Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo VIII
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VII
LA LEGIONE ROMANA ALLA DIFESA DI VICENZA.
Mentre stavamo facendo marce e contromarce, sentimmo che per ben due volte gli Austriaci eran stati respinti da Vicenza. E fu grande la nostra gioia quando ci venne dato l’ordine di marcia su questa città.
Giunti a Vicenza, trovammo le traccie della battaglia e la fiera espressione di vittoria che irradiava i volti dei cittadini.
Quando ci venne ordinato di occupar le barricate, che sbarravano le strade di accesso alla città, si fece tra le compagnie della Legione a gara a chi occuperebbe la più difficile ed esposta. Ed io, ch’ero alla testa della quarta compagnia, a gran corsa potei a questa che era la mia far occupare la barricata che tagliava la principal via di Porta Padova.
Tra le barricate e le case v’era un angolo. I miei otto compagni ed io nella notte, riconoscendo la località, osservammo che se gli Austriaci avessero con l’artiglieria abbattuto un muretto che fiancheggiava la strada, potevano prenderci alle spalle. Per fortuna v’era lì vicino un gran deposito di doghe ed allora pensammo di prolungar la barricata col relativo fossato fino alle case; il qual lavoro compì il nostro manipolo dei nove durante la notte.
Alla nostra destra avevamo Monte Berico e, fra questo e noi, vigneti e la strada ferrata. Alle due e mezzo del mattino vedemmo un incendio sul monte; era un castello in gran parte di legname ed indifendibile che i nostri abbandonavano. Poco dopo venne il general Durando, il quale approvò la nostra barricata di doghe e voleva darmi i galloni di sergente che io non accettai. Egli, poi, mandò due compagnie di svizzeri per occuparla e due obici che vennero piazzati agli angoli.
Poco dopo noi nove uscimmo, per esplorare, incontro al nemico per la strada tenendo i fossati laterali; e fatto circa un chilometro, vedemmo il nemico avvicinarsi in colonna, avendo alla testa un ufficiale a cavallo che supponemmo essere il colonnello. Il maggiore dei due Valentini, armato il suo monocolo, puntò su questo ufficiale il suo fucile e sparò e lo vedemmo cadere. Ciò fatto, ci buttammo per le vigne quietamente ritirandoci. Il difficile fu di rientrare nella nostra linea perchè i compagni credendoci nemici ci sparavano contro. Accovacciandoci e mettendo i fazzoletti bianchi sulle baionette, finalmente potemmo entrare nella nostra linea.
La barricata maggiore era di terra, ma avea dietro un lunghissimo ballatoio di travi, ad altezza comoda per vedere e per tirare. Accadde ciò che era da prevedersi, che la prima palla di cannone che colpì i travi ci gettò tutti di sotto. Tutti, benchè un po’ ammaccati, ci rialzammo tranne un bel giovine vicentino di nome Tonin il quale non si rialzò più. I Vicentini, che erano in linea con noi, non finivan mai di lamentare:
— Povero Tonin!... Povero Tonin!...
Questo morto ci rimase tra i piedi tutto il giorno.
Ad ogni cannonata, ad ogni ferito a morte, non mancavamo mai di gridare:
— Viva l’Italia!... Viva Pio IX!...
Frattanto era cominciato l’attacco degli Austriaci al nostro fianco destro, a Monte Berico, che era difeso dall’artiglieria romana, con la quale erano Armellini e Torre, che divenne in seguito generale.
Noi vedevamo le biancastre masse degli Austriaci, le quali pur ondeggiando avanzavano, finchè vedemmo la cavalleria ungherese staccarsi dalla via di ferro; ed, avendo l’artiglieria già demolito il piccolo muretto, quella veniva ad attaccarci di fianco. Lasciatala avvicinare, incrociammo i fuochi dei due obici e quello delle compagnie che erano parte sulle case e parte dietro le barricate di doghe. Fieri della strage del nemico che vedemmo a pochi passi sotto i nostri stessi occhi, sortimmo tutti come leoni per inseguir gli assalitori volti in fuga; ma non potemmo durar a lungo nell’inseguimento, essendoci incontrati con corpi nemici di migliaia di uomini che salivano all’attacco di Monte Berico.
Nel frattempo alle barricate di Santa Lucia, sulla nostra sinistra, era accaduto che i nostri erano rimasti senza miccia per dar fuoco al cannone ed il nemico veniva francamente avanti in colonna per le strade maestre per occupar le barricate. Ciò vedendo, ad un certo Ceci, romano, formatore, saltò in testa di sparar sul buco del cannone dove si accendeva con la miccia. Il cannone esplose facendo strage nella massa dei nemici, ai quali, trovandosi essi già sul ciglio delle barricate, altro scampo più non rimaneva che combattere.
A noi giunse, però, la notizia che queste barricate di Santa Lucia — che erano sulla nostra sinistra ma indietro — eran state prese dagli Austriaci. Allora io ed il mio manipolo accorremmo là; i nemici già avean preso piede sul margine esterno della barricata, ma i nostri tuttora si battevano alla baionetta ed a calciate di fucili.
I nemici furono respinti dalla barricata, il fosso era pieno di morti, e gli assalitori eran già sparpagliati in ritirata sulla strada. Ad un tratto, però, mi accorsi che dinanzi ad una casa su la destra vi erano dei croati che, da una inferriata al pian terreno, sparavan dentro la casa. Senza vedere il pericolo, di corsa entrammo in quella casa e ci spingemmo sotto al parapetto della finestra mettendo i croati assalitori nella impossibilità di offenderci, trovandosi essi più in basso di noi.
Alzatici, poi, tutti all’improvviso tirammo a bruciapelo alle loro teste. Per la prima volta ebbi la certezza di avere ucciso un uomo.
I croati, allora, misero i fazzoletti sulle baionette. Non ci parve vero.
C’era nel fosso un ungherese ferito che tentava alzarsi sul braccio destro e che ricadeva, battendo la testa. Montai sulla barricata, scesi nel fosso proprio nel momento che un certo Annibali, una bestia eroica, stava per ammazzarlo. Mi slanciai sull’Annibali dicendogli miserabile. Incrociammo assieme le baionette; ma sopraggiunto il colonnello Galletti ci divise, trattò di animale l’Annibali e l’obbligò ad aiutarci nel portar il povero ungherese ferito dentro la barricata.
Messo al sicuro l’ungherese ferito, mi avviai per tornar alla mia barricata. E questo non si poteva far senza gran pericolo, dovendosi percorrere un borgo dove incrociavano le palle di cannone. Poco dopo, in questo borgo, il colonnello Del Grande avea appoggiato il suo cannocchiale sulle mie spalle per osservare il nemico; e mentre credevamo di divertirci nel guardare un razzo alla Congrève che facea lentamente la sua parabola — veramente questi razzi erano il divertimento della giornata — questo andò a battere sulla parete di una casa e, facendo un angolo, venne di rimbalzo a forar il ventre del nostro caro colonnello.
Egli ci amava come un padre. Era uomo semplice e rozzo, ma di grande animo. Egli ci diceva ad ogni momento:
— Fii miei ce vò la disciplina delle masse. Questo è mejo pe’ lloro. Dateme udienza. Io so’ avvezzo colli mietitori della campagna romana.
Il pover’uomo cadde sventrato dal fiero colpo. Noi con religione mettemmo da parte la cara salma, giurando che il nemico non l’avrebbe avuta nelle mani.
Tornammo alle nostre barricate di doghe dove trovammo gli svizzeri, eroi taciturni. Noi eravamo vestiti di un grigio-ferro un po’ simile al colore del legno delle vecchie staccionate. Mi misi a sparare; quando ebbi sparato venne al mio posto uno svizzero che avea una uniforme con metallo sul kepì e fu subito morto. Il fratello di questo si fece avanti e levava la fiasca al morto dicendo:
— Povero vino!... Povero vino!...
Io tornai a fare il mio colpo ed egli, a sua volta, mi sostituì al parapetto della barricata e cadde morto.
Credo vi fosse qualche tirolese, appostato fra i pioppi delle vigne, che avea preso di mira quel punto e quando luceva per i metalli tirava.
Alle due e mezzo Monte Berico ci fu preso. Sentii dire che il corpo che lo assalì era di venticinquemila uomini. Di fatti per almeno dieci ore vedemmo una massa compatta salire lenta, ma senza interruzione, il monte finchè si impadronì della chiesa della Madonna di Monte Berico. Tanto è vero, che, a quell’ora, cominciarono a venirci cannonate e fucilate sul fianco destro. Salii al piano superiore della casa soprastante alla barricata per veder meglio cosa accadeva. Quando fui in una delle camere trovai i difensori alle finestre; alla finestra di sinistra. vi erano un certo Chinassi tromba ed un altro di cui non ricordo il nome. Ed ecco che sopraggiunse una granata, la quale, forando il davanzale della finestra, fracassò le gambe ad ambedue. Ad uno gliele ridusse come una matassa di refe ed all’altro gliele troncò, lasciando i moncherini fuor della pelle. Tutti e due morirono gridando:
— Viva Pio IX!...
Così gridarono perchè l’enciclica funesta del Papa erasi celata il più possibile alla massa dei combattenti.
Adagiati i morti su di un letto, tornammo a combattere.
Ma, oh! Dio!, poco dopo si seppe che s’era capitolato!...
I patti erano: di astenersi dalla guerra per sei mesi e di ritornare negli Stati Pontifici con armi e bagagli.
Ci eravamo battuti per diciassette ore in novemila contro Vincenzo Camuccini. Autoritratto. La porta san Pancrazio dall'interno della città, 3 giugno 1849 quarantacinquemila uomini. Furono da noi messi fuori di combattimento circa novemilaottocento uomini.
La sera stessa verso le nove e mezzo i croati vennero sotto la barricata domandandoci pane, morendo essi di fame. Mentre gli aiutavamo dando loro pane, procurando che salissero fra noi e porgendo loro la mano, un croato, accortosi che la barricata era tenuta da poca gente, vibrò un colpo di baionetta sotto il mento ad un nostro carabiniere facendola uscir dalla nuca. Eravamo sul posto, i due fratelli Berretta, Aloisi ed io, che dammo a bruciapelo una fucilata al croato nel cranio e ne vedemmo schizzare il cervello.
Questo determinò una terribile lotta corpo a corpo tra noi ed i croati; che altri lor compagni venivano a rinforzare. Per questo si riportò avanti il cannone che era stato ritirato e si sparò nel mucchio dei nemici. Questa omerica battaglia avveniva al lume di bengala.
Dopo tante ore di combattimento eravamo davvero imbestialiti. Affranti dalla fame, dal sonno e dalla fatica, esaltati dal molto vino bevuto, che ci veniva portato a bigonci, con le mani vescicate dalle armi scottanti per le centinaia di colpi sparati, noi altro non avevamo che un rabbioso desiderio di sonno. Così fummo feroci.
Quest’ultima scaramuccia ebbe fine perchè gli Austriaci o furono da noi uccisi, o scapparono, o furon ritirati dai loro ufficiali superiori. Così nulla più avevamo a temere da essi. Ed allora saliti nella casa, dove tra gli altri v’’erano i due cadaveri mutilati, pensammo bene di levarli dal letto, adagiarli per terra ed occupare il loro posto.