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Malvezzi la guardò maravigliato di quella scortesia, e prese la parola per rimediarvi:

— Ho promesso a mia moglie un pezzo della sua opera, e si trova delusa di sentire soltanto La tempesta che suona anche lei.

Io stavo là ritto, mordendomi le labbra. Provavo un amaro piacere a vederla obbligata di dirmi qualche cosa. Non rispondevo nulla per non toglierla d’imbarazzo. Il marito insistè:

— Via, diglielo tu, Evelina; «a tanto intercessor nulla si niega....»

— Io non posso obbligarlo a sonare se non si sente di farlo. Sarebbe un’indiscrezione... disse la signora.

Era veramente un congedo. Era dirmi che non dovevo sonare, era avvertirmi che avevo sonato male, dacchè lei s’era accorta, senza che io lo dicessi, che non mi sentivo di farlo.

— Infatti, risposi coi denti stretti dalla rabbia, non mi sento. La prego di dispensarmi.

Mi accennò col capo che ero libero, e se ne andò.

Poco dopo uscii anch’io fremente di sdegno, smanioso di schiacciare quella donna che mi aveva schiacciato.

Passai la notte al mio scrittoio, ma senza pensare una frase, senza scrivere una nota. Ero accasciato sotto il peso dello sfregio patito; arrossivo ancora a quel ricordo, e piangevo, sì, piangevo di rabbia sui miei pugni stretti.

È una maledizione del cielo. Quell’uomo mi era apparso come un buon genio: m’aveva dato una speranza, m’avrebbe guidato nella via difficile del successo, avrebbe fatto rappresentare la mia opera.