Poesie patriottiche/Al lettore

Al lettore

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Poesie patriottiche L'Illuminazione degli Apennini

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AL LETTORE


Nei primi entusiasmi patriottici della rivoluzione del quarantotto, Giuseppe Giusti soleva dire, scrivendo agli amici, che non erano più quelli i tempi di satira, perchè le campane non suonavano più a morto. Le fervide gioie del riscatto imminente, la guerra che si stava per intimare all’Austria, la santa concordia che pareva stringesse in un abbraccio comune tutte le provincie d’Italia, facea sì che il flagello della satira dovesse riporsi in un cantuccio di casa, e soltanto gl’inni della nazione che domandava libertà e armi dovessero echeggiare nell’aria commossa.

Anche il Giusti, come la più parte de’ contemporanei, sentì l’ebbrezza di quei giorni, [p. vi modifica]quando i cervelli andavano a spasso su per le nuvole, e col cuore e col desiderio si ricacciavano gli stranieri al di là degli ultimi lembi di terra italiana. Ma l’ebbrezza durò poco; i tristi anni succedettero alle baraonde spensierate e giulive; e fattisi più acuti e tormentosi i mali della patria, rimessero fuori il capo i medesimi farabutti di prima; ritornarono a galla le giubbe rivoltate; e gli armeggioni d’ogni risma e colore, e i furfanti matricolati, e i Girella, i Gingillini e le maschere spadroneggiarono sotto la protezione delle baionette croate.

Se la morte non avesse rapito immaturamente l’immortale poeta, forse i suoi canti migliori, i suoi sdegni più acerbi, le staffilate più solenni sarebbero piovute come gragnuola sulle spalle dei redivivi truffatori d’Italia; e se una stella benigna avesse consentito che quella vita carissima fosse anche oggi serbata come gloria vivente della letteratura civile, vi so dir io, o.lettori, che ne avremmo potute sentir delle belle. La satira politica avrebbe allargato i confini, si sarebbe slanciata in nuovi orizzonti, e come fulmine luminoso avrebbe saettato le codardie di noialtri, che non sap[p. vii modifica]piamo o non vogliamo essere nè carne nè pesce, e almanacchiamo per trovare sempre il bandolo di tenere accesa una candela al diavolo e un cero a san Michele.

Perchè la satira ha questo di buono: che mentre un periodo storico d’un popolo — chè nel popolo ella vive e trova alimento — discende passo passo all’occaso per lasciar posto a nuovi fatti e ad una nuova generazione, ella, la satira, subisce la medesima legge e tramonta: ma tramonta come il sole che dopo un mezzo giro risorge, e come il sole ella rifulge più splendida, più giovane, più rigogliosa.

La satira è in apparenza, fra i diversi generi di letteratura, quella che sente più vive le morsicature del tempo, ma ha nell’intima natura sua questo dolce compenso, che trova facile la via a trasformarsi, a pigliare l’intonazione dei tempi, dei luoghi, delle istituzioni, a farsene prò, diventare una cosa medesima con quella gente in mezzo alla quale deve rotare la sferza. Come il mistico uccello favoleggiato dai poeti, la satira rapisce alle ceneri di sè stessa una scintilla che è la scintilla della vita, e attizzato il fuoco, questo divamperà ben presto in vastissimo incendio. [p. viii modifica]

Coloro i quali, chiuso il faticoso e irrequieto periodo del rinnovamento italiano, vorranno con mente tranquilla studiare le condizioni della letteratura nostra nell’ultimo ventennio, dovranno meravigliarsi assai nel vedere, che l’eredità del toscano satirico non solo non ebbe successori legittimi, ma quasi neppure raccapezzò un esecutore testamentario. E perchè d’ogni fatto si vuol sempre addurre una ragione, anco, quando non se ne infilano che delle spallate, così gli storici nostri dell’avvenire, saliti in cattedra, sentenzieranno a diritto e a rovescio per rendersi conto di questa biasimevole lacuna. E che lacuna ella sia non v’ha dubbio: che meriti anche una qualche dose di biasimo è possibile: ma se in mezzo a tanti fatti grandiosi e ridicoli la satira non risorse, se alla mirabile epopea della nazione non si mischiò l’arguzia sanguinosa che leva la pelle, se ai celebratori degli eroi per davvero non si unirono i beffeggiatori degli eroi da commedia, se mancò l’estetico contrasto degli Ajaci e dei Tersiti, sebbene di questi ultimi non dovesse parere scarsa la messe, bisognerà dire per ciò che l’ingegno nostro s’è ottuso, e che non siamo più tagliati [p. ix modifica]a quel riso che nasconde tante volte una lacrima?

Fra le splendide imprese del nazionale riscatto la parte comica non è certamente mancata: ma le menti nostre, sopraffatte dal rapido giro degli eventi, non ebbero forse il modo e l’opportunità di coglierli a frullo per via, e forse anche taluno dei nostri poeti non si sentì in cuore il santo coraggio di adoperarvi come avrebbe dovuto l’ingegno felicissimo. Comunque sia, il fatto è cotesto, ma nessuno potrebbe affermare sul serio che la satira è oramai morta e seppellita in Italia. Non mancheranno poeti i quali cantino degnamente la risurrezione della patria, ma io ho fede che non mancheranno neppure i vendicatori delle nostre pubbliche e private vergogne, i flagellatori dei vizii, delle viltà, delle apostasie, e gl’irrisori fortunati di tante nostre magagne. Forse la satira ha bisogno di rintracciare una forma nuova di poesia, come ne sentì il prepotente bisogno Giuseppe Giusti; e imbroccata la via e infilato un dirizzone, saprà lampeggiare terribile e tuonar fragorosa. Lasciate tempo al tempo: fate che il paese riposi dalle agitazioni tormentose che lo travagliano, e trove[p. x modifica]remo anche per la satira tanto panno, da potervi sguazzar dentro con le forbici.

Tutte queste idee mi mulinavano nella mente, scartabellando le bozze delle poesie che il presente volume racchiude. Dicevo fra me e me: ecco qui un uomo a cui madre natura concesse il bernoccolo di poeta satirico, che traluce nell’abbondanza della fantasia, nello stile spigliato, nella spontaneità delle arguzie, nell’originalità dei temi che piglia a trattare. Oh perchè dunque ha voluto anche lui fermarsi a mezza strada, e invece di correre difilato alla meta, preferisce di starsene comodamente sdraiato al rezzo degli alberi?

La non è questa di certo una buona raccomandazione per uno scrittore, che lascia agli editori la cura di presentarlo convenevolmente al pubblico. Ma se Arnaldo Fusinato ha deposto la penna, quando appunto la nuova satira politica d’Italia domanda a gran voce il suo poeta, io spero che il pubblico saprà smuoverlo dall’ostinato proposito facendo buon viso a questo volume, e che quella penna temperata a nuovo saprà inneggiare come si deve ai tempi nostri, così fecondi di lacrime e di riso, così pieni di nobili fatti e di guai e di brutture. [p. xi modifica]

Molte, fra le poesie di questo volume, videro la luce nei giorni torbidi delle persecuzioni, quando la parola doveva tradire a mezzo il pensiero, e uscire smozzicata dalle labbra per non ricevere in pagamento o l’esilio o la carcere. Altre invece rampollarono vive e gagliarde dall’audace fantasia, che poteva spaziare e bearsi nel raggio della libertà. Tutte insieme ritessono la storia degli anni che accompagnarono e seguirono le vicende del nostro riscatto miseramente abortito, e sono documento prezioso dei tentativi e dei conati, che una schiera di uomini animosi intraprese, per non dar requie mai alla sospettosa tirannide austriaca che inferociva dapprima nel Lombardo-Veneto, e si restrinse poi più cocciuta e crudele sulla laguna della povera Venezia. Sono poesie edite in gran parte; ma perchè apparvero via via nei giornali fugaci, e la Polizia balorda si adoperava instancabilmente a torle di mezzo come una peste che avvelena ed uccide, così hanno sempre, starei per dire, il prestigio della novità, e servono mirabilmente a lumeggiare quel periodo di storia italiana, che fu anche l’ultimo della dominazione straniera. [p. xii modifica]

Risentono tutte qualcosa dell’atmosfera in cui nacquero: ritraggono con vivaci colori le mal frenate aspirazioni dei popoli, le imbecillità e le sevizie d’un governo che sentiva mancarsi il terreno sotto i piedi, le speranze, i timori, le ansie trepide, le gioie che si pregustano d’un avvenire non più tanto lontano, le impazienze patriottiche, le tenaci battaglie di chi non dimentica e non perdona le offese, l’aborrimento schietto, continuo, implacabile a chi aveva bisogno delle baionette e dei cannoni per tenere in rispetto i sudditi indisciplinati.

Leggendo questo volume, verrà fatto più d’una volta al lettore di riportarsi con la memoria a quegli anni; e in cotesto nobile esempio di un uomo, che non potendo ancora combattere con le armi dei valorosi, punzecchia, tormenta e ferisce con la penna gli esosi oppressori, e riuscite vane le imprese di guerra, e deposta la carabina del volontario ritorna con rinnovata lena e con rinnovellato speranze alla guerra più umana delle lettere, e tira colpi a destra e a sinistra con la satira rovente che lascia le bruciature sulla carne, in cotesto esempio, io [p. xiii modifica]dico, i lettori impareranno a giudicare con equa imparzialità quei tempi della faticosa preparazione. Siamo noi sicuri che al conte di Cavour sarebbe bastato il coraggio di avviare l’arditissima impresa, se lo spettacolo dell’eroica resistenza dei Lombardi e dei Veneti, di quella resistenza passiva che tanto più cuoceva all’Austria quanto meno ella si sentiva atta a sconfiggerla, non lo avesse vigorosamente sospinto? Noi che, per la felicità di casi avventurosi, giungemmo a riunire in un corpo solo le membra della nazione, e ottenemmo in dieci anni un premio che pareva follia lo sperare, noi siamo un po’ troppo ingrati con i modesti ma gloriosi lavoratori di quegli anni che ci precorsero, e un sorriso di compassione ci balugina sulle labbra quando sentiamo rammemorare il quarantotto, quando ci raccontano gli episodii di quelle piccole e moleste guerre a punture di spillo, che dai due centri del focolare rivoluzionario, da Milano e da Venezia, scoppiettavano con ardore incessante. Ma ella è davvero un’ingratitudine solenne, e basta questo solo a provarlo; che senza i nobili insuccessi di quel tempo, senza l’inasprirsi degli sdegni imperiali stuzzicati [p. xiv modifica]giorno per giorno, ora per ora, da chi s’era fitto in capo di non dar mai nè tregua nè riposo, non avremmo potuto far persuasa l’Europa, che la violenza soltanto e la forza brutale potevano mantenere l’occupazione forestiera in Italia.

Ciascheduna poesia del volume ha una noterella nella quale è detta la ragione che mosse il poeta a scriverla, sicchè quelle note diventano un commentario utilissimo, e uno svegliarino opportuno per rimetterci nella memoria gli avvenimenti o adombrati con fina malizia, o spiattellati addirittura nei versi del coraggioso scrittore. Parrà strano talvolta, leggendo le poesie qui raccolte, che tanta abbondanza di schiettissimo riso prorompesse dalla facile vena, mentre la patria gemeva oppressa in catene; ma chi ben guardi, troverà sempre sotto quel riso un’ira magnanima, e fra le arguzie e le barzellette di buona lega tralucerà sempre un mesto e patriottico pensiero. E cotesto è veramente l’ufficio della satira, e il Fusinato dimostra col fatto d’averlo fedelmente compreso. Come nelle poesie di proporzioni più vaste, così anche nelle piccole e in quelle che paiono gingilli, v’ha [p. xv modifica]sempre qualcosa di riposto e di sottinteso che all’attento lettore non può sfuggire, e che scoppia poi in nobilissimo canto quando la lirica piglia il sopravvento sulla satira. Il metro serrato, le immagini concitate, lo stile che manda scintille, e un impeto di giovanile baldanza fanno allora battere il cuore a chi legge, e ci par proprio di vivere in mezzo agl’italiani chiamati alla riscossa, e sentiamo quasi attorno a noi l’eco degli applausi, partecipiamo a quegli entusiasmi, ci sorride e ci risplende sugli occhi il sole della primavera dell’indipendenza italiana.

L’autore dice da sè di quali persecuzioni furono fatti segno i suoi scritti. Ma i sequestri, le multe, le condanne, la soppressione dei giornali sovversivi che osavano pubblicare le poesie di Don Fuso e di Fra Fusina non bastarono a scoraggiare il fecondo poeta. Cacciato da un giornale perchè gli si strozzava in gola improvvisamente la vita, ne fondava un altro con la fida ed eletta schiera degli amici provati, e soppresso anche quello, risorgeva il giornale sott’altro nome. Il governo austriaco, che voleva serbar sempre le apparenze della legalità, si sentiva impotente [p. xvi modifica]contro coloro che gli avevano giurato una guerra di sterminio, e che sapevano così bene combattere col ridicolo. In questo almeno il governo aveva ragione, nel credere che di quella pece rivoluzionaria qualche cosa si attaccava e faceva presa nel popolo.

Nei tempi della servitù, quando gli schiavi non volontari sentono il peso delle catene, e si preparano a sbatacchiarle sul viso ai tiranni, la satira occupa il primo posto nella letteratura nazionale, e non credo perciò appunto d’ingannarmi affermando, che le poesie satiriche o politiche che vogliano dirsi di Arnaldo Fusinato contribuirono assai, con la molla potente del ridicolo, a scalzare di più le fondamenta già corrose della dominazione forestiera. E benchè oramai di quei tempi il giudizio spassionato tocchi unicamente alla storia, non dispiacerà agl’italiani, che godono il frutto maturato dalle fatiche di tanti valentuomini, non dispiacerà di rifare con la fantasia il cammino per dove il poeta li conduce vagando. Ne caveremo ammaestramenti non pochi da potersi anche applicare ai giorni nostri e agli uomini nostri, perchè se le generazioni mutano, non mutano le passioni e [p. xvii modifica]gli affetti; e non tutte le tirannidi si asserragliano per l’appunto dietro un quadrilatero, nè fanno tutte pompa di armi e di armati.

Vi sono tirannidi d’altra specie, e l’Italia non ne va ancora immune. Io mi auguro che Arnaldo Fusinato, tuttora nel fior dell’ingegno, possa ripigliare la sferza, e sia egli un aiutatore gagliardo per cacciar via con sante funate i profanatori dal tempio della libertà.

Se la satira in Italia pare appisolata oggi, ciò non vuol dire che sia bell’e morta, e verrà giorno che saprà pigliare l’abbrivo, e tuonare e fulminare e trafiggere. Rifatevi intanto, o lettori, la bocca con questo volume, e nutriamo fiducia che nella imagine spiccata ch’esso ci offre del passato non inglorioso, s’abbia a trovare il germe per un futuro non lontano di nuove manifestazioni dell’arte.

Firenze, Novembre 1870.

Eugenio Checchi.