Piceno Annonario, ossia Gallia Senonia illustrata/Capitolo III.
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CAPITOLO III.
Guerra tra’ Galli, Sanniti, e Romani succeduta nell’Agro Sentinate.
Prima di far parole sono costretto invidiare la bella sorte, che hanno quegli scrittori, i quali per i primi parlano di qualche materia. Imperocchè non essendo mai essa stata trattata dagli altri, non debbono perdere il tempo per confutar ciò, che da alcuni fu malamente scritto, o perchè presi da qualche passione, o perchè si dilettarono di confondere, e d’imbrogliare le altrui menti. Dicendo T. Livio, che Consules ad hostes, transgresso Apennino in agrum Sentinatem pervenerunt: ibi quatuor millium ferme intervallo castra posita: chi avrebbe dubitato, che la battaglia non accadde vicino a Sentino? Essendo posto Sentino nella Gallia Senonia, ed essendo venuti i Romani ad attaccare i Galli nelle lor terre, chi potrebbe dubitare, che Sentino fu il ricovero, ed il centro delle armate de’ Galli, degli Umbri, de’ Sanniti, e degli Etrusci? Eppure monsig. Montani sotto il nome di Nintoma lo impugna, e pretende, che la battaglia accadde nell’Agro di Fabriano. Contro mia voglia sono costretto prima di riportare la storia indagare il sito, ove succedette la guerra, e confutare quello, che egli scrisse.
Egli pretende, che Fabriano fu nell’agro Sentinate: ed io gli rispondo, che fu nell’Agro Attidiate, perchè Attidio rimaneva lontano dal luogo, ove è Fabriano, sole due miglia, e mezzo. È vero, che Plinio, e Tolomeo furono i primi, che parlarono di Attidio: ma che per questo? Perchè questi due Geografi lo nominarono molto tempo dopo la battaglia, perciò prima non esisteva? Plinio, e Tolomeo furono i primi a nominare Suasa, dunque questa non esisteva prima di essi? La lapide, che riporterò, dice, che fu fondata da’ Greci. Molti secoli dunque prima della battaglia di Sentino esisteva Suasa. Come dunque Suasa già vi era, così vi era Attidio. Inoltre Fabriano è lontano da Sentino otto, e più miglia, e monti non piccoli dividono, e restano in mezzo alle due pianure, cioè a quella di Fabriano, e di Sentino; come dunque la pianura di Fabriano può prendersi per agro Sentinate? Prosiegue il Nintoma a farsi forte colle seguenti parole di Procopio: nec multo post Romanus quoque exercitus Narsete duce, castra in Monte Apenino metatus est; centum ad summum stadiis procul a castris hostium plano quidem in loco, sed multis cincto tumulis prope extantibus: ubi quondam a Camillo, Romani duce exercitus victas acies, et cœsas ferunt Gallorum copias: id quod suo locus nomine etiam num testatur, et memoriam cladis Gallorum servat, Busta Gallorum dictus. Busta enim Latini vocant rogi reliquias, et plurimi visuntur hic mortuorum tumuli terra aggesta editi... tum quia, cum ager, ut dixi, tumulosus esset, a tergo circumveniri non poterat Romanus exercitus, nisi per tramitem subjectum colli. I cadaveri de’ soldati, dice egli, furono bruciati in un luogo, che a’ tempi di Procopio chiamavasi Busta Gallorum. Or il Cluverio ci assicura, che Busta Gallorum è la Bastìa. Questo castello è situato oggi nel contado di Fabriano, ed è distante quattro miglia da esso: dunque la battaglia accadde nell’Agro di Fabriano. Rispondo, che dalle parole di Procopio chiaramente si osserva, che Busta Gallorum non fu nè Castello, nè Città: ma che fu una campagna aperta, e piena di sepolcri, che questa pianura era piena di monticelli: dunque non fù la pianura di Fabriano, perchè ager ejus non est tumulosus, come quella di Sassoferrato, e non fù la Bastìa, perchè non rimane nella pianura. È un sogno poi del Cluverio, del Nintoma, del Colucci, e di tutti gli altri scrittori il pretendere, che il Castello della Bastia abbia preso il nome dall’essere stati ivi abruciati i cadaveri de’ Galli. Furono questi inceneriti nella Corsica? Eppure vi è una Città chiamata Bastia. Furono questi dati alle fiamme vicino ad Assisi? Eppure vi è un Castello chiamato Bastia. La parola bastia, o bastita in lingua italiana non altro significa, che riparo fatto intorno alla città, o Rocca, che nel medio evo, come ci accerta la storia1, si edificava o sulle rive di un fiume, o sopra una collina, o dove si stimasse il terreno più atto all’offesa, o alla difesa. Insiste il Nintoma: quando Decio si sacrificò agli Dei Mani, invocò Giano prima di ogni altro Dio: il fiume, che bagna Fabriano, chiamasi Giano, perchè prese il suo nome da tale preghiera; dunque la battaglia accadde nell’Agro Fabrianese. Rispondo, che egli mi deve provare, che il fiume prese il nome di Giano dalla preghiera, che fece Decio, perchè la ragione a me dice, che dalla sua origine sino allo scaricarsi nell’Esi non bagnando questo fiume altro luogo, che la Città di Tufico, da essa prese il nome, ed anticamente chiamossi Tuficano, come in appresso dirò.
Dal sin qui detto chiaramente si rileva, che la battaglia non seguì nella pianura di Fabriano, ma in quella di Sentino, ed in quel luogo indicatoci dalla tradizione. Questa ci accerta, che accadde nel Campo ora chiamato di Toveglia, o campo della Battaglia, che forma le parrocchie di Gaville, e di Colle della Noce. Detta pianura è tramezzata da una strada consolare, che internandosi negli appennini esciva di rimpetto all’Eremita di Valdurbia, ove si veggono i sassi logorati dà Carri, e poscia andava a Luceoli oggi la Scheggia. I Romani per venire nell’Agro Sentinate non altra strada poteron tenere, che o quella di Camerino, o della Scheggia. La tradizione ci accerta, che quivi accadde. Secondo la cronologia del Roderique2 succedette tal battaglia l’anno innanzi la nascita del Salvatore nostro Gesù Cristo 294, cioè due mila cento diciotto anni sono, mentre l’anno in cui scrivo è 1824 di nostra salute. Riporterò ora ciò, che dice T. Livio nel Libro decimo3 della Deca prima tradotta dal Nardi.
È cosa più verisimile, che tal rotta si ricevesse piuttosto da’ Galli, che dagli Umbri, perchè più volte innanzi, e massimamente quell’anno, la Città era stata assai spaventata dal tumulto Gallico; e perciò oltrechè ambedue i Consoli fossero iti a quella guerra con quattro legioni, e gran cavalleria de’ Romani, e con mille Cavalieri Capovani scelti, e con maggior numero di genti amiche, e compagne del nome latino, che non erano i Romani. Furono anche ordinati due altri eserciti, e messi alle frontiere di Toscana, non molto lontani dalla Città, uno nel contado Falisco, e l’altro nel Vaticano. Gneo Fulvio, e L. Postumio Megillo, ambedue vice pretori, furon fatti con gli eserciti stare in què luoghi. I Consoli, passato l’Appennino giunsero à nemici nel contado Sentinate. Quivi si accamparono quasi quattro miglia lontano. Consigliaronsi i nemici, convennero insieme di non mescolare in un medesimo campo tutti, e di non venir tutti a un tratto alle mani. I Galli si congiunsero co’ Sanniti, gli Umbri co’ Toscani, e così si determinò il dì del fatto di armi. Il quale fu deliberato, che facessero i Galli, od i Sanniti, e nel mezzo dell’ardor della zuffa i Toscani, e gli Umbri assaltassero gli alloggiamenti de’ Romani. Ma questi consigli furono loro guasti da tre Chiusini fuggitivi, i quali occultamente di notte venuti a Fabio, manifestarono i disegni de’ nemici, e furono rimandati con molti doni, e con ordine di dare avviso di qualunque cosa, novamente si ordinasse. I Consoli scrissero a Fulvio, e a Postumio, che lasciato il contado Falisco, e il Vaticano, si accostassero cogli eserciti a Chiusi predando, e saccheggiando quanto più potessero i confini de’ nemici.
La fama di queste ruberie mosse i Toscani dal contado Sentinate ad andare a difendere i loro confini. I Consoli allora cercavano con grande istanza, che si combattesse in assenza di costoro, e perciò attesero due giorni ad invitare, scaramucciando il nemico. Nel qual tempo non si fece cosa degna di memoria, pochi dall’una parte, e l’altra ne morirono, e piuttosto si accesero gli animi a venire in una giornata, che allora si mettesse a rischio la somma del tutto. Il terzo dì poi si uscì da ogni parte alla campagna con tutte le genti. Stando così ordinati gli eserciti in battaglia, una Cervia fuggendo un Lupo di verso i monti passò correndo tra l’uno esercito, e l’altro. Di poi dividendosi le fiere, corsero in diverse parti: il Lupo andò verso i Romani, e gli fu data tra gli ordini la via: la Cervia fuggendo verso i Galli fu saettata, e morta da quelli. Allora un soldato della prima fronte de’ Romani gridò dicendo: la fuga, e l’uccisione, o valorosi uomini, si è volta in quella parte ove voi vedete morta in terra la fiera a Diana consagrata, e dalla nostra banda il Lupo a Marte consagrato, che salvo, e senza alcuna offesa è scampato, ne ammonisce, che noi ci ricordiamo di noi medesimi, gente marziale, e del nostro progenitore.
I Galli si fermarono nel corno destro, i Sanniti nel sinistro. Quinto Fabio mise la prima, e la terza legione per la destra banda contro i Galli, Decio la quinta, e la sesta per la sinistra contro i Sanniti. La seconda, e la quarta era con Lucio Volumnio Proconsolo alla guerra del Sannio. Nel primo riscontro la cosa andò in tal maniera del pari, che se vi fossero stati presenti i Toscani, e gli Umbri o nel fatto di arme, o negli alloggiamenti; certo ovunque si fossero volti, si sarebbe ricevuto grandissimo danno. Ma benchè la cosa stesse così pareggiata, e la fortuna non avesse ancor dimostrato, ove ella colle sue forze si avesse a volgere, non si combatteva però nel medesimo modo nel destro, come nel sinistro corno. I Romani nella banda, ove era Fabio, piuttosto sostenevano difendendosi la battaglia, che premesser molto i nemici, ed andavano prolungando il più che potevano la zuffa al tardi, perchè così giudicava, che fosse da fare il Capitano, pensando, che i Sanniti, ed Galli fossero nel primo empito feroci: i quali ai Romani bastasse allor sostenere, e nel combatter poi più lungamente gli animi de’ Sanniti a poco a poco raffreddarsi, ed oltre a ciò i corpi de’ Galli non poter sopportare punto la fatica, nè il caldo, ed i loro primi assalti esser più gagliardi, che di uomini, e gli ultimi men forti, che di femmine4, e perciò riservava le forze de’ suoi soldati più fresche, ed intere, che si poteva per usarle massimamente in quel tempo, che i nemici erano più agevolmente da poter esser vinti. Decio, assai più feroce e per l’età, e per la grandezza di animo nel primo assalto spiegò quante forze egli aveva, e perchè la battaglia de’ Fanti gli pareva lenta, e debole, fece dar dentro ancora a’ cavalli, ed egli in persona con una frotta di valorosi giovani pregando i capi di essi diceva, che volessero seco insieme far empito contro i nemici, e che la gloria loro sarebbe doppia cominciando la vittoria dalla banda sinistra, ed avendo principio dalle genti a cavallo. Due volte misero in piega la cavalleria de’ Galli, ed avendoli già respinti grande spazio, e combattendo nel mezzo delle squadre de’ nemici, furono spaventati da una nuova maniera di combattere, perchè li nemici li vennero ad incontrare stando armati sopra alle carrette con grande strepito, e rumore delle ruote, e de’ cavalli, e spaventarono grandemente i cavalli de’ Romani non avvezzi in tali tumulti. Questo spavento come un terrore di furie infernali mise in isconfitta i cavalieri, che già eran vincitori, e le fanterie massimamente ebbero grandissimo travaglio; sicchè molti della prima testa furono abbattuti, e calpestati dalla furia de’ Cavalli, e de’ Carri, e la schiera de’ Galli come ella li vide spaventati urtando innanzi non dava loro alcuno spazio di respirare, di riordinarsi. Gridava Decio: ove fuggite? o che speranza avete voi nella fuga? e così si opponeva a quei, che fuggivano, e richiamavali indietro. Ma poichè ei vide con forza alcuna non poter sostenere la fuga loro, appellando il suo Padre Decio: che stò io più a badare? questo destino è familiare alla nostra casa, che noi siamo sacrificii di purgazione, e col dare noi medesimi in pagamento abbiamo a ricomprare i pubblici pericoli. Io darò meco insieme le nemiche legioni sagrificio alla Dea della terra, ed agli altri Dei infernali. Avendo così detto comandò a M. Livio Pontefice, al quale egli aveva ordinato quando ei venne alla battaglia, che non si discostasse da lui, che usasse le parole sagre, mediante le quali egli offeriva in voto sè stesso, e le nemiche legioni insieme per la salute dell’esercito del popolo Romano, e de’ Quiriti. Essendo poi dedicato, e consagrato con le medesime orazioni, e prieghi, che il Padre suo Publio Decio si era già fatto offerire in voto nella guerra de’ Latini nel fiume Veseri, dopo i solenni prieghi, soggiunse, che si mandava innanzi lo spavento, e la fuga, l’uccisione, e il sangue, e l’ira degli Dei celesti, e infernali: e con mortali maledizioni malediceva le insegne, le lancie, le spade, e le armi de’ nemici, e voleva, che il medesimo luogo fosse la propria distruzione, e de’ Galli, e de’ Sanniti.
Avendo pregando compiuto tali maledizioni contro di sè stesso, e de’ nemici, mosse spronando il cavallo in quella parte, ove ei vedeva più folta la schiera de’ Galli, e spingendo sè stesso contro le armi nemiche in brieve spazio di tempo fu ammazzato. La battaglia non parve poi, che seguitasse per forza umana. I Romani avendo perduto il capitano (il che suole le altre volte dar grandissimo spavento) fermarono la fuga, e cominciarono a rinnovare la battaglia. I Galli, e massimamente quelle squadre, le quali eran d’intorno al corpo morto del Console, come se fossero fuori di se stessi, ed alienati di mente lanciavano le aste indarno, alcuni stavano come intormentiti, nè si accorgevan di combattere, o di fuggire. Dall’altra parte Livio Pontefice, a cui Decio aveva dato i Littori, e l’aveva fatto vice-pretore, cominciò a gridare dicendo, che i Romani avevan vinto: avendo colla morte del Console soddisfatto al fatal destino, e che i Galli, ed i Sanniti eran fatti preda della Madre Dea Tellure, e degli Dei infernali: e che Decio chiamava, e tirava dietro a se la gente seco insieme offerta, e consagrata, e così ogni cosa esser piena di spavento, e le furie infernali a disfacimento de’ nemici. Sopravvennero dopo questo in ajute di costoro, che rinfrancavano la zuffa, Cornelio Scipione, e Cajo Marzio mandati in soccorso al collega da Q. Fabio dell’ultima parte della retroguardia. Quivi s’intese del fatto di Decio grandissimo conforto, e stimolo di ardire di fare ogni gran cosa per la Repubblica. Stando i Galli serrati, e cogli scudi intrecciati in modo, che non pareva, che l’affrontarli di appresso fosse cosa agevole, per comandamento de’ Legati furono raccolti tutti i dardi, e le lance, che tra l’uno esercito, e l’altro giacevano in terra, e lanciate nella palvesata, che essi avevan fatto, i quali dardi essendo fitti parte ne’ palvesi, e parte nelle persone loro, fu aperto, e sbaragliato in modo quel gruppo, che una gran parte, come smarriti, ne caddero in terra senza avere ferita alcuna. Queste mutazioni aveva fatto la fortuna nel sinistro corno de’ Romani.
Fabio dall’altra parte, come si è detto, badando aveva consumato il dì, poscia quando gli parve, che il grido de’ nemici, nè l’empito, nè le armi lanciate non avessero la medesima forza: avendo comandato a condottieri de’ Cavalli, che girassero colle squadre al fianco de’ Sanniti: acciocchè quando faceva loro segno, urtassero quei da traverso con quanta più forza ei potessero: comandò a’ suoi, che a poco a poco facessero innanzi le insegne, e si sforzassero di muovere i nemici dal luogo loro. Poichè ei vide, che non facevano resistenza, e conobbe chiaramente la loro stanchezza, fece di nuovo urtarli dalle legioni, mettendo insieme tutti gli ajuti, i quali si avevano riservato all’ultimo, ed ad un tratto diede il segno ai cavalli, che assaltassero i nemici. Non sostennero i Sanniti tanto empito, ed oltre la schiera de’ Galli (lasciando nella zuffa gli amici) si rifuggivano al campo a tutta briglia. I Galli avendo fatto una palvesata, insieme stretti stavano fermi. Fabio allora, udita la morte del collega, comandò alla banda de’ cavalieri Capovani, che erano intorno a cinquecento cavalli, che uscissero dal fatto di armi, ed andando intorno a’ nemici assaltassero i Galli dalle spalle, e comandò poi, che i Principi della terza legione li seguitassero, ed ove si vedessero le schiere nemiche scompigliate per l’urto de’ cavalli, quivi facessero empito uccidendo gli spaventati, ed egli avendo offerto in voto a Giove vincitore un tempio, e le spoglie de’ nemici s’inviò verso il campo de’ Sanniti, ove si volgeva tutta la spaventata moltitudine. Su lo steccato si rinfrescò alquanto la zuffa di quei, che eran chiusi fuori dalla turba di loro medesimi, perchè le porte non eran capaci di tanta moltitudine. Quivi morì Gellio Egnazio Capitan de’ Sanniti. Furon poi respinti i Sanniti dentro alle munizioni, e quelle prese con poca fatica, ed i Galli furono intorniati dalle spalle. Furono quel dì tagliati a pezzi trenta migliaja de’ nemici, ottomila presi: benchè la vittoria non fu senza sangue, perchè dell’esercito di P. Decio furon morti settemila, di quelli di Fabio mille duecento. Fabio avendo mandato a ricercare il corpo di Decio, arse tutte le spoglie de’ nemici ragunate in un monte in onore di Giove vincitore. Il corpo del Console non si potè ritrovare quel dì, perchè egli era ricoperto da’ monti de’ corpi de’ Galli. L’altro dì ritrovatosi fu riportato con molte lagrime dei soldati. Lasciata poi la cura di ogni altra cosa, Fabio fece il mortorio del suo collega con ogni genere di onore, e lodi convenientissime.
E ne’ medesimi giorni in Toscana le cose furono governate felicemente da Gneo Fulvio Vice-pretore. Ed oltre il danno grandissimo dato al paese col predare si combattè egregiamente, sicchè vi rimasero morti tra Perugini, e Chiusini più di tre mila, e prese intorno venti bandiere. La stuolo de’ Sanniti fuggendosi per le terre de’ Peligni, fu messo da loro in mezzo, e di cinque mila ne furono ammazzati forse mille. Grande è la fama della giornata fatta nel contado Sentinate ancora a chi sta contento al vero: ma molto vi hanno aggiunto accrescendo il vero, i quali scrissero nell’esercito dei nemici essere stati intorno di quaranta quaranta mila, e trecento trenta fanti a piedi, e quarantasei migliaja di cavalli, e mille carri: cioè con gli Umbri, e co’ Toscani insieme, i quali essi dicono essere medesimamente stati nella giornata. E per accrescere anche le genti de’ Romani, aggiungono L. Volumnio Proconsolo capitano in ajuto de’ Consoli, e il suo esercito alle legioni di quelli. Ma nella maggior parte degli annali tal vittora è propria solamente de’ Consoli. = Fin quì Tito Livio tradotto dal Nardi. Dalla storia si rileva, che i Romani si contentarono di aver vinti i Galli, e che partirono dalle loro terre. Quindi i Galli rimasti padroni di Sentino, e della Gallia togata ebbero tutto il commodo di fare i sepolcri nell’agro Sentinate, come in breve narrerà Procopio. Ma dieci anni dopo, cioè nell’anno 284 avanti a Gesù Cristo essendosi mossi di nuovo contro i Romani, ed avendo vinto L. Cecilio Pretore, e fatta grande strage di essi, i Romani inaspriti, e comandati dal Console Dolabella fecero un macello di essi, li cacciarono dalle loro terre, e condussero una colonia in Sinigaglia, che era la lor Capitale.
Note
- ↑ Pignotti Tom. 1. p. 258.
- ↑ P. 103.
- ↑ Cap. 13.
- ↑ Questa espressione non piace al sig. Rollin “Io non so, dice egli, se i Galli de’ tempi antichj fossero tali, quali ce li descrive qui T. Livio. Certamente i Fancesi loro successori non rassomigliano molto ad essi al presente: testimonio ne siano le ultime campagne d’Italia, e di Allemagna”.