Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo IX
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IX.
DA VICENZA A ROMA.
La mattina dopo si doveva dare la città agli Austriaci.
Le nostre milizie sfilarono tra i vincitori allineati. Ma il mio manipolo ed io molto avemmo da fare per trovar una cassa da morto per chiudervi la salma del nostro amato colonnello Del Grande che per nulla al mondo avremmo abbandonato; e che, avvolta e stretta in una coperta, portavamo alla meglio a braccia.
Quando passammo davanti lo Stato Maggiore austriaco, molti ci si fecero addosso per riprenderci le armi tolte da noi ai loro soldati e per sapere che ci fosse nel grosso involto che portavamo. Allora il maggiore dei due Valentini che era di figura imponente, come di spirito e di parola pronta, si fece avanti e rotando gli occhi intorno, gridò:
— Chapeau bas!... C’est un brave mort pour la Patrie!...
Tutti quei generali nemici subito si misero in linea per ren- dere gli onori militari. Ed uno del seguito ci domandò:
— Quanti morti avete avuto?
Si rispose:
— Contate i vostri!...
Un altro ufficiale nemico avea l'uniforme senza una manica ed il braccio in camicia. Ci venne detto, o credemmo, che ciò avesse fatto per spregio a noi. Il Valentini, allora, fieramente disse:
— Son sei mesi che fuggite; e noi oggi per la prima volta capitoliamo con gli onori delle armi!...
E passammo oltre.
La nostra maggior preoccupazione era sempre la cassa mortuaria. Una ne trovammo ma c’era dentro un altro morto; rovesciandola la votammo e ci chiudemmo il nostro amatissimo Capo. Improvvisammo un cataletto ed a spalla, a turno, lo portavamo noi Legionari. Superate finalmente le linee nemiche per trasportare il nostro morto eroe, potemmo procurarci un carretto e un cavallo.
Il paese che attraversavamo era tra i monti e deserto. E v’eran già passati gli Austriaci ed i nostri in ritirata. Che cosa sia di devastatrice una milizia in ritirata nemmeno si può immaginare. Arrivammo finalmente ad un paese, Barbarona, ma non c’era più nulla nulla da mangiare. Pensammo, allora, di dividerci per andare alla busca. Su di una collina vidi uscir fumo da un camino di un casolare; e tratto dalla speranza di trovarvi cibo feci forza di gambe e lo raggiunsi.
Ed infatti, proprio nel momento che entravo in quell’abituro, il contadino rovesciava la polenta sulla spianatora. Ma attorno alla tavola v’era pieno di soldati come mosche attorno alla zuccheriera ed essi cacciavano le mani bramose nella polenta, benchè tutt’ora bollente. Colsi il momento in cui alcuni avean ritirate le mani e piantai nella polenta la mia gamella alla rovescia e vi tenni sopra forte una mano dicendo:
— Tolta la vista si toglie il desiderio!...
Il buon umore che generalmente regna fra i militari e direi quasi più nella disgrazia che nella fortuna, fece ridere quegli affamati, di me, quando soggiunsi:
— La polenta brucia, ma io son discendente di Muzio Scevola!...
E tutti gridarono:
— Viva l’eroe della polenta!...
Così potei salvar la gamella piena che portai ai miei amici.
Un dei miei fu, però, di me assai più fortunato. Andò da un curato e domandatogli se avesse qualcosa da mangiare, questo gli rispose che, se lo sapeva macellare, poteva dargli un vitello vivo e più mise a nostra disposizione la sua cantina.
La generosa offerta venne da noi accettata. Non fu difficile trovar tra i compagni chi a colpi di daga abbattè la povera bestia. Come se la cavasse per farla scuoiare e macellare non so. Questo ben so: che ci portò dei bei pezzi di carne nei quali, arrostitili, affondammo i denti.
Man mano che avanzavamo miglior accoglienza, sempre più, si trovava nelle popolazioni. Venivamo acclamati e forniti di mezzi di trasporto per il feretro e per noi.
A Ferrara entrammo in chiesa con lo stesso carro funebre e vi facemmo celebrar un sontuoso funerale. Non volevan permetterci di pronunciare una orazione funebre nella chiesa. Ma Valentini, infischiandosi del divieto, montò in pulpito e parlò dicendo cose dell’altro mondo su la chiesa moderna, sullo spirito del Vangelo, su la umanità del Papato, su la ipocrisia che non concedeva di far la guerra a chi trattava la civile nazione italiana col bastone e col capestro per cupidigia di possesso. E terminava:
— Guai a colui che tolse la mano dall’aratro dopo aver cominciato il solco!
Questo Valentini era uomo di gran torace, molto alto della persona, usciva fuor del pulpito per più che metà del suo corpo. Tipo del ’500. Rubicondo, grandi baffi, occhi da domator di belve, voce stentorea, vero tipo di capitano di ventura.
Un giorno in Spagna avendo la ballerina Cerrito sotto braccio, volle forzar la consegna all’ingresso di una gran festa, per la quale non avea pensato a provvedersi di invito. Un soldato di fazione avendo messo la mano sul petto della dama per impedirle il passo, il Valentini lo freddò.
L’influenza della Cerrito e la cavalleria degli Spagnoli lo fecero salvo.
Anche prima di giungere a Ferrara — nella sosta che facemmo ad Este — avevamo sentito il bisogno di dare più decoro al trasporto che facevamo della gloriosa bara; e volemmo che con noi ci fosse un cappellano. E la bara non mandando certo odore, quando arrivammo nelle città e nei paesi non sapevam dove deporla. Allora, avendo nel picchetto d’onore due chimici, Boari e Peretti, questi col nostro aiuto imbalsamarono il venerato corpo; che, poi, chiudemmo in una cassa di zinco e questa in una robusta cassa di quercia.
Ad Este, pure, reclutammo il cappellano don Felice Spola giovine prete piemontese.
Ferrara, con un gran corteo, avea reso i maggiori onori al nostro Capo ed alla Legione. Bologna, saputo del nostro arrivo, tutta intera venne ad incontrarci: autorità, signori e popolani, dotti e ignoranti. Senza che alcun si opponesse andammo diritti a deporre la salma in San Petronio. Le orazioni funebri si facevan da noi a turno, senza contrasti e senza parole acerbe.
Data la eccellente accoglienza sostammo alquanto a Bologna. E quivi ordinammo espressamente un carro funebre del quale io feci il disegno. O, meglio, si prese un carro trenatore e lo si modificò ed addobbò secondo il mio disegno.
A gara offrirono i Bolognesi ospitalità a noi componenti il picchetto d’onore. Quel benedetto cappellano, però, invece di conferirci dignità ce la toglieva attaccandosi a tutte le gonnelle e, come Pietro, rinnegando il suo Maestro. Per farla finita io, come caporale, mi sentii in dovere di fargli una paternale, benchè non avessi che ventun anni.
Il più difficile fu in tal compito per me il mantenermi serio. Comunque io riuscii a parlargli così:
— Senti, prete Spola, noi ti abbiamo preso per decorazione e tu ci togli ogni decoro; anzi, ci svergogni spizzicottando tutte le serve ed amoreggiando con ogni fraschetta. Se tu seguiti nella tua scandalosa spensieratezza, nel tuo mal costume io ti farò bastonare. Ma se tu ti porti bene, appena giunti a Roma, io ti farò nominare vescovo in partibus.
Padre Spola capì il latino e si portò bene. E vedrete come io, nel ’49, superassi le mie promesse.
Così, di trionfo in trionfo, di chiesa in chiesa, arrivammo fino a Roma.
Quando nei vari paesi attraversati, i preti non volevano che il feretro entrasse in chiesa, allora noi, che portavamo tavole per far montare al carro ie gradinate, si entrava lo stesso nella chiesa, tra gli applausi del popolo che ce ne spalancava le porte, con quattro cavalli, che scuotevano le sonagliere, mentre i postiglioni schioccavano le lor fruste.
In Ancona, essendo la maggior chiesa molto in alto, il popolo staccò i cavalli e, nolenti i preti, spinse a braccia il carro lassù fin dentro il duomo.