Polemiche relative al De antiquissima italorum sapientia/IV. Seconda risposta del Vico/IV. Delle cose meditate

IV. Delle cose meditate

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IV

Delle cose meditate.

Veniamo finalmente alle vostre opposizioni, che esse cose, che io in metafisica ho meditate, riguardano: la qual parte importa assai piú di tutte le tre altre unite insieme; perché la contesa del ripartimento della vostra censura fatto nella mia Risposta è una questione del giudizio di un uomo, che nulla o poco importa alla somma delle lettere; le due della condotta e delle origini possono essere per avventura prese per contese d’ingegno, che ne’ritrovati piú stravaganti e ne’ maggiori paradossi suole riportar maggior lode: ma questa, che riguarda i principi dell’umano sapere, questa si, che dee e merita riputarsi di alto e gravissimo affare. Però, innanzi di entrarvi, non posso far di meno non mostrare il mio rammarico, che in nulla mi avete fatto favore di quello nel fine della Risposta (p. 221) vi avea priegato: che, innanzi di avermi a fare altre difficultá, oltre a quelle che io mi proposi e risolsi, aveste avuto dinanzi agli occhi quelle tre diffinizioni : della causa, dello sforzo e della guisa, e vedere se forse, ad una o a tutte e tre ricorrendo, si potesse mai sciórre. Ora voi mi opponete (p. 232) che io dica cose per diametro opposte: che nel tempo istesso che «ripruovo l’analisi» di Renato, con la quale egli si dá a rintracciare la prima sua veritá in metafisica, «insiememente l’approvi», e in conseguenza «non la confuti, ma la biasimi». Con buona vostra pace, in ciò è bastante rispondervi con solo replicare ciò che in quel libricciuolo ne ho scritto (cap. I, 4 ili, p. 13S sgg.). Io concedo quel metodo esser buono a rinvenire i certi segni ed indubitati del mio essere, ma non esser buono a ritrovarne le cagioni. Io nella Risposta (p. 221) definii «cagione» quella che, per produrre l’effetto, non ha di [p. 258 modifica]

cosa forestiera bisogno. Di si fatta diffinizione immediato corollario è che la scienza è aver cognizione di questa sorta di causa (dunque il criterio di avere scienza di una cosa è il mandarla ad effetto), e che il pruovare dalla causa sia il farla; e questo essere assolutamente vero, perché si converte col fatto, e la cognizione di esso e la operazione è una cosa istessa. Questo criterio è in me assicurato dalla scienza di Dio, che è fonte e regola d’ogni vero (cap. 1, \ 1, p. 131 sg.); e questo criterio mi assicura che le scienze umane sono unicamente le matematiche (cap. 1, § 1, p. 132), e che esse unicamente pruovano dalle cause: e oltre a ciò mi dá la distinzione delle altre, che sono notizie non scientifiche, ma o certe per via di segni indubbitati, o probabili per forza di buoni raziocini, o verisimili per la condotta di conghietture potenti. Volete insegnarmi una veritá scientifica? assegnatemi la cagione che tutta si contenga dentro di me, si che io mi intenda a mio modo un nome, mi stabilisca un assioma del rapporto che io faccia di due o piú idee di cose astratte, e in conseguenza dentro di me contenute; partiamoci da un finto indivisibile, fermiamoci in uno immaginato infinito, e voi mi potrete dire: — Fa’ del proposto teorema una dimostrazione, — che tanto è a dire quanto: — Fa’ vero ciò che tu vuoi conoscere; — ed io, in conoscere il vero che mi avete proposto, il farò, talché non mi resta in conto alcuno da dubbitarne, perché io stesso l’ho fatto. Il criterio della «chiara e distinta percezione» non mi assicura della cognizion scientifica, perché usato nelle fisiche e nelle agibili cose, non mi dá una veritá dell’istessa forza che mi dá nelle matematiche. Il criterio del far ciò che si conosce me ne dá la differenza; perché nelle matematiche conosco il vero col farlo: nelle fisiche e nelle altre va la cosa altrimenti. Ma i cartesiani dicono: egualmente con chiara e distinta percezione conoscere essi che «ove sieno tre misure, ivi sia corpo», come conoscono «il tutto esser maggior della parte». Domando: perché da questo assioma matematico nasce una scienza nella quale tutti convengono, e da quello fisico nasce una diffinizione che gli epicurei, per difendere il lor vano, la ci combattono? Questa sorta di confutare non è biasimare l’analisi di [p. 259 modifica]

Renato, ma piú tosto farle giustizia; e cosi l’appruovo nella ragione che ha, la disappruovo in quella che si vuole usurpare. Mi opponete (p. 226) altresi «che non trovate né pur vocaboli negli antichi autori, che Zenone e gli stoici insegnassero i miei punti metafisici». Confesso in veritá che, datamene l’occasione di meditargli dalla significazione delle due voci «punctum» e «mcmentum» (cap. iv, \ il, p. 153), io rivolsi il pensiero a Zenone. Perché ho sempre stimato che, siccome l’appoggiarsi tutto all’autoritá è camminare da cieco in filosofia, e fidarsi tutto al proprio giudizio è un andarvi senza nessuna scorta; cosi l’autoritá debba farci considerati a investigare le cagioni che mai potessero gli autori, e massimamente gravissimi, indurre a questo o quello opinare. Io avea, come tutti hanno, in grande stima quel filosofo, e particolarmente nelle cose di metafisica: dall’altro canto considerava la sua sentenza de’ punti, come Aristotile la ci rapporta, troppo improbabile: che ’l corpo consti di punti geometrici, che è tanto dire quanto una cosa reale comporsi di cose astratte. Quindi mi diedi seriamente a meditare quali ragioni mai potessero far probabile cotal sentenza. Di Grecia mi ricevetti di nuovo in Italia a Pitagora, che stimava le cose costar di numeri, che in un certo modo sono delle linee piú astratti. Quindi, riflettendo al grandissimo credito, che ebbero di sapere questi due principi di filosofiche sètte; e con la loro autoritá e con gli significati delle voci «punctum» e «momenlum» mettendo insieme quel che ora aggiungo, che da’ latini diceasi «vis» ciò che noi diciam «quantitá», e l’«essenza», che noi dicemo, essi con le voci «vis» e «potestas» (cap. iv, l 1, p. 151) spiegavano; e aggiungendovi la comun de’ filosofi, che pongono l’essenze in cosa indivisibile ed immutabile; e fermando tutte queste riflessioni sopra quello che per l’istessa via giá sui principi avea meditato (cap. 1, g 1), che talmente l’uomo opera nel mondo delle astrazioni come Iddio nel mondo delle cose reali : ne dedussi da tutto ciò in conseguenza che l’unica ipotesi, per la quale dalla metafisica nella fisica discender giammai si possa, sieno le matematiche; e che il punto [p. 260 modifica]

geometrico sia una simiglianza del metafisico, cioè della sostanza; e che ella sia cosa che veramente è, ed è indivisibile; che ci dá e sostiene distesi ineguali con egual forza: perché, per le dimostrazioni del Galileo ed altre piene di maraviglia, le disuguaglianze quanto si vogliono grandi, ritirandoci al lor principio indivisibile, cioè a’ punti, tutte si perdono e si confondono. E cosi l’essenze delle cose tutte sono particolari divise virtú eterne di Dio, che i romani dissero «dii immortali»; le quali prese tutte insieme atto, intendeino e veneramo un solo Dio, potente il tutto. Se avessi voluto seguire la sola autoritá, avrei dato negli alterati rapporti che fa Aristotile della sentenza di Zenone; se avessi voluto seguire il solo proprio giudizio, l’avrei trascurata con tutti gli altri. Voi or desiderate autori di questo sentimento che do a Zenone. Io vi do il medesimo non alterato da Aristotile, non improbabile, come giace, ma vendicato da’ sinistri sentimenti altrui ed assistito dalla ragione. Che se finalmente non volete ricevere questa sentenza come di Zenone, mi dispiace di darla vi come mia; ma pur la vi darò sola e non assistita da nomi grandi. Desiderate poi (p. 226) piú di spiegazione e di pruova che i punti e’ non s’intendano delle parti in che si può dividere il continuo o la sostanza estesa, in quanto estesa ella è, ma... della sostanza del corpo, presa nel suo concetto metafisico, nel quale «consista in indivisibili», e «non suscipit magis et minus», conforme le maniere del favellare scolastico. A me non mai cadde in pensiero che la sostanza del corpo dividasi, ma ch’ella è il principio nel quale le cose distese, quantunque disuguali, dividendosi, con ugual camino ritornano (cap. iv, \ 11), come per lo piú lungo ragionamento di quel libretto mi studio far chiaro. Ma a voi questo termine di «punti» sembra (p. 226) non spiegato, non definito ed oscuro. Io gli diffinisco, per tutto quel ragionamento, una tal cosa indivisibile, che, sotto a cose realmente distese ineguali, stavvi [p. 261 modifica]

sotto egualmente, della quale il punto geometrico assolutamente può darne una simiglianza. Vorreste nel definirla idee proprie, non simili. Ma la metafisica non ci permette di mirar le sue cose altrimente. Perciò dunque è oscura:’ Anzi perciò ella è chiara quanto la luce (cap. in, p. 150): «Ad hoc instai metaphysicum veruni illustre est, nullo fine concluditur, nulla forma discerni tur; quia est infinitum omnium formar uni principium: phvsica suiti opaca, nempe formata et finita, iti quibus metaphysici veri lumen videmus». Il mezzo proporzionato per mirare nelle fisiche cose la metafisica luce sono le sole matematiche, che da cose formate e finite, dal corpo disteso astraggono l’infinito, l’informe, il punto, e ’1 si fingono indivisibile e che non ha estensione alcuna, e dal punto cosi definito procedono a fare le loro veritá. Diciamla con vostri termini. «Questo termine non definito involge tutto quel trattato in tenebre, per cosi dire, palpabili». Con questa giunta però: a certi cartesiani, che con l’aspetto di fisici guardano le metafisiche cose, per atti e forme finite, cioè non credono esser luce se non dove ella riflette: vizio per diametro opposto a quello degli aristotelici, che guardano le cose fisiche con aspetto di metafisici, per potenze e virtú, e cosi credono esser luce quelle cose che sono opache. Noi ci sforziamo guardarle con giusti aspetti, le fisiche per atti, le metafisiche per virtú (cap. iv, \ 11, p. 1 .q8). «Non vidit haec Aristo teles, quia metaphysicam recto in physicam intuiit: quare de rebus physicis metap/iysico genere disserit per virtutes et facultates. Non vidit Renatus, quia recta physicam in metaphysicam extulit, et de rebus metaphysicis physico genere cogitai, per acfus et formas. Utrumque vício vertendum». Noi ci abbiam frapposto la geometria, che è l’unica ipotesi per la quale dalla metafisica in fisica si discende. Però mi replicate (p. 226j: i! raffinato buon gusto del secolo ha sbandito questi vocaboli di «virtú», di «potenze» e di «atti»; e cosi li reputa mal intelligibili, come quelli di «simpatie», «antipatie» e «qualitadi occulte». Questa è invero una grande opposizione, ed è grande, perché opposizione non è; perché, ritirandosi gli avversari al [p. 262 modifica]

tribunale del proprio giudizio, con quel dire: — Di cotesto, che tu dici, non ho idea, — di avversari divengono giudici. Ma diano essi nella diffinizione della sostanza cosa migliore, e poi dicano «mal intelligibili» queste voci «potenze» ed «atti». Essi definiscono la sostanza «cosa che è», «cosa che esiste». Però io feci vedere nella Risposta (p. 220) quanto cotal diffinizione sia sconcia e contraria a se stessa: confondere ciò che è con ciò che esiste, cioè l’essere e Tesserci, ciò che sta sotto e sostiene con ciò che sovrasta e s’appoggia, la sostanza con l’attributo, e finalmente l’essenza con l’esistenza. Di che poi nascono quelli cotanto impropri parlari: «Ego suiti», «Deus existit», che «io sono» e «Dio ci è»; quando Iddio propriamente è, ed io sono propriamente in Dio: che, con molta proprietá di vocaboli, le scuole dicono «Dio essere sostanza per essenza, le cose create esserlo per participazione». M’insegnino poi da qual altra metafisica bassi il criterio, per lo quale nelle veritá geometriche tutti uniformemente convengono, poiché non può darcelo la «chiara e distinta percezione»; perché, usandola essi in fisica, per quella la conoscenza delle naturali cose non sono divenute punto piú scientifiche. Mi spieghino pure con qual chiara e distinta idea concepiscono essi la linea costar di punti, che non han parti; e, quando non possono sopportare questa indivisibile virtú nelle cose reali, s’inducono uniformemente a ricevere il punto imparabile, e non piú tosto definirlo «minimo divisibile in infinito»? Ma il punto diffinito imparabile ci dá quelle maraviglie dimostrate: che grandezze e moti incommensurabili, ritornando a’ principi, cioè a’ punti, uguagliano ogni dissuguaglianza. E finalmente avrei voluto essere addottrinato in quel «granello di arena», che io dissi nella Risposta (p. 218): cosa sia quella che, dividendolo, ci dá e ci sostiene un’infinita estensione e grandezza; se questa grandezza vi sia in atto, e ’l granello di arena sia attualmente infinito, o in sostanza e in virtú, per la quale risponda ad ogni quanto si voglia massima estensione. Era d’uopo prima dileguare queste cose, e farleini vedere che son nebbie; e poi sarebbe stato ragionevole il dire: «il raffinato buon gusto del secolo», ecc. [p. 263 modifica]

Ma, lasciando il secolo, cioè i cartesiani filosofi di questo secolo, ritorno a voi : e sia con buona vostra licenza lecito dirlo, che, in replicarmi cotesto, non mi fate ragione. Io mi servo de’ vocaboli di «virtú» e di «potenze» appunto come se ne servono i meccanici, appo i quali sono voci celebratissime: con questo però di vario, ch’essi l’attaccano a’ corpi particolari, ed io dico esser dote propria e sola dell’universo. Io nella Risposici (p. 221) didimi la virtú: «lo sforzo del tutto, col quale manda fuori e sostiene ogni cosa particolare». E questo istesso. seguendo il buon gusto raffinato del secolo; perché parmi tanto dare conato a’ corpi, quanto alle insensate cose talento, appetito e voglia. Onde dissi apertissimamente (cap. iv, g in, p. 161): «Iam enim meliorum virtute physicorum illud disserendi genus per ’ studia ’ et aversiones naturae \ per ’ arcana eiusdem Consilia quas ’ qualitates occullas ’ vocant, iam, inquam, sunt e physicis scholis eliminata. Supe)est adhnc ex metaphvsica id ” conatus ’ vocabulum. Oliare quo disserendi genus de rebus physicis omnino perficialur, e physicorum scholis est ad metaphysicos amandandurn». Perché poi il conato sia uno nel tutto, e in conseguenza in tutti i disuguali movimenti sempre eguale a se stesso, i cartesiani medesimi il dovrebbero, in conseguenza de’ loro principi, raccòrrò. Essi ricevono con gli aristotelici la divisione del corpo in parti divisibili in infinito, nel che noi anche con esso lor conveniamo: perché Aristotile sconvien da Zenone in cose diverse, convien nel medesimo: egli divide in infinito l’estensione, l’attributo; Zenone dice indivisibile la sostanza, l’essenza (cap. iv, \ 11, pag. 155). «Itaquc miái videtur de alio Aristoteles cum Zenone contendere, in idem autem convenire. Nani ille de ac tu [cioè dell’attributo], áie loquitur de virtute [cioè della sostanza!». Riceveranno adunque la medesima divisione nel moto ; perché, data una bilancia equilibrata, onde pendano quanti si vogliano pesi uguali; s’aggiunga da una parte un granello: domando: se tutto o parte di quello lo faccia sbilanciare? Non dirá alcuno certamente tutto il granello, perché io il dividerò, e, con una parte forse, la bilancia anche sbilancerá. Torno a domandare [p. 264 modifica]

della metá, se tutta o parte di quella; e cosi, domandando io il medesimo delle altre parti minori, e tuttavia minori, con la divisione, li menerò all’infinito. Dunque il principio di cotal moto, che diciamo «sbilanciamento». hassi a ritrovare nell’universo. Ma il tutto, or soggiungo, egli è pieno. Dunque quello, che è moto ne’ corpi particolari, nell’universo moto non è, perché l’universo non ha con chi altro possa mutar vicinanza, in che essi pongono l’essenza del moto. Dunque è una forza che fa dentro di se medesimo; questo in se stesso sforzarsi è uno in se stesso convertersi. Ciò non può essere del corpo, perché avrebbe ciascuna parte del corpo a rivoltarsi contro di se medesima (>); onde questo sarebbe tanto, quanto le parti del corpo si replicassero. Dunque, dico io, il conato non è del corpo, ma dell’universo del corpo. Questa metafisica schiva quel duro scoglio della «comunicazione de’ moti», che è molto piu indiffinito, oscuro e impercettibile che le «qualitadi occulte», le «simpatie», l’«antipatie». Perché le «qualitadi occulte» sono nomi onesti dell’ignoranza delle cagioni; le «simpatie» l’«antipatie» si fingono da’poeti, che danno alle cose insensate senso e volere: ma la «comunicazione de’ moti», involgendo cose affatto ripugnanti tra loro, come impossibile, incredibile, né meno può esser materia di favola: che lasci il corpo ciò che non può star senza il corpo, e che passi da corpo a corpo ciò che non è altro in sostanza che corpo e corpo. Nella percossa, per esempio, è in moto la mano che percuote; è in moto la palla che par quieta, per quello ne ragionammo (cap. iv, \ vi, p. 166) non darsi quiete in natura; è in moto l’aere, che circonda e la palla e la mano, ed è lo spazio che tra la mano e la palla si frappone; è in moto l’aria allo spazio vicina, e l’altra vicino a questa infino all’universo. Al moto della mano dunque, perché egli è pieno, risentesi l’universo; e si il moto di ciascheduna parte diviene sforzo del tutto : lo sforzo (1) Questa pruova è di Proclo matematico, che esso tiene a luogo di dimostra /ione nella sua Teologia platonica dimostrata. [p. 265 modifica]

del tutto è in ciascheduna sua parte indefinito. Dunque la percossa non serve ad altro che di occasione che lo sforzo dell’universo, il quale era si debole nella palla, che sembrava star queta, alla percossa si spieghi piú. e, piu spiegandosi, ci dia apparenza di piú sensibile moto. Ed è tanto lungi dal vero che questa metafisica sconvenga al buon gusto della nostra etá, che ora nelle matematiche, e in conseguenza nelle meccaniche, si parla con termini d’infiniti «massimi», •* minimi», «maggiori», «minori», «maggiori e maggiori», «minori e minori», e «l’uno infinitamente maggiore o minore dell’altro»: li quali termini stravolgono certamente l’umano intendimento, poiché l’infinito è schivo d’ogni multiplicazione e comparazione, se non ci soccorre una metafisica, nella quale sia stabilito che in ogni parte distesa, atto finito, in ogni moto, atto terminato, siavi sotto virtú o potenza di estensione e di moto sempre uguale a se stessa, cioè, in tutti gli attuali distesi ed attuali movimenti, infinita. È dunque il conato proprietá della materia de’corpi: della materia, dico, metafisica, che è la sostanza, non della materia fisica, che è esso corpo, del quale è proprio il muoversi. La qual differenza di materia fisica da metafisica fu da me data ove scrissi (cap. n, p. 146): «Atque hoc dijjert inter materiam physn am et melaphysicam. Phvsica materia ideo quamlibet formam peculi arem educai, e ucit optimum; quia qua via educit, ea ex omnibus una erat. Materia autem metaphysica, quia pecuhares formae omnes sunt imperfectae, genere ipso, sive idea, continent optimam». Talché la materia fisica è ottima a ricevere di tutte una forma particolare; la metafisica è ottima a riceverle tutte insieme: perché la materia fisica è il corpo, che è circonscritto ; la metafisica è la sostanza del corpo, che non la puoi diffinire. E perciò per la generazion d’una pianta, per esempio, non basta ogni acqua, ogni aria, ogni terreno; onde sotto diversi cieli diverse sorte se ne producono, che, traspiantate, non allignano altrove. Ma la materia metafisica è docile ad egualmente ricever tutte; perché la sostanza sta sotto a tutte ugualmente, perché lo sforzo in mandarle fuora e sostenerle è in [p. 266 modifica]

tutte eguale. Onde s’inferisce che, si come in fisica si trattano le cose per termini di «corpo» e di «moto», in metafisica trattar si debbano per quelli di «sostanza» e di «conato»; e, come il moto non è altro realmente che corpo, cosi il conato altro realmente non sia che sostanza. Dalle quali cose tutte, cosi considerate, vedrete soddisfatto, io spero, tutto quel gruppo di opposizioni che mi fate intorno al «conato» (p. 227), le quali tutte dipendono da quella prima minore: «Ma il conato, conforme insegna il nostro autore, è lo stesso moto», la qual si che sembra aver bisogno di pruova. Vagliami terminar questa disputa con questa riflessione. Il raffinato buon gusto del secolo resta oggi tutto appagato, se vede gli effetti della fisica pruovati con gli effetti della meccanica, cioè con esperimenti che ci diano lavori simili a quelli della natura. Dunque dovrebbe anche appagarsi, se vedrá pruovate le cagioni della fisica con le cagioni della geometria, che nel mondo delle astrazioni operano similmente che la metafisica nel mondo delle realitadi. E riceva la sostanza diffinita in quella maniera che si può, con l’attributo dimostrato dell’uguaglianza de’suoi sostentamenti e sforzi; onde s’intenda quel Iupiter omnibus aequus ; poiché Tuniche conoscenze scientifiche, che possiamo aver giammai, sono quelle intorno a’ rapporti di grandezza e di moltitudine. Talché la prima idea che i filosofi hanno di Dio, dalla quale poi raccogliono tutti i suoi divini attributi, è quella d’infinito, che è un rapporto della grandezza. Ma voi dite (p. 227) che «tal concetto, ch’io do alla sostanza, convenendo altresí alle sostanze spirituali e pensanti, se ne potrebbe dedurre che queste ancora siano principio di estensione e di moto; il che per altro è un manifesto assurdo». Questa difficultá, come quelle che fate dell’immortalitá dell’anima, dove par che premete la mano con ben sette argomenti, se non mi fusser fatte da voi, io giudicherei che andassero piú altamente a penetrare in parte, la quale, quantunque si protegga e sostenga con la vita e coi costumi, pure s’offende con [p. 267 modifica]

l’istessa difesa. Ma trattiamo le cose. «Sostanza in genere * dico esser ciò che sta sotto e sostiene le cose, indivisibile in sé, divisa nelle cose che ella sostiene; e sotto le divise cose, quantunque disuguali, vi sta egualmente. Dividiamola nelle sue spezie. «Sostanza distesa* è quella che sostiene estensioni disuguali egualmente; «sostanza cogitante» è quella che sostiene pensieri disuguali egualmente; e, si come una parte dell’estensione è divisa dall’altra, ma indivisa nella sostanza del corpo, cosi una parte della cogitazione, cioè a dire un pensiero, è divisa dall’altra, cioè da altro pensiero, ed è indivisa nella sostanza dell’anima. Credo, se non erro, essersi schivato ogni assurdo. Passiamo ora a quelle dell’immortalitá dell’anima umana. Credettero gli antichi l’«animo» esser veicolo del senso, ed esser l’aria insinuata ne’ nervi; come l’«anima» veicolo della vita, ed esser l’aria insinuata nel sangue. Però non ho creduto giammai che in ciò la gentile teologia servisse alla cristiana. Ma io nella Risposta (p. 221) definiva la forma metafisica: «guisa onde ciascuna cosa si forma, che si ha a ripetere onde furono mossi gli elementi da prima e da tutte le parti dell’universo». Dissi altrove (cap. 1, \ 1, p. 132) che ’l sapere vero è sapere la guisa: «Se ire enim est tenere gcnus seti formam, qua res fiat». E nel medesimo luogo diedi cotal differenza tra’l vero divino ed umano, che «veruni divinimi est imago rerum solida, lamquam plasma; humanum... plana, tamquam pictura». E la ragione è spiegata ivi: «Scientia sii cogniiio generis, seu modi, quo res fiat, et qua, dum rnens cognoscit modum, quia elemento componit, rem faciat; solidam Deus quia comprehcndit omnia, planavi homo quia compre hendit exlima». Onde la mente umana viene ad essere come uno specchio della mente di Dio: e perciò pensa l’infinito ed eterno, e quindi la mente umana non è terminata da corpo, e in conseguenza non è anche terminata da tempo, che è misurato da’ corpi. Dunque ella è, in ultima conchiusione, immortale. Se non avessi posto quelle definizioni della guisa e della scienza e quella differenza del vero umano e divino che ho detto, avrebbero luogo quelle vostre ben sette difficultá. [p. 268 modifica]

Ma quivi (p. 231) a torto (con buona vostra pace sia detto) mi accusate d’ingiustizia, perché io dissi nella Risposta aver io scritto che ’1 moto del sangue si debba a’ nervi, e voi aver riferito il contrario. Perché manca nel rapporto quella spiegazione che fate or nella Replica («e chi? l’aria stessa di lá, cioè dall’arterie e dalle vene»): oltre che, con dire «di lá ne’ canali de’ nervi», sembra negarsi che prima siasi il moto dell’aria ne’ canali de’nervi insinuato; e ragionevolmente poteva alcun credere che, essendo nel cuore vasi e sanguigni e nervosi, l’aria non ne’ nervosi, da’ quali son mossi i muscoli de’ suoi ventricoli, che sono le chiavi maggiori del sangue, ma ne’ canali del sangue siasi prima di tutti insinuato. E, quantunque addolcite la puntura del mal costume con quelle parole: «Certamente pare che ’l signor di Vico commetta contro di noi quell’ingiustizia che riferisce l’autore dell’Arte del pensare essere stato solito commettere Aristotile contro certi filosofi, a cui egli a torto attribuiva qualche grosso errore, per poi mostrare d’averli gagliardamente confutati»; io però mi contento del mio poco sapere ingenuo che esser comparato di mal costume ad un gran filosofo. L’ultima delle vostre opposizioni (p. 228) sia quella che fate contro ciò che ho ragionato della topica, critica e metodo. Prima dite che io suppongo esservi apprensioni false: «e forse ciò è una falsitá, una gran parte de’ filosofi insegnando che le apprensioni essenzialmente sian vere, come ancora il sono tutte le sensazioni». Io non mai ho inteso dire false le apprensioni nell’esser loro: perché i sensi, anche allorquando ingannano, fanno fedelmente l’ufficio loro; ed ogni idea, quantunque falsa, porta seco qualche realtá, essendo il falso, perché nulla, impercettibile. Ma le ho dette false, in quanto sono urti e spinte al precipizio della mente in giudizi falsi. Dite che «la topica è arte di ritruovare ragioni e argomenti per pruovar che che sia; né mai infino ad ora aver veduto topica veruna, che diaci regole di ben regolare e dirigere le semplici apprensioni delle nostre menti». lo pur diffinisco cosi la topica; ma «argomento», in quest’arte, non suona «disposizione di una pruova», come volgarmente [p. 269 modifica]

si prende e da’ latini «argumenlatio» si appella ; ma s’intende quella terza idea, che si ritrova per unire insieme le due della questione proposta, che nelle scuole dicesi «mezzo termine»; talché ella è un’arte di ritruovare il mezzo termine. Ma dico di piú: che questa è l’arte di apprender vero, perché è l’arte di vedere per tutti i luoghi topici nella cosa proposta quanto mai ci è per Tarlaci distinguer bene ed averne adeguato concetto; perché la falsitá de’ giudizi non altronde proviene che perché l’idee ci rappresentano piú o meno di quello che sono le cose; del che non possiamo star certi, se non avremo raggirata la cosa per tutte le questioni proprie che se ne possano giammai proporre. Che è la via che tien 1 ’Herberto nella sua Ricerca delta veritá, che veramente altro non è che una topica trasportata agli usi de’ fisici sperimentali. Dite: «Critica esser arte che insegna come abbiasi a giudicare dell’opere prodotte si da’ nostri ingegni, si dagli altrui: ma che quella sia arte direttrice di quell’operazione del nostro intelletto, la quale tiene il secondo luogo e comunemente chiamasi ’giudizio’, non ancora noi sappiamo». L’arte altro non è che un ammasso di precetti ad un certo fine ordinati : vorrei sapere la comprensione di tutte quelle regole, che si prescrivono in logica circa il criterio della veritá, con qual altro vocabolo, se si vuole propriamente parlare, può appellarsi che «critica»? Non certamente con altro, ci risponderá un che professa di greco. Ed è tanto vero che quest’arte di giudicare è una gran parte della logica, che gli stoici, i quali stavano tutti sopra di questa, con quel loro fasto, la chiamarono «dialettica» col nome del tutto. Cosi ne ragiona Cicerone ( 0 : «Cum otnnis ratio diligens disserendi [questa è la logica] duas habeat partes , imam inveniendi, alteram iudicandi, utriusque princeps, ut tnihi quidem vide tur, Aris tot’de s fuit. Stoici autem in altera elaboraverunt. Iudicandi enitn vias diligenter persecuti sunt, ea scientia, quam ’ dialecticen 1 appellant [non detto a caso che gli stoici cosi (1) Topica, 2, 6. [p. 270 modifica]

l’appellavano, perché la lingua comune la direbbe «critica»]. ’ ’ Inveniendi vero artem, quae topice dici tur, quaeque ad usum poti or erat, et ordine nalurac certe prior [perché prima è rapprendere, poi il giudicare], totam reliquerunt». Ma voi per avventura avete preso la voce «critica» nella significazione de’ grammatici, o vogliam dire letterati, non de’ filosofi, e perciò vi siete indotti a dir ciò. Del metodo finalmente osservate (p. 228 sg.): lui chiamarsi da’ cartesiani «un’arte di ben ordinare e disporre i nostri pensamenti, per poter noi arrivare a una qualche scienza o per insegnarla altrui». Sicché alla medesima scienza conducendoci varie diffinizioni, divisioni, postulati, assiomi e dimostrazioni, non insegna il metodo come abbiamo a ben diffinire, a ben dividere, a ben giudicare, a ben discorrere, essendo ciò proprio dell’altre parti della loica; ma solo insegnaci come abbiamo tutte quelle cose a ordinarle acconciamente e disporre, di modo che facile riesca e comodo l’acquisto della scienza propostaci. Onde conchiudete che l’ordinare è una operazione distinta dalle tre prime; e, dato che sia arte, ella non è «direttrice della facoltá del ragionare e discorrere, ma direttrice della facoltá dell’ordinare e disporre». Qui, o voi intendete per «metodo»1 ’analisi, come sembrano usarla i cartesiani, con la quale da una cosa proposta si dividono le comuni, per venire alla cognizion delle proprie, a fine di conoscerne le proprietá, per poi ben diffinirla; e di questa si servirono bene gli antichi, come Platone nel Sofista , il qual dialogo non è altro che una continua analisi, con la quale Socrate dassi a dividere l’arte, e rimuove tutte le altre sue spezie per diffinir la sofistica. Ma però il dividere e ’l diffinire sono lavori della seconda operazion della nostra mente; e questi sono regolati dalla critica, nella quale, perché con essa hassi a dividere, prevagliono gli uomini d’acre ingegno: si come andar componendo una cosa con tutte le altre che vi hanno attacco o rapporto (che è l’altra spezie di metodo, che s’appella «sintesi», che in fatto è ritrovare) è opera della semplice percezione, che fassi [p. 271 modifica]

regolar dalla topica: la qual via tenne Aristotile, che non scende quasi mai a diffinir cosa, se non prima ha visto quanto in quella o dentro o fuori vi sia. La topica ritruova ed ammassa; la critica daH’ammassato divide e rimuove: e perciò gl’ingegni topici sono piú copiosi e men veri; i critici sono piú veri, ma però asciutti. — O intendete per «metodo» da vero immediatamente far nascer vero: e questa è la famosa regola delle scuole, e l’uso di essa e ’l maggior frutto di quella lor logica, di porre sempre il negato in conseguenza, né mutar mai mezzo termine; e questa è l’arte di regolare i discorsi. Ma voi intendete «metodo» quel che dispone diffinizioni, postulati, assiomi, dimostrazioni. Parliamo con vocaboli propri, per far commercio d’idee distinte. Cotesto, che voi co’ cartesiani dite in genere «metodo», egli è in specie metodo geometrico. Ma il metodo va variando e multiplicandosi secondo la diversitá e multiplicazione delle materie proposte. Regna nelle cause il metodo oratorio, nelle favole il poetico, nelle istorie l’istorico, nelle geometrie il geometrico, nella dialettica il dialettico, che è arte di disporre un argomento. Che se il metodo geometrico è la quarta operazione della nostra mente, o l’orazione, la favola, l’istoria hassi a disporre con metodo geometrico, o le loro disposizioni non hanno a qual operazione della nostra mente ridur si debbano: o se il metodo geometrico è degno di esser quarta operazion della nostra mente, non avendo egli ragione sopra le altre giá dette, pretenderanno l’oratoria esser quinta, la poetica sesta, l’istorica settima, e potranno pretendervi il loro luogo l’ordine dell’architettura, l’ordine di schierare battaglie, e sopra tutti questi, perché comanda a tutti questi, l’ordine col quale s’ordinano le repubbliche; perché tutti questi sono pur ordini di pensare. Però direte: — Noi qui trattiamo di metodo che ci conduca all’acquisto di qualche scienza, e non d’altri.— Ma le percezioni, i giudizi, i discorsi non scientifici pur si riducono alle tre operazioni di nostra mente. Dunque: o il metodo, anche come voi il volete, è operazione della nostra mente, alla quale e gli scientifici e gli non scientifici si riducono; o le percezioni e i [p. 272 modifica]

giudizi e i discorsi non scientifici non sono operazioni della nostra inente. Ma tutte altre materie, fuori che noveri e misure, sono affatto incapaci di metodo geometrico. Cotal metodo non procede se non prima diffiniti i nomi, gli assiomi fermi, e convenuto nelle domande. Però in fisica si hanno a dififinire cose e non nomi; non vi ha placito che non sia contrastato, né puoi domandar nulla dalla ritrosa natura. Talché panni un’affettazion poco degna quel dire in parole: «per la definizion 4», «per lo postulato 2», «per l’assioma 3», e conchiudere con quelle solenni breviature «Q. E. D.»; e in fatti non far niuna forza alla mente col vero, ma lasciarla in tutta la libertá d’opinare, che avea avanti di udire cotali metodi strepitosi. Il metodo geometrico vero opera senza farsi sentire, ed, ove fa strepito, segno è che non opera: appunto come negli assalti l’uom timido grida e non ferisce, l’uomo d’animo fermato tace e fa colpi mortali. Onde un vantatore di metodo, ove il metodo non tragge necessitá di acconsentire, quando egli dice «questo è assioma». «questo è dimostrato», sembrami simile ad un pittore, che ad immagini informi, le quali per sé non si potesser distinguere, scrivesse sotto: «questo è uomo», «questo è satiro», «questo è leone», «questo altra cosa». Ricrediamci: con l’istesso metodo geometrico Proclo dimostra i principi della Fisica d’Aristotile, Renato i suoi, se non tutti opposti, almeno tutti diversi; e pur sono due gran geometri, de’ quali non puossi dire che non seppero usar il metodo. Dunque hassi a conchiudere che le cose, le quali non sono linee o numeri, affatto non lo sopportano; e, trasportatovi, non opra piú che la topica, la qual vale a pruovare una proposta questione da entrambe le parti opposte. Onde quel dirmi «questa è dimostrazione per me» non è altro in fatti che professare non esserla; perché, se veramente la fusse, ella sarebbe per tutti e due. E l’avversario per avventura, che non la ravvisa, come Cicerone (0 riprende il sorite, che in tutto risponde (i) Academic pr., li, 16, 49. [p. 273 modifica]

al metodo cartesiano, cosi può con quelle parole confutarlo:

  • Huc si perveneris, me libi primum quidque concedente, meum

vitium fuerit; sin ipse tua sponte processeris, tuum». Ma io non ti ho conceduto che i corpi si sforzano, o che dassi moto dritto in natura, o che in natura si dá quiete, o che si comunica il moto; che sono le prime fila onde ordisci cotesta fisica tela. Però in questa guisa è badare alle parti. Ma teniamo conto pur della somma. Le filosofie al mondo non han per altro servito che per fare le nazioni, tra le quali fiorissero, mobili, destre, capaci, acute e riflessive, onde gli uomini fossero nell’operare pieghevoli, pronti, magnanimi, ingegnosi e consigliati; le matematiche, perché fossero ordinati, onde avessero il buon gusto del bello, dell’acconcio, del ben inteso. Or la repubblica delle lettere fu cosi da prima fondata, che i filosofi si contentassero del probabile, e si lasciasse a’ matematici trattare il vero. Mentre si conservaron questi ordini al mondo, del quale avemo notizia, diede la Grecia tutti i principi delle scienze e delle arti, e quei felicissimi secoli furono ricchi d’inimitabili repubbliche, imprese, lavori e detti e fatti grandi; e godè l’umana societá, da’greci incivilita, tutti i commodi e tutti i piaceri della vita sopra de’ barbari. Sorse la setta stoica, e, ambiziosa, volle confonder gli ordini e occupare il luogo de’ matematici con quel fastoso placito: «Sapienlem nihil opinan»; e la repubblica non fruttò alcuna altra cosa migliore. Anzi nacque un ordine tutto opposto, degli scettici, inutilissimi all’umana societá; e n’ebbero dagli stoici lo scandalo, perché quelli, vedendo questi asseverare per vere le cose dubbie, si misero a dubitare di tutto. La repubblica, spenta da’ barbari, dopo lunghi secoli, sugli stessi ordini si rimise, che ’l censo de’ filosofi fosse il probabile, de’ matematici il vero: e si restituirono quasi tutte le arti e le discipline dell’onesto, del commodo e del piacere umano nell’antico loro perduto lustro, e in molte parti forse anche maggiore. Si sono ultimamente di nuovo sconvolti gli ordini, e si è occupato dal probabile il luogo del vero: si è invilito questo nome «dimostrazione», trasportandosi ad ogni ragione, non che [p. 274 modifica]

probabile, bene spesso apparente; e, come egli avvenne de’ titoli, che quel di «signore». che fu rifiutato come troppo superbo, da Tiberio, usandosi poi dare ad ogni vilissimo uomo, ci ha fatto perdere la grave idea di cotal voce; cosi il vocabolo «dimostrazione», dato a probabili e talora apertamente false ragioni, hacci profanato la venerazion della veritá. Or vediamo gli avanzi, senza computar i gran danni che arreca, e che molto maggiori ha di brieve ad arrecare il senso proprio fatto regolatore del vero, che non si leggono o radi si leggono gli antichi filosofi: perché la mente è come un terreno, che, per quanto sia di fecondo ingegno, se tuttavia non s’ingrassa con la varia lettura, a capo di tempo si sterilisce. E, se talora alcuno se ne legge, si legge tradotto, perché si stimano oggi inutili gli studi delle lingue, sull’autoritá di Renato, che dicea: «saper di latino non è saper piú di quello sapea la fante di Cicerone»; e, l’istesso intendendosi anche detto della greca, la cultura di queste due lingue ha fatto perdite considerabili, che amaramente deplora, con tutto che francese, il Dupino; perché le due nazioni, una la piú dotta, l’altra la piú grande del mondo, solamente con la lezione de’ loro scrittori ci potevano comunicare il loro spirito. Si pensano, si, nuovi metodi, ma non si trovano nuove cose; ma bensí queste si prendono dagli sperimentali e s’apparecchiano in nuovi metodi : perché il metodo è buono a ritrovare. ove tu possi disporre gli elementi col metodo; lo che riesce unicamente nelle matematiche, e nelle fisiche ci viene negato. Ma, quel che piú importa, si è introdotto uno scetticismo inorpellato di veritá, perché d’ogni particolar cosa si fan sistemi, che vuol dire che non vi ha cosa commune in che si convenga e dalla quale le particolari cose dipendano; ed avviene quel vizio, che Aristotile b) nota negli uomini di mente corta, che d’ogni particolar evento determinano massime generali di vita. Si dee certamente obbligazione a Renato, che volle il proprio sentimento regola del vero, perché era servitú troppo vile star (l) Rhet.,». il [1395 b, 2-10]. [p. 275 modifica]

tutto sopra l’autoritá; gli si dee obbligazione che volle l’ordine nel pensare, perché giá si pensava troppo disordinatamente con quelli tanti e tanto sciolti tra loro «obiicies primo», «obiicies secundo». Ma che non regni altro che’l proprio giudizio, non si disponga che con metodo geometrico, questo è pur troppo. Ormai sarebbe tempo da questi estremi ridursi al mezzo: seguire il proprio giudizio, ma con qualche riguardo all’autoritá; usare l’ordine, ma qual sopportan le cose. Altrimente, s’avvedranno, tardi però, che Renato egli ha fatto quel che sempre han soluto coloro che si son fatti tiranni, i quali son cresciuti in credito col parteggiare la libertá; ma, poiché si sono assicurati nella potenza, sono divenuti tiranni piú gravi di quei che oppressero. Imperocché egli ha fatto trascurare la lezione degli altri filosofi, col professare che con la forza del lume naturale uom possa sapere quanto altri seppero. E i giovani semplicetti volentieri cadono nell’inganno, perché la lunga fatica di moltissima lezione è molesta, ed è grande il piacer della mente d’apparar molto in brieve. Ma esso infatti, benché ’l dissimuli con grandissima arte in parole, fu versatissimo in ogni sorta di filosofie, matematico al mondo celebratissimo, nascosto in una ritiratissima vita, e, quel che piú importa, di mente che non ogni secolo suol darne una simigliante. Co’ quali requisiti, che uom voglia seguire il proprio giudizio, il può, né altro ha ragion di poterlo. Leggano quanto Cartesio lesse Platone, Aristotile, Epicuro, santo Agostino, Bacone da Verulamio, Galileo; meditino quanto Cartesio in quelle sue lunghissime ritirate; e ’l mondo avrá filosofi di ugual valore a Cartesio. Ma, col Cartesio e con la forza del naturai lume, sempre saranno di lui minori; e Renato avrassi stabilito tra loro il regno, e preso il frutto di quel consiglio di rea politica, che è di spegnere affatto coloro per li quali si è giunto al sommo della potenza. E qui protesto aver detto queste cose un poco piú chiara e diffusamente, comandato da voi a spiegarmi e da voi ripreso di brevitá, perché non volli mai dispiacere a’ dottissimi cartesiani, co’ quali ho stretti vincoli d’amicizia. Ma, perché essi sono oltre Cartesio dottissimi, il devono prendere in quella parte piú tosto, che, per [p. 276 modifica]

utile del inondo, propongo essi in essempio a’ giovani, che vogliono divenire valorosi filosofi. Vagliami conchiudere finalmente con una risposta, la quale serva per tutte le vostre opposizioni : che quanto mi avete opposto, egli l’avete fatto in grazia de’ giovani che si dilettano di si fatti studi; e, prendendo la loro causa e persona all’uso degli oratori, che dicono esser loro ragione quella che è in veritá de’ clienti, coteste difficultá, che poteano far essi, e potevate voi di tutte soddisfargli, avete voi fatto contro di me, acciocché il libro, che innanzi scrissi per dotti, come per voi, ora servisse anche per essi. M’inducono e l’onorevolezza loro mi lusingano a crederlo quelle vostre parole (p. 237): E qui siaci lecito di protestare che tutte le sopradette cose non adduconsi da noi per genio di volerle contradire e impugnar come false, o almeno come improbabili; ma solo intendesi di semplicemente accennarle come bisognose di qualche sorta di spiegazione e di pruova. Che se ’l signor Giambatista di Vico, in cui abbiam sempre consideratola gentilezza uguale alla dottrina, vorrá riguardare questa nostra Replica come degna di qualche novella Risposta, allora noi, unendo insieme, come in un sol corpo, e ’1 suo primo libricciuolo di Metafisica, e ’l secondo libricciuolo della sua Risposta, e ciò che noi avrem detto nel presente articolo e ciò che a lui sará paruto di rispondere a noi: allora, io dico, ci riputeremo d’avere ottenuto il nostro intento, cioè di tutte quest’opere insieme essersi composta, non piú una brevissima idea di metafisica, ma una metafisica intiera e in tutte le sue parti perfetta. Talché io voglio, e devo volerlo, che ’l mondo creda, con questa Risposta me non contender con esso voi, ma avervi ubbidito. Ed, ossequiando tutte le Loro Signorie illustrissime, fo loro umilissima riverenza.