Poemi (Esiodo)/Prefazione/Lo scudo di Ercole
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Il grammatico Aristofane — dice un antico argomento de Lo scudo d’Ercole — sospettò che questo poemetto non fosse di Esiodo, bensí di un altro poeta, che volle in esso imitare lo scudo d’Achille descritto da Omero.
Di Esiodo lo credettero invece Mègacle d’Atene, anche citato nello stesso argomento, Stesicoro e Apollonio Rodio. Quest’ultimo avrebbe espresso il suo giudizio fondandosi sul carattere del poema; e certo in un giudizio che, necessariamente, secondo lo spirito dei tempi, fu, in primo luogo, di accento stilistico, egli poté essere buon giudice. La critica moderna, naturalmente, si accorda con Aristofane; ma, pur negando che il poemetto sia opera di Esiodo, lo riconosce anteriore a Stesicoro e a Pisandro, e, dunque, al 600 prima di Cristo. In sostanza, piú o meno, del tempo di Esiodo.
Sempre secondo l’autore del suddetto argomento, la protasi (1-56) sarebbe tolta dal Catalogo delle donne; e infatti i suoi legami col resto del poemetto sono così deboli, che sembra lecito supporla appiccicata.
La parte epica non vale molto, né in linea assoluta né in linea relativa. Assai piú importante è, invece, la descrizione dello scudo. Vediamola rapidamente.
— In mezzo, un drago con le pupille torte e le zanne candide in fila.
— Su la testa del drago, tutta una serie di personificazioni: Contesa, Attacco, Fuga, Strage, Strepito, Omicidio, Tumulto, Rissa, Parca.
— Dodici serpenti, coi dorsi azzurri maculati e le mascelle nere.
— Branchi di cinghiali e di leoni che si azzuffano.
— Battaglia dei Lapiti coi Centauri.
— Marte, e presso lui i Dèmoni Terrore e Sgomento, Atena armata a guerra.
— Una danza di Numi, e una gara poetica. Apollo canta, le Muse lo accompagnano, tutti i Numi stanno a contemplare.
— Un porto, delfini, nuotatori, pesci, un pescatore.
— Perseo che fugge inseguito dalle Gorgoni.
— Assedio d’una città. Nuova pittura delle Parche. Pittura del dèmone Ambascia (Ἀχλύς).
— Imeneo.
— Tripudio di giovani.
— Lavoro dei campi: mietitura, vendemmia.
— Scene di lotta e di pugilato.
— Caccia alla lepre.
— Gara di carri.
— Oceano, pesci nell’acqua, uccelli nell’aria.
Molta roba, e motivi di prim’ordine. Ma il poeta non mostra per tutti la stessa predilezione, la stessa cura. Guardate per esempio, nella estesa trattazione del poemetto, tutte le scene tranquille e pacifiche, di imitazione omerica, specie le ultime, dalla vendemmia in poi. Due tocchi, e via ad un altro soggetto. Sicché, tutte riescono addensate, confuse, quasi insaccate, come avviene in certe tarde opere d’arte, nelle quali una quantità di motivi, ed alcuni nobilissimi, già trattati, e portati alla perfezione, da artisti amorosi, appaiono deturpati e ammucchiati, e quasi incastrati uno nell’altro, divenuti mèro ciarpame, che si presume decorativo, senza neanche piú coscienza dell’originario significato.
E non illuda la relativa ampiezza di svolgimento che si ravvisa in altre scene, per esempio nella vendemmia, o nell’imeneo. Se badate, sono stanche ripetizioni omeriche, o, peggio, mère sfilate di fredde parole, che non suggeriscono immagini.
Ma questa indifferenza, questa insensibilità artistica, non si estende a tutta la materia. Appena balena una scena d’orrore, la fantasia del poeta si accende, la sua mente si empie di fantasmi che hanno la vivace autonomia della vita.
Degna di Esiodo è la pittura delle rupi che piombano giú per la cima del monte, abbattendo querce, pini e pioppi, sinché giungono al piano. D’incomparabile icastica il leone, che, imbattutosi in una preda,
la pelle con l’unghie possenti
cupidamente gli fende, ne sazia l’ingorda sua brama,
e, sfavillando tremendo negli occhi, le spalle ed i fianchi
coi pie’ gli scava, e sferza la coda;
o il cinghiale che, terribile, fra le alpestri valli selvose,
con le sporgenti zanne compare, anelando la pugna,
piantato obliquamente: la bocca digrigna, la spuma
gocciola giú, le pupille somigliano a fuoco che arda,
irti sul dorso e su la criniera si drizzano i peli.
E zuffe e stragi di leoni, di cinghiali, d’avvoltoi, sono evocate senza parsimonia, e, quasi direi, senza misura; e tutte descritte con amore e precisione ammirevoli.
Qui il poeta si trova proprio a suo agio. Si legga la descrizione della città assediata, e si dica se non riesce a farla vivere dinanzi ai nostri occhi, tanto evidenti e precisi tutti i particolari.
E anche piú care sono alla sua fantasia le creature mostruose che la fantasia popolare immaginava partecipi o provocatrici di zuffe mortali. Ecco, fra le altre, una Parca.
Bruna di sangue umano sugli omeri aveva una veste,
terribilmente guatava, gridava, strillava a gran voce.
E, piú che non si dica terribili, teste di serpi
v’erano, dodici; e in seno spiravan terrore ai mortali.
. . . . . . . . . . . .
Un uomo or or ferito stringeva, uno illeso, ed un altro
morto: e lo trascinava, ghermitolo al pie’, tra la zuffa.
Si potrebbe immaginare che dopo questa pittura, il poeta fosse sazio. Macché: nel brevissimo àmbito del poemetto egli trova modo di offrircene, nella pittura della città assediata, una replica non meno accurata e non meno efficace. Le Parche
livide, dietro ad essi, dai candidi denti stridendo,
torve, terribili, tutte coperte di sangue, implacate,
rissa d’intorno ai caduti facevano, cupide tutte
di bere il negro sangue. E quei che ghermissero prima,
già spento, oppur caduto, ferito di fresco, su quello
l’immani unghie una d’esse gittava, e lo spirito all’Ade,
al Tartaro cruento scendeva; e quand’eran poi sazie
di sangue umano, dietro di sé lo gittavano, e ancora
novellamente, correndo, moveano alla strage, al tumulto.
E cosí pare si delizi nella pittura del drago che lingueggia in mezzo allo scudo, o delle Gorgoni che si avventano sul fuggiasco Perseo.
Ed anche piú significativa è la pittura di Ambascia (Ἀχλύς). Perché, secondo ogni verisimiglianza, il poeta non aveva per questa, come per le altre figure mostruose, modelli delle arti figurate: qui lavorava di proprio, e si studiava di dar forma concreta ad una delle note orride personificazioni della fantasia popolare.
E presso a loro stava la querula Ambascia odiosa,
pallida, magra, cascante di fame, le gambe stecchite,
e l’unghie lunghe lunghe sporgean dalle dita: colava
dalle narici moccio, cadevano giú dalle guance
stille di sangue; ed essa, con grande stridore di denti
stava, e sugli omeri suoi si addensava la polvere fitta,
molle di pianto.
Tutti questi orridi particolari sono curati con lo stesso amore che un altro poeta consacrerebbe ad un pittura di bellezza. E da questa amorosa diligenza, e dalla efficacia che innegabilmente esercita sul nostro spirito la sua pittura, possiamo giudicare il grado di commozione, d’ispirazione che lo sostenne nel tratteggiarla; e caratterizzare la sua sensibilità, la sua personalità artistica.
Ora, questo amore per l’orrido l’abbiamo già rilevato come una caratteristica di Esiodo. Non però cosí predominante come appare in questo poemetto. E l’eccesso potrebbe far pensare ad un imitatore, propenso, al solito, ad esagerare le caratteristiche del modello.
D’altra parte, la maestria di queste figurazioni è molta. E non minore quella che si svela in un altro brano, unico, ma prezioso, di pittura agreste.
Erano i dí che la bruna canora cicala, sul ramo
tenero verde, a cantare comincia l’Estate ai mortali,
che solo ha per bevanda, per cibo, la molle rugiada,
e la sua voce effonde dall’alba sinché dura il giorno,
nell’afa esosa, quando piú Sirio prosciuga la pelle:
i dí quando le reste compaion sui chicchi del miglio,
ch’è seminato l’està, quando invaiano i grappoli acerbi.
È la medesima precisione di particolari spostata al medesimo fine e schietto sentimento agreste: e non è indegno di Esiodo.
Cosí, in due tratti caratteristici della poesia d’Esiodo, il poemetto si dimostra intonato a quella, e non impari. Naturalmente, sarebbe però imprudente concludere da ciò ad una legittima paternità esiodea. Anzi, per quanto possa valere una impressione personale, a me pare che qui, nel complesso, accento d’Esiodo non ci sia.
Ma, in ogni modo, il poemetto è significativo per un fatto. In esso troviamo, a fronte a fronte, e quasi direi dosate nella stessa misura, l’imitazione d’Omero e l’imitazione d’Esiodo.
Ora, mentre quella dà frutti stentati e privi di sapore, questa ne produce alcuni che rivaleggiano con quelli dell’albero originario. Effettivamente, nella terra di Beozia l’influsso omerico, anche se presente, è di scarsa efficacia: sulle fantasie e sui cuori ha feconda efficacia il canto del poeta contadino di Ascra.