Platone in Italia/XV. Secondo ragionamento di Archita

XV. Secondo ragionamento di Archita

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XV. Secondo ragionamento di Archita
XIV. Discorso di Archita XVI. Terzo ragionamento di Archita
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XV

Secondo ragionamento di Archita

[Necessarie cautele nel giudicare i grandi uomini — Stratagemma usato da Pitagora nel fondare la sua scuola a Samo — Inesorabilitá di lui in fatto di morale — Le oscure sentenze pitagoriche nient’altro che proverbi popolari — interpetrazione di alcune di esse — Sono quasi sempre proverbi antichissimi, e non inventati da Pitagora — Diffícile non l’inventare proverbi, ma scoprirli in un popolo e sapersene servire — Utilitá didattica dei proverbi — Perché le leggi civili debbano essere diverse dai precetti religiosi e dai costumi — Un riformatore deve dar pochi precetti e molti consigli — Utilitá degli esempi dati dagli uomini virtuosi — A essi soltanto un riformatore può confidare integralmente la sua dottrina — Collegi pitagorici e loro classi — Pitagorici e pitagorei — Dottrina interiore e dottrina esteriore nella filosofia pitagorica, quella segreta e questa pubblica, e perché — Ottima accademia ma pessima cittá quella di soli sapienti — Un mezzo savio è un pazzo finito — Errore tanto il mettere il popolo a parte di tutti i segreti dei saggi, quanto il vietargli i buoni studi utili alle arti — Ottima cittá quella in cui ciascuno sia al suo posto — Rispetto per gli dèi e pei maestri voluto da Pitagora — Stolto, pei saggi, disputare delle loro dottrine davanti al popolo — Dovere imprescindibile dei maestri di non farsi mai mancar di rispetto — Bisogno, per le dottrine destinate a produrre riforme popolari, di collegi, iniziazione, segreto — Misteri eleusini e di Samotracia non piú utili quando diventati troppo comuni — Ma i collegi non debbono mai isolarsi dagli uomini- — Triplice fine dei collegi pitagorici — Diffusione del pitagorismo in Magna Grecia, in Lucania e nel Sannio, e suoi benefici effetti — Ma la riforma non fu compiuta per mancanza di tempo — Persecuzione di Cilone contro i pitagorici — Abolizione della schiavitú propugnata dai pitagorici — Rivolte degli iloti [p. 81 modifica]a Taranto e abolizione della schiavitú civile — Contro le cittá a regime schiavistico — Odio dei grandi contro i pitagorici — Concitarono contro loro i popoli, concedendo a questi una eccessiva libertá.]

— Se voi aveste voluto divenir pitagorici un secolo fa — riprese Archita la sera seguente, — io non vi avrei fatto quel ragionamento, che vi feci ieri sera, se non dopo molti anni di silenzio e di prove. Prima di saper ciò che Pittagora volesse fare, sarebbe stato necessario mostrarvi capaci di farlo voi stessi. Oggi non si tratta piú d’imitare Pittagora: si tratta di giudicarlo. E, per giudicarlo, è necessario saper, prima di ogni altra cosa, ciò che voleva fare.

Dopo questa dichiarazione, io ripiglio il mio discorso. Siam sobri nel giudicar gli uomini grandi. Spesso ciò, che nelle loro operazioni troviamo di piú triviale o di piú puerile, è quello appunto che piú efficacemente conduce ai loro disegni. Si narra di Pittagora che, volendo ispirare agli abitanti di non so quale cittá1 l’amore per gli studi geometrici, li trovò tutti restii ad occuparsi d’idee nuove, astruse e che il maggior numero riputava anche inutili. Pittagora promise loro una mercede, e l’andava di tempo in tempo accrescendo in ragion del profitto che i giovani facevan negli studi nuovi. Si rise molto, sulle prime, di un filosofo, il quale, volendo aprir una scuola per vivere, incominciava dal pagar egli stesso i suoi discepoli. Il riso, come per l’ordinario suole avvenire, rimase ai derisori. L’aviditá del guadagno fece nascere nei discesi l’amor della scienza; e, quando questo amore divenne un bisogno, pagarono essi il centuplo a Pittagora perche continuasse le sue lezioni.

Io non so se questo racconto sia un fatto o un’allegoria; ma esso, al certo, contiene la storia della setta pitagorica, che spesso ha lusingati i pregiudizi del popolo per ispirargli l’amore del vero.

Pittagora dovea parlare al popolo, ai sacerdoti, ai grandi ed ai savi. Parlò al popolo di morale e religione. Chi gli si [p. 82 modifica]poteva opporre? Nulla innovò nella religione allora praticata, ma disse che il principal atto di ogni religione era la virtú. Avvezzò in tal modo gli uomini a paragonarla colla morale, e questo col tempo dovea bastare a purificarla. Egli non era inesorabile se non sulla morale. Solo nella morale gli uomini doveano esser convinti; se vi fosse stata necessitá, anche costretti. In tutto il dippiú diceva dover essere istruiti e tollerati.

Parlò al popolo de’ suoi piú cari interessi, e ne parlò col linguaggio che piú conveniva al popolo, cioè con parabole e proverbi. Se è vero che gli esempi muovon piú de’ precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi, debbon muovere piú degli argomenti.

Proverbi, e proverbi popolari, sono tutte quelle sentenze pitagoriche, che a voi sembrano inintelligibili, tra perché ignorate i costumi de’ popoli per li quali sono stati immaginati, tra perché vi ricercate sempre sensi piú sublimi e misteri piú alti di quelli che naturalmente ci si comprendono.

Cosí, per esempio, volea Pittagora insegnare il rispetto agli dèi? Diceva: — Va’ al tempio, e non ti volgere a fare o a dir cosa che appartenga alla vita. Scalzo, sacrifica ed adora. A niuna meraviglia degli dèi e degli oracoli divini non negar fede. Soffiando il vento, adora quel suono. Quando il cielo tuona, tocca la terra. —

Volea ispirare rispetto ai principi? Diceva: — Non lacerar la corona. Contro l’astro non estendere il dito. Non parlar contro il sole. Non far acqua contro il medesimo. —

Voleva ispirar la concordia? — Riinovi ogni punta ed ogni taglio. Non ferire il foco con la spada. —

— Non alimentate animali di ugne adunche. Non ricevete le rondini sotto il tetto — diceva a coloro ai quali volea consigliare di sfuggir le amicizie funeste.

Sarebbe impossibile, forse inutile, e certamente noioso, annoverarli tutti. Ma credete voi che tutti sieno stati inventati da Pittagora? Io credo quasi nessuno. Eran giá molto in uso tra i popoli, e nascevan dai loro costumi antichissimi. — Getta sassi sul luogo sparso di sangue umano — dice Pittagora. Questo [p. 83 modifica]i popoli tutti d’Italia lo facevan prima di lui. — Non portare anelle strette. Non iscolpir l’immagine di Dio suH’anello. — In molti luoghi questo prima di Pittagora si praticava2.

Se Pittagora questi proverbi li avesse inventati egli stesso, sarebbe simile a quei tanti belli spiriti, i motti de’ quali, ripetuti con un poco di piú un poco di meno di plauso, per un piú lungo o piú breve tempo, finiscono inutili al popolo, obbliati dai savi e raccolti in qualche ricettario noioso, destinato da qualche amanuense a dare le false apparenze dello spirito a coloro ai quali la natura non ha dato spirito vero. Credetemi, amici: l’inventar tali cose non è difficile. Scoprirli in un popolo, riconoscerli, servirsene come di addentellato per l’edifizio che si vuol costruire, e per tal modo render questo eterno, piantandolo sulla stessa mente, sullo stesso cuore, sulla stessa vita di un popolo: ecco l’opera del genio.

Non nego che talvolta vari di questi proverbi sono stati usati per indicar doveri piú sublimi de’ doveri popolari, e si è creduto leggervi un’istruzione per tutt’altri che pel volgo. Ma la virtú de’ savi e quella del volgo han molte parti simili, ed in conseguenza possono aver molti precetti comuni. Il saggio deve far piú del volgo, ma lo scopo a cui tendono è lo stesso; e quello stesso proverbio, che ricorda al volgo il dovere di non far male, impone al savio quello di fare anche il bene.

Hanno questi proverbi, in bocca di riformatori, grandissimi vantaggi. Sono come monete d’oro, le quali in piccolo volume racchiudon molto valore. S’intendono da tutti, si rammentano da tutti, danno luogo a diverse interpretazioni; e cosí ciascuno vi si adatta. Dopo una etá, le idee degli uomini debbono per necessitá cangiarsi. Se voi avrete dati precetti chiari, rigidi, inalterabili, sará necessitá o cangiarli per adattarli ai nuovi costumi, o vederli rotti. Il primo non sempre si può fare; il secondo produce spesso il massimo de’ mali, perché peggio di tutti i precetti anche cattivi è il non averne nessuno. Con [p. 84 modifica] precetti esposti a modo di proverbi e di parabole, il poter de’ principi si conserva per molte etá, si evita l’anarchia delle idee e si ottiene la mediocritá del bene, evitando il massimo de’ mali.

Nelle cittá colte le leggi civili debbono esser tutte diverse dai precetti di religione e di costumi: chiare, precise, inesorabili. Ma sapete voi perché? Perché, quando si dcbhon riformare, il che avviene spessissimo, il popolo tien altri precetti da seguire. Se il popolo allora si trovasse senza costumi e senza religione, si distruggereblie per anarchia, prima di darvi il tempo necessario a riordinare le leggi. Quindi è che erran egualmente e coloro i quali credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite de’ cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli renderanno vacillante lo stato della intera cittá. È necessitá che vi sieno egualmente costumi, religione e leggi: uno che manchi, la cittá, o presto o tardi, ruina.

È necessario che un riformatore dia pochi precetti e molti consigli, ed i consigli sempre piú austeri de’ precetti. È utile avere in una cittá un numero di uomini piú virtuosi degli altri, che servati di esempio e di censori ai costumi volgari, seni pie inclinanti a corrompersi; che servano a dar uno sfogo a quell’ambizione, onde l’amor della virtú è accompagnato, al pari di ogni altro nostro affetto.

E questi uomini piú virtuosi degli altri, li lascerete voi inutili, o ve ne servirete a qualche onesto fine? Voi affiderete loro utilmente la vostra dottrina; quella dottrina che, propalata intempestivamente, potrebbe esser cagione d’infiniti mali. Per tal modo voi conserverete nella dottrina l’unitá sempre necessaria nella sua origine, quando vi è piú bisogno d’imparare che di disputare; e conserverete nel popolo il rispetto che segue sempre la virtú. Per tal modo la dottrina si propagherá piú facilmente, perché alla sua propagazione concorreranno il rispetto del popolo e la concordia de’ savi; e, riunendo la dottrina e la virtú, voi non solo avrete istruttori, ma anche magistrati che governeranno il popolo giá istruito. [p. 85 modifica]

Questi collegi doveano per necessitá esser divisi in molte classi, perché era nel tempo istesso egualmente interessante e moltiplicar quanto piú si potesse il numero de’ seguaci e conservar il segreto della dottrina. Noi avevamo i pittagoristi, i pittagorei3. I primi erano uomini del popolo, i quali conoscevan poco della nostra dottrina, ma rispettavano molto la nostra virtú: erano piuttosto gli amici che i seguaci di Pittagora. Tra i pittagorici vi erano anche varie classi, e non si passava dall’una all’altra se non dopo lunghe prove.

Eravi una dottrina interiore ed un’altra esteriore. Al popolo non si comunicava se non questa ultima. Se gl’insegnava tutto ciò che era necessario ad agire; tutto ciò che poteva rendergli o piú facile o piú utile o piú dilettevole il lavoro; piú comune, piú costante, piú dolce la virtú. La scienza interna era la scienza delle cagioni; le quali, ignorate, non tolgono al popolo verun bene: mal conosciute, possono recargli molto male.

Al savio è necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perché sol col mezzo della medesima può render piú chiara, piú ampia e piú sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile, perché non saprebbe farne quell’uso che ne fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si acqueti; e questa necessitá è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una cagione, se la farneticherá egli stesso. Ed allora chi sa che mai potrebbe farneticare? Quindi è che i nostri han creduto pericoloso toglier le cagioni antiche, che il popolo avea immaginate e che essi giá conoscevano, per non dare in tal modo occasione di farne immaginar delle altre nuove, che essi forse non avrebbero potuto tanto facilmente conoscere e governare.

— Eppure, o saggio Archita — diss’io — ho udito dir da molti che un popolo, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il piú saggio ed il piú virtuoso de’ popoli. Riunite, dicon essi, in una sola famiglia Socrate, Anassagora, Platone, Timeo, Clinia, Archita: qual famiglia potrá dirsi eguale [p. 86 modifica]a questa in saviezza ed in virtú? Riunite i saggi di tutta la terra, e formatene tante famiglie; riunite queste famiglie, e formatene una cittá: qual citta potrá dirsi eguale a questa4.

— Nessuna — rispose Archita. — Essa non meriterebbe neanche il nome di cittá, perché le mancherebbe quello che solo cangia una unione di uomini in unione di cittadini: la vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri5. Tutti noialtri, il secondo giorno, morremmo di fame: tutti sapremmo fare la stessa cosa, e nessuno saprebbe quello che un altro non sa. Se vi si trovasse il nostro Ippia di Elea, per lui il male sarebbe minore. Questo nostro amico era, nel tempo istesso, matematico, agricoltore, muratore, calzolaio: tutto ciò, che egli abitava, vestiva, mangiava, era edificato, tessuto, seminato, raccolto, macinato da lui stesso6. Per Ippia, dunque, passi; ma per noi sarebbe un male. La nostra unione sarebbe un’ottima accademia ed mia pessima cittá. I nostri figli sarebbero costretti a cangiar vita; ed, abbandonati gli studi delle scienze e delle arti liberali, dovrebbero, per poter vivere, darsi tutti alle arti meccaniche, ed allora non vi sarebbero piú né Piatoni né Socrati... Saprebbero, tu dirai, la metá di quello che questi sanno... Ma saprebbero ciò che non si può sapere se non da chi sa moltissimo, ciò che sapeva Socrate, cioè di saper pochissimo? Essi saprebbero poco e, per questa istessa ragione, presumerebbero di saper molto. Credimi, Cleobolo: un mezzo savio è un pazzo finito.

Tutto l’errore vien dal creder la scienza talora piú, talora meno necessaria di quello che realmente è. Errano quei filosofi i quali voglion mettere il popolo a parte di tutti i segreti de’saggi; ed io ti predico che questo abuso produrrá nella vostra Grecia mali gravissimi ai popoli ed agli stessi filosofi, i [p. 87 modifica]quali finiranno coll’esser discacciati. Ed allora vorrei domandare se colla loro imprudenza abbian prodotto piú bene o piú male. Ma errano egualmente i potenti, i quali vietano i buoni studi, ed impediscono cosí tutti quegli aiuti che le arti utili potrebbero ricevere dalla geometria, dalla meccanica, dall’astronomia, perché temono che gli studi di tali scienze, sempre ristretti tra pochi, non déstino nelle menti del volgo dubbi distruttori di quelle opinioni, che essi reputano fondamenti di ogni ordine pubblico e di ogni loro potere. Stolti! non sanno che il loro timore può solo rivelar quei rapporti tra le cose che il volgo da se stesso non scoprirebbe in eterno; cd ignorano che tra tutte le cagioni di disordini pubblici le piú potenti sono quella ignoranza che produce la miseria, e quella miseria che genera la disperazione!

Ciò, che veramente è necessario in una cittá, è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l’ordine. Ad ottener l’uno e l’altro, sono necessari egualmente la scienza e la subordinazione. Pittagora voleva dal popolo il massimo rispetto per gli dèi e dai suoi discepoli il massimo rispetto per i maestri. — Credi tutto ciò che ti vien dagl’iddii: — sí diceva al primo. Ai secondi: — Egli lo ha detto. — La necessitá del rispetto scemava a misura che cresceva l’istruzione; e veniva finalmente per i discepoli il giorno in cui era loro permesso di veder «Pittagora a viso scoperto»7. Queste parole indicano «vedere scoperta la veritá».

Pittagora non amava che i suoi seguaci disputassero in faccia al popolo sulla loro dottrina. Il popolo, o presto o tardi, dice: — Questi, o imbecilli o impostori, voglion istruir noi, ed intanto non sono ancora d’accordo tra loro!

— Non perdete la stima del popolo — diceva Pittagora, — se volete istruirlo. — Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che [p. 88 modifica] vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si tratta d’istruirlo, tutt’i diritti sono suoi; tutt’i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe. Diodoro di Aspendio tentò d’introdurre tra noi quel modo di vestire, che Diogene ed Antistene hanno accreditato in Atene. — Renderemo — egli diceva — piú popolare la sapienza. — La renderete piú dispregevole — risposero i migliori tra i nostri8.

Tutte quelle dottrine destinate a produrre riforme popolari hanno bisogno di collegi, d’iniziazione, di segreto. Tutt’i popoli hanno avuto di simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini civili. I vostri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa origine: ma né sul principio sonosi occupati de’ nostri oggetti, perché nati in etá piú barbara; né oggi possono esser piú utili, perché resi troppo comuni. Come pretendete che gl’iniziati emendino il costume di Atene, se voi ateniesi siete tutti iniziati? Se Ercole ritornasse al mondo e gli ateniesi lo volessero iniziare un’altra volta, è certo che non vorrebbe esserlo piú.

— Non son questi, o Archita — disse allora Platone — i soli mali che io temo per tali collegi. Essi talora possono separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili contemplazioni, o dietro l’ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona. Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle civili. Del resto, la morale di Pittagora è nell’intrinseca natura dell’uomo. Essa rinascerá, non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerá, quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale avrá ridotti gli animi all’estremo de’ mali. L’estrema corruzione dei costumi de’ popoli produrrá l’estrema austeritá ne’ precetti de’ pochi saggi che allora vi saranno; l’estremo de’ mali produrrá l’estremo del coraggio, della temperanza, della virtú, e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla societá! Possano non riunirsi mai con vincoli troppo tenaci!... [p. 89 modifica] Ma giá è abbastanza di augúri e di voti: tu riprendi il racconto delle vicende de’ collegi nostri.

— Ricordatevi — è Archita che parla di nuovo — ricordatevi che i nostri collegi avean due fini: il primo era quello di conservare e diffondere le utili veritá, il secondo di dar ottimi cittadini allo Stato. A questi aggiungete un terzo: riunir gli animi delle nostre repubbliche e produrre così quella pace universale, che era l’ultima mèta de’ nostri voti e della nostra filosofia. Dai pittagorici è nato la prima volta il detto: «il savio esser cittadino del mondo».

Tutte le cittá, che voi chiamate «greche» e che noi chiamiamo «italiote»9, quelle della Lucania e del Sannio si riempirono di pittagorici. L’abitante di Crotone incominciò a non veder piú nel sibarita il suo nemico, ma bensí il seguace della stessa dottrina e, quel che è piú, il seguace della stessa virtú.

Ciascun pittagorico contava tra i suoi amici quasi tutti gli abitanti delle altre cittá greche. Non vi sembra verisimile che, col tempo, le cittá istesse sarebbero divenute amiche?

Ma io ho detto «col tempo»; ed il tempo appunto mancò. I pittagorici non potevan riformar gli ordini generali di tutte le cittá, se prima non riformavano gli ordini interni particolari di ciascuna; e questo fece nascer l’invidia in molti e la corruzione anche tra noi. I nostri collegi han sofferto infinite vicende.

È piú di un secolo da che furono quasi distrutti dalle furie di Cilone. Tutte le nostre case incendiate; i principali tra i nostri furono o uccisi o sbanditi; i libri di persi; gli stessi nomi sarebbero stati condannati all’obblio, se fosse agli scellerati tanto facile estinguere il desiderio della virtú quanto è facile perdere i virtuosi10.

La prima operazione de’ pittagorici fu quella di abolir la schiavitú. Gli antichi greci, che vennero in questi lidi, vinsero [p. 90 modifica] i messapi, che ne erano gli abitatori primi, e parte li costrinsero a fuggir in altre terre, parte ridussero nello stato in cui gli spartani tengon gl’iloti, ed i tebani i perrebi. Noi credevamo non esser giá schiavo colui che coltiva la terra, ma aver ben giusta necessitá di diventarlo colui che non sappia viver coltivandola. Mille volte gli abitanti della cittá furono in pericolo di esser uccisi tutti dalle sollevazioni di questi nostri iloti, sempre piú numerosi di noi e sempre piú terribili, perché piú sdegnati. — Non vi sará dunque — si diceva dai nostri — non vi sará dunque nulla di mezzo tra l’opprimere e l’esser oppresso? E se questi ci attaccano quando abbiam l’inimico alle porte? — Una guerra esterna costrinse gli abitanti di Taranto ad esser giusti. La morte dell’ultimo re Aristofillide11 diede occasione, dopo abolita la schiavitú domestica, di abolire anche la schiavitú civile, ed al governo dei re succedette quello delle leggi. Riuscì di persuadere al popolo che il miglior de’ governi è quello dove governano i migliori.

Perdonate se io mi trattengo molto a ragionarvi de’ servi. Io li amo. I tarantini mi chiamano, per derisione, il loro amico12, perché li compatisco, perché son lieto quando posso in parte diminuire il peso delle loro sventure, perché amo che i servi miei mangino un poco meglio degli altri, perché non ho, dicon essi, l’orgoglio di disprezzarli. E qual gloria, o Giove! può esser mai in disprezzar ciò che noi stessi crediamo vilissimo?13. Odio gli spartani, perché trattano tanto male i loro iloti. Essi hanno la caccia degli schiavi come quella delle fiere14. E per me sono grandi tutti coloro i quali hanno provveduto alla vita degli schiavi ed hanno condannati quei padroni che troppo duramente li trattavano. Voi ateniesi non siete stati gli ultimi a divenir umani15. Vi fu un tempo in cui [p. 91 modifica] né tra voi greci, né tra noi italiani si conobbe servitú. Tale era quel tempo del buon Saturno, in di cui onore gli schiavi di tutti i popoli riprendono, in taluni giorni dell’anno, le apparenze della libertá. I popoli conquistatori furono i primi ad introdurre la servitú. Tra voi furono i tessali, gli spartani, i cretesi. Vincitori degli antichi abitanti del luogo, li condannarono a coltivar la terra, serbando per loro il dritto di vivere oziosi. Superbi per la vittoria, si credettero di una razza superiore ai vinti. Quei di Chio dicesi che sieno stati i primi ad aver degli schiavi comperati con denaro. Era questo piú umano, ma non meno pericoloso. Voi sapete ciò che si disse di tal fatto. — Quei di Chio hanno comprati i padroni; — e le sedizioni e le desolazioni, dalle quali quell’isola è stata tante volte lacerata e quasi distrutta, han confermata coll’esperienza la saviezza del proverbio antico16.

Ma, oimè! quanto è difficile fare il bene e quanto è vero che il savio non deve tentarlo se non tremando! Era inevitabile che governassero sempre molti pittagorici; e come no, se erano i migliori? Questo ci concitò sul principio l’odio de’ grandi. Vi ho giá parlato di Cilone, il quale inferoci contro di noi, sol perché i suoi vizi lo resero indegno di esser ascritto tra ’l numero de’ nostri. Ma l’odio de’ grandi non c’impedí di fare il bene al popolo. Da per tutto o si stabilivano nuovi ordini, o si miglioravano gli antichi; da per tutto arti, pace, abbondanza, e quella, senza di cui non vi è nulla, sicurezza civile. I grandi però, non potendo vincerci senza il popolo, si riunirono a lui; ed eccovi nuovo genere di persecuzioni. Noi volevamo la libertá e l’eguaglianza; ma quella non dovea esser licenza, questa non dovea divenir anarchia. Il popolo però è difficile sempre a temperarsi nelle sue idee, e gli scellerati sanno trarre profitto dai suoi errori. Voi li trovate sempre nemici delle vostre massime, quando le volete stabilire. Se, contradicendo, non posson vincere, si fingono fautori e le spingono. tanto innanzi, che per abuso debbon crollare. Prima ci [p. 92 modifica] rimproveravano di dar troppo al popolo; poi ci accusarono, in faccia al popolo istesso, di avergli dato troppo poco, e promisero molto di piú. L’animo del popolo è piú instabile dell’onda dell’Adriatico. E quegli stessi, che prima eran stati perseguitati dall’abuso del potere, furono di nuovo oppressi dall’abuso della libertá; ed i mali, che il secondo produsse, furon per noi piú numerosi e piú funesti di quelli che avea prodotto il primo. —

  1. La città era Samo. STANLEY, Historia philosophiae, Pythagoras
  2. PLUTARCO, Quaestiones Romanae. Sull’interpretazione de’ proverbi pitagorici e sulla loro esistenza in Italia, vedi l’Appendice I.
  3. BRUKERO, BUONAFEDE
  4. È curioso veder in questo manoscritto lo stesso argomento, che poi ha riprodotto BAYLE, nei suoi Pensieri sulla cometa.
  5. ARISTOTELE, Politica, I
  6. CICERONE
  7. Brukero, Buonafede.
  8. Ateneo.
  9. «Italioti» chiamavansi i greci che abitavano in Italia. Vedi Mazzocchi, Ad tabulam Heracleensem.
  10. Sulle vicende de’ collegi pittagorici vedi l’Appendice I.
  11. Aristofillide fu l’ultimo re di Taranto. Erodoto, III. Vedi anche Grimaldi, Annali, vol. II.
  12. Atenodoro, ap. Ateneo, XII.
  13. Platone.
  14. Chiamavasi «crypteia».
  15. Demostene, Contro Midia; Ateneo, VI.
  16. Ateneo, ibidem.