Piccolo mondo moderno/Capitolo secondo. Nel monastero/III
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Nel monastero
III
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Partirono al tramonto, nella stessa carrozza. Prima di uscire del recinto, passando lungo il nero bastione che porta la chiesa, Dessalle esclamò: “E la chiesa? Non abbiamo veduta la chiesa!„ Uscendo del refettorio, il custode aveva chiesto due volte a Jeanne e a Maironi se desiderassero visitare la chiesa e poichè non era venuta risposta aveva lasciato andare. Anche adesso nè Maironi nè Jeanne parlarono, la carrozza correva già forte, il momento passò. Dessalle aveva la fantasia piena del monastero taciturno, della solitudine ove posa, di cipressi, di ulivi, di archetti trilobati, di stemmi, di motti, di monaci antichi, del custode dalle chiavi tintinnanti nel deserto lo stridulo inno trionfale dello spirito moderno. E rievocava ogni cosa nel suo linguaggio colorito e fine, cercando similitudini bizzarre che gli atteggiassero a modo suo dentro la mente le cose vedute sì che s’incarnassero nella sua persona e gli appartenessero meglio. Poi si mise ad abbozzare il piano di un romanzo dove Praglia, venduta dal Governo, era comperata da un mistico polacco che vi raccoglieva delle dame isteriche per fondarvi nella meditazione e nella preghiera, una religione nuova.
“Quale?„ chiese Maironi.
“Non importa. Una religione nuova! Poniamo, se vuole, la religione mia, ch’è la religione del dubbio, una religione che invece di obbligarci a credere quello che non si può sapere, ci proibisce di negarlo e c’impone il dubbio, il quale è infinitamente più sapiente e utile della fede, perchè ci dispone a tutte le possibilità! Ed è anche più poetico!„
Maironi scattò con una violenza strana.
“No, no, sia tutto per o sia tutto contro! Neghi piuttosto! Dica che l’uomo creò Iddio perchè gli fece comodo! Oppure dica che il Dio della religione è una maschera del Dio vero e che Lei non vuole adorare le maschere! Oppure si ribelli, dica che Lei non si è obbligato a niente per avere il Suo corpo e il Suo intelletto, che i Suoi desiderii di vita e di libertà non se li è dati Lei, che Lei vuole l’una e l’altra! Dica questo se Le piace, ma non quello che ha detto!„
“Ecco, i cattolici, come sono„, ribattè Dessalle, sorridendo. “Ci vogliono addirittura empii. Più ci avviciniamo a voi, meno ci sopportate. Si potrebbe sostenere benissimo che la vostra religione insegna l’odio del prossimo. Guardate come trattate i protestanti e quei poveri liberali che vorrebbero dirsi cattolici anche loro! Odio del prossimo!„
“Però...„ fece Jeanne rivolgendosi a Maironi come per rispondere a lui al di fuori e al di sopra delle parole di suo fratello. E s’interruppe subito. “Però?„ ripetè Maironi, aspettando.
“Niente„, diss’ella.
Il giovane raccolse la bianca pelliccia di lupo di Russia che scivolava dalle ginocchia di Jeanne e dalle sue, l’accomodò, v’incontrò sotto una mano che prima si offerse inerte e poi attanagliò la sua come un morso, mentre una bella bocca lasciava neghittosamente cadere queste due paroline di pace: “fa fresco„.
Nessuno parlò più per un pezzo. Jeanne accomodò alla sua volta la pelliccia, meglio assai. Parve a Maironi che il greve bianco mantello di fiera piegasse ai lievi tocchi delle mani abili con intelletto del comando. Egli guardava la mano desiderata, non osando, in faccia a Dessalle, guardare Jeanne negli occhi senza parole, e non trovandone alcuna; guardava la mano che indugiandosi sulla pelliccia gli rispondeva, come pure un mal celato sorriso della bocca: strette segrete, basta. L’odore del mantello di Jeanne, chiuso sulla squisita persona, della pelliccia, dei guanti lievemente profumati, forse dei capelli, saliva in un tepido indistinto al cervello del giovine, alternandosi secondo il vento e il passo dei cavalli con l’odor fresco dei campi e della strada umida. Gli pareva che una scura, dolce aura di lei lo avvolgesse, donandosi; che fosse già questo un principio di secreto delizioso possesso. Passarono davanti alla villa di don Giuseppe, bianca nell’ultimo chiarore del ponente, sopra il giardino pieno d’ombra. Dessalle credette discernere un prete seduto sulla gradinata della fronte, lo suppose il padrone, disse che aveva udito farne gran lodi e chiese a Maironi se lo conoscesse. Nello stesso punto Jeanne, che non aveva fatto attenzione al discorso del fratello, mostrò a Maironi la falce della luna nel cielo di occidente. “Completur?„ diss’ella, non ricordando l’altra parola. Maironi non parve intendere ed ella ripetè: “completur? dica!„ “Ah, cursu, cursu!„ esclamò Dessalle e non rinnovò la domanda. Intanto la mano di Jeanne cercò sotto la pelliccia la mano cara, la strinse, disse: lo so, distratto, a cosa pensavi! e la mano stretta rispose mentendo: sì, sì, lo sai. Avrebbero poi voluto tacere, l’una e l’altro, ma Carlino aveva una parlantina! Raccontò a Maironi quanto sua sorella si fosse scandolezzata, tempo addietro, ch’egli avesse raccomandato quel giardiniere, bellissimo esemplare di socialista latino, rivoluzionario. Sua sorella, saputo di certi suoi discorsi, gli aveva proposto di licenziarlo, ma egli era felice di tenersi in gabbia nel giardino una bestia feroce tanto curiosa. Non si lasciava studiare, però, la bestia; aveva un guscio molto pulito e inoffensivo nel quale rientrava tosto che i padroni le si accostavano. Intanto i due si parlavano in segreto con le mani congiunte, avendo Jeanne tentato invano, mollemente, di ritirar la sua, e lasciaron dire Carlino, non si difesero, solamente risero, di quando in quando. Carlino trasse in campo anche il figlio del giardiniere, Ricciotti Pomato; lo raccomandò per il posto d’inserviente della Biblioteca. L’anno prima era stato nominato un altro invece di lui; adesso il posto era vacante da capo. Maironi promise senz’altro, per uscirne. Ma Carlino era inesauribile e mise il discorso sul marchese Scremin che aveva fatto parlare ai Dessalle da suo genero perchè gli giovassero nelle sue mire senatorie, presso una potente, intrigante dama di Roma di cui si conosceva l’amicizia — da presupporsi onesta, diceva Zaneto; molto ambigua, diceva il mondo — con un uomo politico, zio dei Dessalle. Egli si era poi fatto presentare a villa Diedo, suonandogli dietro il ghigno satanico dell’uomo amaro: mondo! mondo! Vi era quindi ritornato due o tre volte con una solenne tuba e, diceva Carlino, col suo guscio anche lui; con un polito untuoso guscio di umiltà, nel quale spariva frettoloso a capo in giù tosto che Jeanne o Carlino accennavano a toccar il tasto dei meriti che il Governo gli avrebbe dovuto riconoscere. Ora Carlino lo stese delicatamente sopra un’ideale tavola anatomica per trovargli questi meriti. Finalmente poichè i suoi compagni non parevano dargli retta, smise di parlare anche lui.
Una torre alta e sottile, tozzi campanili, schiacciati ammassi di tetti venivano alzandosi dal piano davanti alla carrozza sotto le aeree fronti nevose delle montagne lontane. Era la città, la triste fine del cielo aperto ai sogni, della terra distesa in pace, odorante vita e frescura; la triste fine, per Jeanne e Piero, del molle, veloce andare in silenzio sentendo fino al cuore ogni tocco lieve delle spalle, nelle scosse della corsa. La carrozza si fermò alla scuderia Dessalle, sull’angolo della ripida stradicciuola che sale a villa Diedo. Un invito a pranzo per il giorno dopo, saluti brevi e già caldi del dolce domani. Mentre Piero scendeva per rientrare a piedi in città, il cocchiere disse che teneva un panierino di aranci del signore consegnatogli dal vetturale della carrozzella; e Dessalle gli ordinò di accompagnare il signore al palazzo Scremin.
Il panierino di aranci fu posato sul piccolo sedile interno della victoria di fronte a Piero. Egli sentì la loro parola tragica ma non se ne commosse. Era un rimprovero per il destino, forse; non per lui! Fisso lo sguardo nei frutti dorati, blandito i sensi dalla persistente aura della signora di cui adesso aveva preso il posto, rivedeva Jeanne nella loggia di Praglia con la tazza in mano, riassaporava la tristezza dei grandi occhi magnetici, l’ineffabile accento delle sommesse parole: “si c’était du poison, faudrait-il boire?„