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xcvi ESIODO

una quantità di motivi, ed alcuni nobilissimi, già trattati, e portati alla perfezione, da artisti amorosi, appaiono deturpati e ammucchiati, e quasi incastrati uno nell’altro, divenuti mèro ciarpame, che si presume decorativo, senza neanche piú coscienza dell’originario significato.

E non illuda la relativa ampiezza di svolgimento che si ravvisa in altre scene, per esempio nella vendemmia, o nell’imeneo. Se badate, sono stanche ripetizioni omeriche, o, peggio, mère sfilate di fredde parole, che non suggeriscono immagini.

Ma questa indifferenza, questa insensibilità artistica, non si estende a tutta la materia. Appena balena una scena d’orrore, la fantasia del poeta si accende, la sua mente si empie di fantasmi che hanno la vivace autonomia della vita.

Degna di Esiodo è la pittura delle rupi che piombano giú per la cima del monte, abbattendo querce, pini e pioppi, sinché giungono al piano. D’incomparabile icastica il leone, che, imbattutosi in una preda,

                    la pelle con l’unghie possenti
cupidamente gli fende, ne sazia l’ingorda sua brama,
e, sfavillando tremendo negli occhi, le spalle ed i fianchi
coi pie’ gli scava, e sferza la coda;

o il cinghiale che, terribile, fra le alpestri valli selvose,

con le sporgenti zanne compare, anelando la pugna,
piantato obliquamente: la bocca digrigna, la spuma
gocciola giú, le pupille somigliano a fuoco che arda,
irti sul dorso e su la criniera si drizzano i peli.

E zuffe e stragi di leoni, di cinghiali, d’avvoltoi, sono evocate senza parsimonia, e, quasi direi, senza misura; e tutte descritte con amore e precisione ammirevoli.