L’eroe spartano: -io non ricevo onori,
Che son dovuti solo ai traditori.
Lo scudo orna l’avel: quanto è persiano
Lungi; io scendo a Pluton come Spartano.
3. Del medesimo su Venere armata.
O Ciprigna, tu amica del riso,
Chè ne’ talami effondi il piacere,
Delle guerre chi mai l’armi fiere,
Dolce diva, ti volle indossar?
A te i canti già furon giocondi
Ed Imene, che d’oro ha le chiome.
E i concenti de’ flauti; ma come
Cinger armi omicicide puoi tu?
Forse, dopo d’avere spogliato
Quel feroce tuo Marte guerriero,
Nella mente ti venne il pensiero
Di mostrar quel che Cipride può?
4. Del medesimo su una sposa morta nelle nozze.
Di flauti testè dolce sonava
Di Nicippide il talamo: s’alzava
L’inno tra plausi nuzïali, e morte
Sull’imeneo piombò: ahi! la consorte.
Non donna ancora, estinta fu mirata.
O lagrimevol Pluto, separata
Perchè volesti lei dal propio sposo,
O tu per nozze rapito gioioso?
Un omicida
Giacea dormente
Vicino a putrido
Muro cadente.
A lui Sarapide
N’andò, si dice;—
Dal suolo, dissegli,
Sorgi, infelice,
E al sonno cercati
Asil sicuro.—
Quei desto andossene,
E tosto il muro
Crollò precipite
Tutto in rovina,
Onde quell’empio
Ogni mattina
Offria festevole
Voti agli Dei,
Come se fossero
Propizii a’ rei.
Di nuovo apparvegli
Di notte il Dio
Dicendo: — o misero,
Sappi che s’io
Da morte orribile
T’ho liberato,
Pure alla croce
Tu sei serbato.
6. Del medesimo.
Morire debbono
Tutti gli umani:
Niun sa se in vita
Resti domani.
Perciò rallegrati,
Uomo: il buon vino
Oblio t’induca
Del tuo destino.
T’allieti Venere,
Vivi a giornata;
A Sorte5 ogni altra
Cura sia data6.
Alcone padre da crudel serpente
Stretto il figlio mirò; ei di presente
Con man timida trasse, e il trafiggeva
In bocca, ov’ei sovra il fanciul sorgeva.
L’arco a tal quercia appende ei per tal morte
Di sua destrezza in segno e di sua sorte.
D. Donde lo scultor tuo?
R. Sicionio.
D. Il nome?
R. Lisippo.
D. E tu chi sei?
R. L’occasïone, Che tutto doma.
D. Perchè tu cammini Sulla punta de’ piedi?
R. Io corro sempre.
D. Perchè le piante hai tu doppie ne’ piedi?
R. Io corro sempre celere, qual vento.
D. Perchè un rasoio nella destra porti?
R. Segno ch’io son più ch’ogni taglio acuto.
D. A che la chioma hai tutta in sul davanti?
R. Per Giove, è appiglio a ognun che in me si imbatta.
D. Perchè la chioma nel di dietro hai calva?
R. Chi fa passarmi con gli alati piedi
Nè pur se voglia, giungerammi poi.
D. Perchè ti fece il tuo scultore?
R. Ei volle
Qui sulla soglia del sacrato tempio,
Ospite, pormi a vostro documento.
Io sono Nèmesi 9,
E porto il cubito
Perchè? dirai.
A tutti prèdico: —
Il troppo mai.
15. D’ignoto.
Con le sue labbra tenere
Una fanciulla un bacio un dì mi dava.
Era quel bacio nettare,
Che dalla bocca nettare spirava.
M’ha il bacio inebrïato,
E fiero amor per esso in cor m’è entrato.
16. D’ignoto.
Arma i tuoi dardi, Venere;
Altra mira colpita
Sia da te pure; mancami
Anche il posto a ferita.
17. D’ignoto.
Due mali soffro, povertade e amore;
Facil m’è bene il sopportare il primo.
Ma di Vener non so vincer l’ardore.
Non vo’ chi, sorbiti
Più nappi, vuol liti,
E insano si scaglia
A cruda battaglia;
Ben amo chi in mente
Benigno e prudente
Rallegra il suo core
Tra i carmi e l’amore.
Una corona a te, Rodoclia, invio,
Che di mia mano intessere voll’io.
V’è il giglio, v’è l’anemone, la rosa,
Del narciso la foglia rugiadosa,
E la vïola fosca. Io la formai,
Per te, che la superbia smetterai,
Poichè il mio serto deve sì fiorire,
Siccome te, ma al pari anche appassire.
20. Del medesimo.
L’amor Melissa 12 nega, e il corpo tardo
Grida che accolse in sè ben più d’un dardo.
Il passo ha incerto, affannato il respiro,
Sotto i cavi occhi un violaceo giro.
Brame, per Dio 13 struggete la restia,
E dica: è tutta ardor l’anima mia.
21. Dello stesso.
Di sua beltà Rodope orgoglio sente:
Le dico— Salve— e guata alteramente.
Sospendo all’uscio suo talvolta un fiore,
Ed ella lo calpesta con furore.
Rughe, vecchiaia, venite in più fretta,
E Rodope per voi giudizio metta.
22. Dello stesso.
Amor non vincemi,
Se in petto aduno
Virtù: so reggere
Uno contro uno.
Io starò intrepido
A pugna eguale,
Pure se assalgami
Un immortale.
Ma a lui se uniscesi
Del vino il Dio,
A due resistere
Come poss’io?
Lavàti, o Prodica,
C’incoroniamo;
Di vin grandissimi
Nappi votiamo.
Dei lieti è rapida
La vita: arresta
Vecchiaia il gaudio,
Poi morte resta.
24. Dello stesso.
Di Giuno, o Mèlita,
Gli occhi hai, le belle
Mani di Pallade,
E le mammelle
Hai tu di Venere,
Di Teti il piede.
Oh! felicissimo
Quei che ti vede.
Ma beatissimo
È ben tre volte
Quei che il tuo eloquio
Avvien che ascolte.
Chi t’ama è simile
A semidio,
Ma quei che sposati
È immortal Dio.
Dolce s'allegra questa tazza: dice
Che la garrula bocca ella ha toccato
Dell'amabil Zenofila. Felice!
Oh, se il suo labbro al mio ella attaccato,
Ora volesse a me per cortesia
Tutta quivi succhiar l'anima mia.
27. A Venere d'ignoto.
Se salvi in pelago
Chi s'è smarrito,
Tu in terra salvami
D'amor perito.
Di matin Melanippo abbiam sepolto,
E, appena il sole ci nascose il volto,
La giovine Basila verginella
S’è spenta di sua mano. Appena ch’ella
Ebbe sul rogo il suo fratel veduto,
Vivere senza lui non ha potuto
Cirene piange, vista al tutto orbata
Una famiglia di figliuoli ornata.
31. Del medesimo.
State non fosser mai rapide navi,
Chè Sopoli a Diodide figliuolo
Non piangeremmo. Or ei tratto sul mare
S’aggira estinto, e noi passiam davanti
Al nome sculto e al vuoto monumento.
32. Del medesimo.
Le Samïe fanciulle hanno di Cretide
Brama. Ella adorna fu di dolce eloquio,
Grata compagna nello scherzo e garrula.
Ora il fato commun nel sonno l’òccupa.
33. Del medesimo.
Va il cacciatore o Epicide,
Quanto più neva e agghiaccia
Di lepri e damme assiduo
Ad inseguir la traccia.
Se alcuno ― prendi ― dicegli
La preda ch’hai prostrata,
Ei la disdegna. Simile
Sorte a me pure è data.
Tale è il mio amor; desidera
Il fuggente piacere,
E di quello concessogli
Ricusa di godere.
34. D’ignoto.
Alle immortali Muse
Carissimo, o beato
Callimaco, salute,
Benchè nell’Orco andato.
S’è passione l’odiar, passion l’amore,
Scelgo tra loro quella, ch’è migliore.
38. Di Eveno.
(parla la vite).
O capro, pur se mi divori fino
Alla radice, co’ novelli frutti
Al sagrificio tuo darò del vino.
39. Di Prassitele.
Prassitele me Amore
Ritrasse dal model che avea nel core,
E poscia, per mercede
Di me medesmo, a Frine egli mi diede.
Non accendo co’ dardi,
Ma ben ferisco chi fiso mi guardi.
Fitinna disse:
Pe’ figli miei,
O mio, Diogene,
Prender non dei
Più moglie, quando
Morta sarò.
Ma quegli ad altra
Sposa volò.
L’estinta volle 19
Darne la pena
Allo spergiuro
Sposato appena.
Le nuzïali
Stanze giù rotte
Fece piombare
La prima notte.
La morte a che temete,
Che apporta la quïete,
Che tronca i morbi e il duol di povertà?
Sola fra tante pene
Solo una volta viene,
Nè mai mortal due volte addosso l’ha.
Ma morbi varî e molti
L’uom sempre ha in sè raccolti,
La cui vicenda ognor viene e sen va.
48. D’ignoto.
Me a coronar, benchè sepolcro umìle
O passeggiero, e a coronar t’arresta,
Chè il prediletto alle Pïerie Muse
Il divo vate Omero in me racchiudo.
49. D’ignoto.
Breve ha rosa il fiorir: se tu ten vai,
Le foglie, no, lo spino troverai.
50. D’ignoto.
Un medico, se mai ciarliero sia,
È all’ammalato nuova malattia.
Me fe’ giacere oppresso
De’ medici un consesso.
51. D’ignoto.
Come fui? donde son? perchè venuto
Qua? Per andar poi via. Come poss’io
Nulla sapendo diventar sapiente?
Fui, nulla essendo, e poi sarò qual pria.
Ahi! niente e niente ell’è la vita umana.
Ma mi porgi di Bacco il dolce nappo;
Questo è rimedio che guarisce i mali.
Tutto è riso, è polve, è nulla;
Tutto fece il caso cieco.
Se ho figliuoli, il duolo è meco,
Quando vèdoli patir.
Se la moglie è buona, in lei
Si ritrova alcun diletto;
S’ella è trista, un poveretto
Finchè vive ha da soffrir.
Te ricco tutti, io povero te dico,
Chè di ricchezza testimonio è l’oro.
Se ne godi, ella è tue; se per gli eredi
La serbi, d’ora innanzi altrui diventa.
57. D’ignoto.
Ermone avaro in sogno aveva speso;
Onde morì di propria mano appeso
Asclepiade avaro un sorcio vede
Nella sua casa: ― che fai qui, carino?
Gli risponde ridendo il sorcellino:
― Non cerco presso te cibo, ma sede.
59. Del medesimo.
Temistonoe travecchia si tingea
Il crin: parea non giovine, ma Rea 22.
60. Del medesimo.
Menofane avea compro un sì ristretto
Campo, che poi dovette per la fame
Alla quercia impiccarsi del vicino.
A seppellirlo non bastò la terra,
Onde a mercè fu presso un confinante
Sepolto. Oh! se l’avesse conosciuto
Il figlio di Menofane Epicuro,
Alcerto detto avria che l’universo
È di campi non d’atomi ripieno
61. Del medesimo.
Cacciato un giorno fu nella prigione
Marco insigne poltrone,
E confessò che un uomo ucciso aveva,
Perchè d’uscir temeva.
62. Del medesimo.
Il pigro Marco un dì corse dormendo;
Più non dormì, di correre temendo.
63. Del medesimo.
Non pur parlando, pria di parlare
Sa Fabro il retore spropositare.
S’apre la bocca, è un barbarismo
Con mano accenna, è un solecismo.
Se di guardarlo solo mi tocca,
Legata subito sento la bocca.
64. Del medesimo.
In un giorno d’estate un sorcellino
Vide dormir Macrone, il piccolino.
Pel piè lo trasse in un buco bel bello,
Io m’era giovine
Senza un quattrino:
Vecchio ho ben carico
Il borsellino.
Sono miserrimo
Per tal motivo.
Pria disperavami
Di tutto privo
Ora che abbondami
Il ben di Dio,
Ahimè! godermelo
Più non poss’io.
75. D’ignoto.
Addio, Speranza, Fortuna, addio;
Volgete in altri gl’inganni vostri;
Spento, da voi franco son io.
76. D’ignoto.
L'invidia è pessima:
Pure ha del bene:
Distrugge gl’invidi
Con le sue pene.
77. D’ignoto.
D. Giustizia, chi ti volle qui locare?
R. Un ladro che con me nulla ha che fare 25.
Pallade vide Venere,
Che aveva armi vestite:
― Vuoi tornar così, dissele,
A rinnovar la lite?
E quella dolce a ridere: ―
A che mi vale scudo,
Se son certa di vincere
Solo col corpo ignudo?.
84. D’ignoto
O che ti veggia, matrona 30 bella
Co’ tuoi capelli di nere anella
O che ti veggia capelli biondi,
Sempre ad un modo di grazia abbondi.
Amore avrebbe sua stanza in essi,
Pur se canuti tutti gli avessi.
85. D’ignoto
Chi, già marito, affidasi
D’esser di nuovo sposo
Tenta, nocchiero naufrago,
Il flutto periglioso.
Due gioie immense inver la donna apporta;
Quando si sposa o via si reca morta.
88. Di Damageto
Non di Messina o d’Argo un lottator son io.
Sparta, l’illustre Sparta, ell’è il mio suol natio,
Quei vincono con l’arte; io giusta il patrio rito
Son con la forza sola vincitor riuscito.
89. Di Democaride (in un bagno)
Gl’immortai membri Venere
Un dì lavossi qui,
E col mostrarsi a Paride
Il pomo gli rapì.
Bella gloria fra gli uomini la cetra
Diede ad Orfeo e il dolce eloquio a Nestore,
Chiara l’ebbe da carmi il divo Omero
Telefane da’ flauti, e questa è l’urna.
93. Del medesimo
Due sordi a sordo giudice: ―
Cinque mesi d’affitto ei mi de’ dare ―
L’altro: di notte, o giudice.
Dico che mi son messo a macinare,
E il giudice: la madre avete? or via
Da tutti e due ella nutrita sia ―
94. D’ignoto su di un bagno piccolo e bello
È sacrato alle Càriti
Questo bagno in tal loco,
Perchè in esso le Càriti
Sole vanno a far gioco.
95. Di Pinito.
Di Saffo l’ossa e il nome vuoto è fra questi marmi,
Ne vivranno immortali i sapïenti carmi.
96. D’ignoto.
Quantunque io tomba picciola sia,
O viandante, non passar via,
Ma, come suoli far con gli Dei,
Con serti offrirmi ossequio dèi,
Mercurïo di legno un tal pregava,
E quei legno restava.
Ei l’alzò, l’atterrò,
E quello allor versò,
Infranto, di bell’oro onda fluente.
Giova ingiuria sovente.
Cinque piedi avrai di terra,
Quando estinto giacerai:
Della vita non godrai,
Nè più il sol ti splenderà;
Onde, Cincio, orsù di Bacco
Bevi tazza generosa,
E Bellissima un sposa
Stringi fervido sul cor.
Se immortal di sapïenza
Posseder tu il raggio vanti,
Gli Zenoni ed i Cleanti
All’Averno anch’ei balzâr.
Amor non è se alcuno un’avvenente
Desia, siccome vuole occhio prudente.
Ma se s’accende d’una che sia brutta
E colpita ha d’amor l’anima tutta.
Questo è amor, questo è foco: leggiadria
Grata sempre a chi sa convien che sia.