Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo VII
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VII.
IN FACCIA AL NEMICO.
Dopo qualche tempo si partì per il teatro della guerra.
Si andò a Treviso; e da Treviso a Montebelluna. Mentre marciavamo, l’avanguardia dell’Esercito Pontificio sotto il comando del generale Ferrari, quando fu la sera a Cornuda per passare la Piave, venne attaccata dagli Austriaci che eran nel bosco al di là del fiume. Grandioso e solenne era veder nel crepuscolo la parabola dei razzi alla Congrève uscir dal bosco, che si distende in grande linea declinando dai contrafforti delle Alpi.
Mentre si marciava anelando la pugna, avemmo l’ordine di rimontare le colline di Belluno e fortificarvisi. Si spese parte della notte a scavar fossati e alzar trincee, che noi credevamo inespugnabili. Fatto giorno si vide impegnata la battaglia.
Noi legionari gridavamo di voler andar subito a combattere al fianco dei nostri fratelli. Ma il colonnello Del Grande ci urlava:
— Fermi, fermi ragazzi!... È solo con la disciplina che si vince!...
Mentre così il nostro comandante ci frenava sopraggiunse un aiutante di campo a domandar le nostre munizioni per i combattenti. Ci fu subito folla ad offrirsi per questo servigio; ma la vinsi io perchè avevo sotto mano quel compatto manipolo di amici pronto a tutto.
Ci diedero un gran carro dicendoci:
— I cavalli procurateveli voi.
Subito ci spartimmo per la ricerca dei quadrupedi che Vincenza Armellini, moglie di Antonio Costa Francesco Podesti. Autoritratto. dovemmo prender per forza. Mettemmo assieme una quadriglia recalcitrante di due muli e due cavalli. Sebastiani montò alla postigliona e ci avviammo.
Fatto qualche miglio vedemmo militi a torme che battevano in ritirata con la faccia e le mani nere per la polvere delle cartucce che, a quel tempo, tutt’or si doveano aprir con i denti. Brutto spettacolo per noi militi novizi!...
Venivano dopo i feriti su lettighe fatte con rami di albero. Vidi il barone Danzetta ravvolto in una coperta su di una materassa sanguinolenta. Sopraggiunser poi altri militi che ci mimacciarono per imporci di voltar i cavalli per tornar addietro, dicendoci che andavamo a portar le munizioni al nemico. Per disimpegnarci da quei prepotenti, ricorremmo all’espediente di accendere delle torce a vento che Annibale Lucatelli agitava gridando:
— Se non vi levate d’attorno dò fuoco alle munizioni!...
Prima che il nemico ce le prenda le faremo saltarel...
Allora quelli che ci serravano, e che non bramavan altro che portar la loro pancia il più possibile lontano dal nemico, ci sgombrarono il passo. Arrivati sulla piazza di Cornuda constatammo che gli Austriaci si eran ritirati da una parte e che i nostri erano fuggiti dall’altra.
Tornammo, allora, a Montebelluna dove, staccati cavalli e muli dal carro, lasciammo loro la cura di tornarsene da sè alle rispettive stalle.
La Legione era accantonata in una molto grande chiesa, la quale serviva anche da ambulanza, così noi ci trovammo ad assistere alle operazioni, alle agonie, alle morti.
E, di lassù, vedevamo pure errar per la valle tanti lumicini, erano Austriaci tornati per spogliare i nostri caduti.
Battevano, intanto, i nostri tamburi per la ritirata su Treviso, tappa di circa una trentina di miglia. Non avevamo mangiato da più di ventiquattro ore, la notte avanti per far le trincee non s’era dormito. Nonostante, sacco in spalla e via!...
Ci avean detto che avevamo alle spalle la cavalleria ungherese che ci inseguiva; ciò malgrado marciando dolorosamente su di una strada cosparsa di piccole pietre, si inciampava su molti dei nostri caduti per un invincibile sonno, senza possibilità di rimetterli in piedi ed allora prendevamo i loro fucili sulle nostre spalle per non lasciarli cadere in mano al nemico. In tal frangente i nove compagni furono assai utili gli uni agli altri e tutti ai commilitoni. Così potemmo, sostenendoli sotto braccio, portare in salvo a Treviso i due fratelli Patrizi estenuati di forze.
Entrati che fummo in Treviso, le porte si chiusero dietro di noi.
Dopo aver fatto alcuni passi dentro la città caddi fulminato dal sonno su di un mucchio di sassi preparati per riparar la strada. Di quì venni, a malapena sveglio, tolto da due giovani sposi e da essi amorevolmente condotto a giacer nel loro letto che aveano abbandonato per me. A capo al letto trovai un quadretto di Pio IX che benediva l’Italia. Accettai l’ospitalità che, con tanta bontà, mi davan gli sposini, ma facendomi dar la loro parola d’onore che mi avrebbero immancabilmente destato in caso di partenza della Legione per il campo; ed essi me la dettero.
La Legione Romana non venne destinata a lasciar Treviso.
Levatomi, il giorno dopo, salii su un campanile per veder come andavan le cose. E, purtroppo, dopo qualche ora scorsi una colonna di polvere che veniva verso Treviso ed un’altra che se ne allontanava e poi tornava; ed a lato delle colonne incendii, il fumo dei quali triste si disegnava sopra l’intenso azzurro della catena delle Alpi.
Corsi ad una delle porte della città, dove trovai agglomerate cavalleria ed artiglieria le quali, in fuga, avean sconvolta la fanteria. Allora diversi corpi armati uscirono fuori al fine di protegger la ritirata di questa, distendendosi in tiragliatori a dritta ed a manca della strada, riuscendo nell’intento.
Alla sera la Legione Romana ebbe l’ordine di far una sortita per proteggere Treviso, andando a Mogliano per minacciar di quivi, di fianco, il memico che si dirigesse sopra la città. I Trevisani, però, credendo che noi gli abbandonassimo, dalle mura ci spararono addosso una cannonata, che, fortunatamente, soltanto sfiorò le baionette di noi che marciavamo in colonna.
Durante questa marcia venne giù tale un rovescio di pioggia che non si vedeva a quattro passi avanti a noi. Così, bagnati fino alla pelle, si arrivò a Mogliano dove ci trovammo tanto vicini agli Austriaci che si sentiva calzar le palle nei mortai. Perciò rimanemmo, bagnati come eravamo, per tutta la notte all’erta e con addosso una gran fregola di azzuffarci col nemico.
Dopo non molto avemmo notizia della famosa enciclica di Pio IX nella quale egli dichiarava che i cattolici, italiani o no, eran tutti suoi figli e che, quindi, non poteva far guerra. Pio IX tornava papa!...
La conseguenza ne fu che almeno una metà dei nostri si affrettarono ad abbandonare la Legione per tornarsene nei felicissimi Stati Pontifici. Naturalmente i miei amici ed io fummo della metà che rimase. L’esser rimasto mi valeva una lettera della cattolica e trasteverina mia madre, che approvava ch’io fossi tra coloro rimasti per combattere.
La bagnatura toccataci durante la marcia da Treviso a Mogliano cagionò non pochi malanni fra i legionari. Più grave cadde infermo il principe Galitzine; il quale dovette lasciare la Legione per andarsene a morire, dopo non molto, a Bologna.
Quei poverini, i quali, per ubbidienza al S. Padre, voller tornarsene a casa, ebbero a soffrire un’odissea dolorosa quanto ignominiosa; essendo derisi, malmenati e persino legnati dalle popolazioni stesse che tanto ci aveano acclamato quando marciavamo verso il nemico.