Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXXIV

Capitolo XXXIV
William Blake Richmond

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Capitolo XXXIII Capitolo XXXV

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XXXIV.

WILLIAM BLAKE RICHMOND.


Andato a Roma alla metà del 1864, come vedemmo, per compiervi la inchiesta su l’attività svolta dal Comitato Nazionale Romano e di provvedere al suo riordinamento — e ciò per incarico del capo Giuseppe Checchetelli — vi avevo dovuto fare lunga dimora. Anzi, pur conservando a Firenze il mio principal domicilio, la maggior parte del mio tempo in quegli anni, dalla seconda metà del 1864 alla battaglia di Mentana, io trascorsi in Roma. Questa mia permanenza nella città nativa era intramezzata da frequenti viaggi e dimore in Firenze, per le necessità dei contatti e delle intese; poichè gli amici emigrati ed io, assieme agli elementi sinceri e decisi rimasti a Roma, assai diffidavamo dei moderati che più o meno preponderavano nel movimento nazionale, cui faceano da spegnitoio. Occorreva fronteggiare tale funesta corrente di uomini di dubbia fede. Questa la ragione del mio rimanere, anche durante la guerra del ’66, in Roma, dove io avevo finito per assumere la qualità di rappresentante della emigrazione romana, che anelava il ritorno nella città nativa. La nostra sfiducia, purtroppo, verso certe persone non era affatto irragionevole. Ed il momento di agire si presentava assai vicino.

Ma io mi assentava, non poche volte, anche per evitar che l’attenzione della Polizia Papalina si fermasse sopra di me e [p. 180 modifica]non finisse per appurare la vera ragione della mia permanenza in Roma e la doppia esistenza che io vi menava. E la vita artistica assieme alla cosidetta «vita di società», che ora si direbbe «mondana», io conduceva con molta ostentazione. Specialmente io mi facevo assai vedere in compagnia di forestieri, inglesi sopratutto. Di questi ne convennero non pochi a Roma, appunto nell’inverno 1866-67. A quest’epoca rimonta l’inizio di un’altra molto cara amicizia, che da circa trent’anni dura tuttora cordialissima, l’amicizia mia con William Blake Richmond, pittore, che si è, con tanto merito, conquistato un molto alto posto nell’Arte Britannica contemporanea. Anche questa amicizia io debbo, come tanti altri benefici della mia vita, a Federico Leighton.

Richmond era a quell’epoca ancor giovine, avea seco la moglie da poco sposata ed il suo primo bambino appena slattato. Bella e nobile natura di artista e di uomo, pieno di viva ammirazione per l’Italia e la grande sua Arte. Come tanti altri eletti suoi connazionali di quell’epoca, egli dell’Italia non amava solo le bellezze naturali e gli splendori dell’Arte Antica; ma era caldo, pure, per i nostri sforzi per completarne l’unità, per liberar Roma.

Come si vede molte ragioni accostavano Richmond e me; e, dato anche il carattere aperto e l’umore allegro di lui, subito simpatizzammo e non mettemmo molto a diventare amici. Egli si era stabilito in Roma per non breve dimora; ci rimase, infatti, più di due anni ed avea preso casa prossima al mio studio. Molto, così, stavamo assieme; ed, anche, non poco assieme lavorammo sia in campagna sia nel mio studio. Egli prese molto interesse a quanto io, da molti anni, andavo studiando e sperimentando intorno alla preparazione dei quadri, sì di figura che di paese. l quali studi con Federico Leighton avevamo condotto con molta perseveranza anche sugli esempi dei pittori antichi. Ricerche tecniche che alcuni anni più tardi noi concludevamo, con Leighton, stabilendo definitivamente il metodo di tecnica pittorica che noi credevamo il migliore.

[p. 181 modifica]Per provare i procedimenti tecnici da me, allora, preferiti, Richmond volle, nel mio studio, farmi un ritratto, nel quale misi spesso fe mani anche io e che tuttora conservo, ricordo carissimo dell’eccellente amico e della nostra vita fraterna di quei lontani giorni.


(A completare il quadro della vita di mio padre in quei mesi che precedettero i tentativi di insurrezione di Roma, Villa Glori e Mentana, nulla mi sembra più utile come tradurre quanto lo stesso Sir William B. Richmond scriveva ad Olivia Rossetti Agresti e ch’essa inseriva nel suo volume inglese intorno a mio padre. G. G. C.)


«Incontrai Giovanni Costa a Roma nell’inverno 1866. Il nostro incontro avvenne nel Caffè Greco una sera. Era inverno; Roma era piena di visitatori. Mr. Gladstone, il Duca di Argyll, con la sua famiglia, Lord Cardwell ed altri membri del Governo che era stato recentemente battuto sulla legge della riforma, erano visitatori; e la società era, ad un tempo, brillante ed intellettuale. W. G. Carterwright ed Odo Russel erano dappertutto in prima linea e Leighton a questi si aggiungeva in mezzo ad una deliziosa società.

«Ero stato a mangiare alla «Lepre» e, dopo pranzo, andai al «Greco» per un caffè e per farvi una partita a domino. Gibson era già morto, ma il vecchio ritrovo di bohémiens era tuttora pieno di artisti, i quali se non erano degli eleganti zerbinotti, erano semplici ed eccellenti diavoli, i quali sapevano tante curiose storie ed eran pieni di bonomia; e Leighton, col suo ben noto attaccamento alle vecchie abitudini, quando non aveva impegni altrove era fedele agli antichi ritrovi.

«Egli entrò nel caffè con un romano alto e bruno dagli occhi vivi e lucenti, il naso grande a gancio, i capelli neri ricciuti; questi subito mi colpì come la presenza di una notevole personalità. Con quella prontezza e cordialità tutte sue, [p. 182 modifica]sempre desideroso di far cosa generosa e gentile, Leighton si precipitò da me e mi disse:

«— Vieni, vieni, debbo presentarti a Nino Costa, un vero artista, un grande artista!...

«Mi condusse presso Costa il quale, con una specie di graziosa rudezza, mi strinse la mano; e cominciammo a parlare in francese. Il mio italiano non era allora molto fluente ed il francese di Costa era assai romano, comunque facemmo la nostra reciproca conoscenza, e, Leighton avendoci lasciati soli, parlammo per del tempo.

«Questo incontro fu prontamente seguito da una visita che io feci allo studio di Costa, a Via Margutta.

«Io era, a quel tempo, un giovincello devoto all’arte, ma ingenuo nelle mie vedute; ovvero, per dir meglio, ignorante. Leighton avea guadagnato la mia ammirazione; mi piaceva il suo senso della linea, mi piaceva il ritmo del suo lavoro e mi avea colpito che tutti i quadri di lui, che io avea veduti, erano «nuovi» non già «nuovi» nell’odioso senso moderno, ma nuovi ch’erano, però, nelle vecchie linee. Avevo amato l’opera di Millais e di Holman Hunt e l’amo ancora, ma nell’opera di Leighton v’era, per me, qualcosa di distinto, di più greco e decorativo.

«Orbene. Il mio studio era in Via San Felice. Di qui camminai verso Piazza di Spagna e di là presi per Via Margutta e, per molte scalette, trovai la mia strada per giungere allo studio Costa.

«Alla mia bussata la porta si aprì ed ecco che venni accolto con un geniale benevolente saluto, sì raro da un grande uomo ad un novizio. Lo studio era guarnito di molte belle cose: armature, arazzi e curiosità. Ma non erano questi gli oggetti che mi attraevano. Su vari cavalletti stavano quadri che non dimenticherò mai; questi erano e sono del tutto diversi da qualunque altra pittura che io abbia vista. Grandi nel disegno come bassorilievi greci, pieni di una atmosfera singolare. Gli stessi riunivano un sistema di linee con [p. 183 modifica]apprezzamento dei piani, a mio modo di pensare qualità che si ritrovano assieme solo nell’opera dei più grandi maestri.

«Con quella bontà che gli era propria, Costa tirò giù dall’armadio, dove teneva i suoi studi dalla natura, una quantità di bei lavori: rapide impressioni, disegni per quadri ed, anche, disegni dal vero molto finiti che avrebber potuto esser di mano di Benozzo Gozzoli. Era per me una nuova rivelazione della natura; era un fare largo e semplice e pur pieno di dettaglio.

«Un magnifico quadro, che è ora proprietà del Reverendo Stopford Brooke, era sul cavalletto; secondo me uno dei più nobili paesaggi che siano stati dipinti. Vi era ancora il quadro Donne che rubano legna ad Ardea, adesso nella galleria di Lord Carlisle.

«Leighton mi avea detto che io avrei conosciuto un vero artista e che avrei trovato un vero amico; ed era così.

«Tornai al mio studio un altro uomo; ero stato rinfrescato da un nuovo ruscello, il quale direttamente scorreva verso il Parnaso. L’inspirazione di Costa era così vera, non nel senso realistico moderno, ma nell’ideale; aveva qualche cosa di preistorico eppure moderno, grande e virile.

«Nel mezzo di una comunità artistica assolutamente morta, stava un uomo che vedeva la natura non soltanto con gli occhi di poeta, ma pure come uno scultore. E non solo questo, perchè Costa era un’artista la cui sensibilità avrebbe potuto condurre per varii sentieri; ma egli, un romano o, meglio ancora, un etrusco, era convinto della sua propria individualità, l’ereditario sforzo di austerità era fino in tutte le sue vene.

«Leighton conduceva tutti allo studio di Costa e taluni erano colpiti in modo speciale. Mr. Gladstone, il quale era sorpreso dal classico, non falso ma sincero, entusiasmo e sentimento del pittore.

«Era davvero un piacere, per me, andar con Costa in Campagna Romana ed osservare il suo pensiero e la sua impressione ed il suo deliberato modo di elaborarli.

[p. 184 modifica]«Un giorno, specialmente, mi è rimasto nella memoria, nel quale con Costa e Leighton andammo o, meglio, io gli incontrai fuor della Porta Nomentana.

«Cominciammo tutti a lavorare. Leighton ed io eravamo rapidi ed avevamo già fatta una impressione, quando Costa venne a guardare il nostro lavoro. E disse:

«— Sì, questo è ammirevole, ma lo è per una volta sola.

«Io andai a vedere quello che avea fatto lui. Egli aveva disegnato ogni contorno con cura, egli avea studiato ogni piano ed avea dipinto solo i punti di valore. A qual punto avesse Leighton portato il suo schizzo io non so: solamente so che il mio pende al muro come una semplice impressione, quello di Costa divenne un quadro.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

«Questo voglio dire: se quello che io ho dipinto di paesaggio ha un merito io lo debbo alla mattutina influenza di Giovanni Costa o, come meglio noi amiamo chiamarlo, di Nino.»