia qualità di artista ed i rapporti che espressamente ostentavo con artisti e personalità straniere, assai mi aiutavano a coprire in me il cospiratore. Alla fine del 1865 avvenne lo sgombro dei Francesi i quali furono sostituiti da volontari, massimamente Belgi, Francesi, Svizzeri, Irlandesi. Il Corpo di occupazione di Napoleone aveva, addetti al Comando, diversi abilissimi agenti di polizia di ogni grado. Quando questi se ne furono andati, io mi sentii, nella mia azione, più libero. La guerra del 1866, con i suoi tanto miserevoli resultati, mi trovò immerso nella mia difficile missione. Se il modo con cui ebbe termine quella guerra, tanto amareggiava gli Italiani nondimeno la risoluzione della Quistione Romana ne rimaneva avvantaggiata. Comunque Venezia era libera, non rimaneva che da liberar Roma, per aver tutta di un pezzo l’Italia. A questo grande scopo, senza più possibilità di diversivi, si volgevano quanti dell’Italia volevano davvero il completamento con Roma capitale.