Piccolo mondo moderno/Capitolo primo. Ab ovo/II
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Ab ovo
II
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II.
La marchesa Nene non si trovò col marito sola e sicura dalle curiosità domestiche se non assai tardi nel dopopranzo, poco prima dell’ora di conversazione. “L’ovo!„, diss’egli umile umile, quando sua moglie lo interrogò con un lugubre cipiglio. “Tasi, xe vero, lo go tolto mi. No magnarme, son andà in oca. Cossa vustu? Son andà in oca„. Egli offerse, nella sua mansueta virtù, una confessione pubblica in cucina. “Sempiezzi!„, brontolò la moglie, accigliata. Il marito, molto superiore a lei di cultura e molto inferiore d’animo, largamente fornito di ambizioni a lei sconosciute, sapeva camminar bene certe mobili vie delle nuvole e anche certe altre vie sotterranee, certe gallerie elicoidali che potevano condurre piano piano su qualche cima dominatrice il suo carico di desiderî e di scrupoli, ma non era mai riuscito ad impratichirsi delle vie comuni dove il volgo cammina spedito, anzi non sapeva raccapezzarsi neppure in casa propria dove camminava spedita sua moglie. Invece costei, natura complicatissima d’intelligenza e di tardità, di larghezza e di parsimonia, di gentilezze poetiche e di fermezze quasi dure, nata immune da fantasie, da passioni e anche da egoismo, mai curante di sè e pur sempre tenace, in palese o in segreto, de’ suoi propositi, pronta alle franchezze difficili e custode gelosa degl’intimi propri pensieri, possedeva un senso acuto dell’angusta realtà dentro la quale chiudeva l’energia instancabile de’ suoi affetti oscuri e profondi, i suoi disegni sapienti e i suoi discorsi insipidi.
Ella era devota al marito, come al solo uomo cui avesse pensato mai; devota a quella felicità del marito che nel campo morale rispondeva non tanto ai desideri di lui quanto alle idee di lei. Le inettitudini di Zaneto alla vita pratica la irritavano nel suo segreto. Nè una discreta fama di archeologo, nè l’ambito seggio in Senato, nè un portafogli di ministro avrebbero scemato d’un atomo la occulta disistima ond’era partito adesso quello scatto “sempiezzi!„ Un’ombra di malcontento le restò in viso per tutta la serata, benchè di tempo in tempo il vecchio sposo cercasse farle, quasi di soppiatto, qualche amabilità, e benchè la conversazione dei soliti amici, preti e piccoli borghesi, clienti della nobile famiglia, fosse più vivace del solito.
Il salotto di casa Scremin era una specie di laboratorio dove si recavano ogni sera, per la descrizione e l’analisi, parole raccolte per le altre case e per le vie, parole di riconosciuti proprietari, parole vaganti senza padrone, ogni voce da cui si potesse spremere qualche curioso fatto altrui, qualche sospetto solleticante, qualche materia oscura ove far comparire mediante reagenti opportuni le ombre mobili di un intrigo, ove trovar col fiuto le orme di una persona nota e seguirla poi all’odore e pungerla se possibile nella sua via nascosta e morderla un poco, tanto da gustarne anche il sapore o almeno da cogliere qualche minuscolo filo delle tenui trame di commedia che la vita continuamente ordisce, sperde e ricompone intorno a ogni persona umana. Il laboratorio non mancava nè di sali nè di acidi. Vi si faceva della maldicenza misurata e garbata su tutti i peccati del prossimo salvochè su quelli di amore. I peccati di amore non si potevano assolutamente introdurre nella conversazione. Se i due o tre più liberi parlatori della brigata si arrischiavano a infrangere il divieto, subito il marchese Zaneto alzava la voce: “ta ta ta!„ e accadeva ben di rado ch’egli fosse costretto dalla protervia di un ribelle a continuare di galoppo e più forte: “taratatà, taratatà, taratatà!„ Il buon uomo che avrebbe avuto una spiccata inclinazione a mettersi con i farisei e a lapidar l’adultera, non usava altrettanto rigore che per le espressioni poco esatte in materia di fede. Quando non si trattava di malcostume nè di dogmi lasciava correre. Guardingo egli stesso in ogni sua parola, pareva quasi compiacersi che gli altri non lo fossero altrettanto. Una certa dose di sale comune l’avevan tutti. C’era poi un burbero giudice in pensione che aveva sempre in pronto il sale amaro e c’era un vecchio lungo, magro, giallo, arcigno, che veniva assiduamente con una moglie lunga, magra, gialla, malinconica e che non parlava se non per schizzare qualche goccia di acido.
Quella sera i chimici di casa Scremin avevano nel crogiuolo il fiore del mondo elegante, l’Olimpo della piccola città. Trattar quest’Olimpo con acidi e sali era il loro più squisito piacere. Da buoni botoli borghesi non si pigliavano alcuna soggezione della grossa bestia rampante sullo stemma di casa. La marchesa Nene non pareva tener gran fatto alla bestia; il marchese Zaneto affabile e umile con tutti sapeva coprir bene un certo debole per essa. I nobili coniugi appartenevano a un gruppo scuro, pesante, malinconico di nobili codini, fra i quali e l’Olimpo dei ricevimenti eleganti, dei balli, dei picknics, del lawn-tennis, del pattinaggio, le relazioni erano scarse e fredde. Un prete bonario, assai curioso e ambizioso cronista, mise fuori, appena venuto, la sua ghiotta primizia: “Dunque, picche nicche, gnente!„ Subito il signore acido e il signore amaro, che quando potevano mordere il prete ci avevano un gusto matto, esclamarono: “Vécia, vécia! Barba, barba!„ Il prete, sbalordito, irritato, rosso, affermò che la risoluzione di mandar tutto a monte era stata presa tre ore prima, alle sei, e i suoi tormentatori perpetui replicarono che alle sei e mezzo se n’era parlato al caffè e che il picknic era andato in fumo per causa dei forestieri di villa Diedo. “Vedìo, che no savì gnente!„ fece il prete trionfante. Egli aveva una versione diversa. “E la mia xe sicura!„ Una gran dama anfibia, tutta chiesa alla mattina e tutta Olimpo alla sera, aveva raccontato il fatto a suo marito in presenza del medico di casa e il medico, amico del prete, lo aveva incontrato, gli aveva detto: “Vai a casa Scremin, stasera? Conta questa„. Il prete cominciò solennemente, in lingua aulica:
“Bisogna sapere che parecchie signore avevano posto per condizione che il picche-nicche si facesse di domenica per rispetto alla quaresima„. “No credo un corno„, brontolò il signore acido. Gli altri zittirono, il prete ribattè in dialetto: “La fazza de manco„ e risalì subito sul suo pulpito dell’italiano, pulpito, per verità, un po’ sconnesso e sdrucciolevole.
“Dunque si sceglie domenica; questa che viene. Intanto succede che Pittimèla, loro sanno chi è, incontra a passeggio i Zigiotti, marito e moglie, e, da balordo, li invita. I Zigiotti, figuremose!, beati, beati! La cosa si spande, succede un putiferio. Nessuno vuole i Zigiotti, specialmente le signore. Pittimèla prende una fila di titoli, ma come si fa? dicono i promotori del picche-nicche, i direttori. — Come si fa? — dice una signora. — S’intima a Pittimèla, poichè ha fatto la frittata, che se la mangi e che ci liberi come può. — Un’altra dice: — Si pianta anche Pittimèla. — Un’altra dice: — Si manda tutto a monte. — Una quarta non dice niente ma subito, ticche tacche, si ammala„.
“Benone!„ brontola il signore amaro. “S’indovina chi è„. “La tale!„ dice il signore acido. “Mi no so gnente!„ esclama il prete. “Eh caro, come se no lo savesse tutti che fra so marìo e la Zigiotta....„. “Ta ta ta, ta ta ta!„ squilla in furia il marchese Zaneto. “Avanti, don Serafin„. E il prete continua: “I promotori, disperati, non sanno a che santo votarsi. Però, adesso vi dirò come, stamattina tutto pareva accomodato per modo che alle tre una Commissione andò a villa Diedo per invitare i signori Dessiàl„. “Dessalle!„ interruppe qualcuno. “Va ben, va ben, de sal, de pevere, de quel che i xè„.
Appena uditi nominare i Dessalle, i forestieri di villa Diedo, il signore acido che li aveva designati come colpevoli della catastrofe e s’era udito smentire dal prete, cominciò a storcere la bocca, il naso, tutti i muscoli del suo viso di cartapecora con le più lugubri e fantastiche smorfie. Don Serafino lo guardò e prima ancora che colui aprisse bocca, gli disse: “La spèta!„
“Mi no parlo, benedèto!„
Il prete riprese:
“Fatalità volle che i signori Dessalle aspettassero amici da Venezia proprio per domenica„. “E dunque?„ brontolò colui che non parlava. A misura che don Serafino veniva raccontando come per effetto del rifiuto dei Dessalle si fossero divise le opinioni circa il fare e il non fare il picknic, il signore acido e il signore amaro lo interrompevano sempre più forte: “E dunque? E dunque?„ Qualche altro più sommesso “e dunque?„ scattava qua e là dall’uditorio. Per un poco il prete andò avanti e poi, perduta la pazienza, si mise esemplarmente a gridare “pazienza! pazienza!„ Quindi scese dal pulpito: “Le lassa andar avanti, le lassa, corpo de mi solo!„ — “Zitto, zitto, buoni, buoni!„ gridava Zaneto. Ma quando il prete, rosso come un gambero, abbaiò che non sapevano niente, no, niente; e che per il rifiuto dei Dessalle si era dibattuta da capo la quistione Zigiotti; e che per causa della Zigiotti “tin tun tan para martella i ga mandà tuto per aria„, allora gli altri si misero ad abbaiargli contro che senza il rifiuto Dessalle non sarebbe tornata in campo la questione Zigiotti e abbaiarono tanto forte che Zaneto diede un gran colpo di timone e voltò il discorso verso il naso del signor Carlino Dessalle. “L’ho visto una volta sola, ma un gran naso!„ “Non lo tocchi, marchese!„ esclamò l’uomo acido. “Tutto dev’essere perfetto a casa Dessalle; anche i nasi. Forestieri, marchese, gente che invita, gente che spende, signor mio! Adoriamoli, ungiamoli, lecchiamoli, andiamo in visibilio, andiamo in deliquio! Che distinti, che amabili, che cari, che spirito, che bellezza! Ella, marchese, mi parla del naso di lui, ma giurerei che qui si trova bello anche il naso di lei!„
“Peuh!„ fece don Serafino, come per dire che questo secondo naso non gli pareva poi tanto obbrobrioso.
“Ma sì, caro! Sente, marchese? Anche il clero! Ci perde la testa anche il clero, ci perde! Eppure quella è gente che non va a messa. Gente, ute religion, che qua se ghe dise pamòi„.
Questa parola pamoio che nel dialetto del luogo significa tanto una zuppa quanto una persona di dubbia ortodossia forse per le floscie parvenze incolori, per la poco nutriente virtù di un tal cibo e di un tal credo, fece succedere un altro tafferuglio. Il prete gridava: “Cossa vienlo fora? cossa m’importa a mi che i sia pamòi o che no i sia pamòi? Cossa ga da far i pamòi col naso?„ Il censore bilioso gridava: “Sissignor, sissignor, pamòi, pamòi! Pamòio lu e pamòia ela!„ Gli altri ridevano e li aizzavano. Zaneto, tra ridente e contrito per la mala riuscita della sua manovra, cercava metter pace. Durante la zuffa un signore ossequioso seduto presso alla marchesa Nene le domandò sommessamente il suo parere. La marchesa che lavorava di calze non alzò gli occhi dai ferri e rispose:
“Mi no vado a zavariarme„.
La vecchia marchesa non si “zavariava„ mai, ossia non si dava mai fastidio per ciò che non la riguardava. Così almeno pareva; perchè nel fondo dell’anima sua vi era una quantità di celle segrete e chiuse a chiave dov’ella custodiva note raccolte in silenzio su tante cose cui non pareva badare, fila intricate di tenebrosi disegni per il bene di questa o di quella persona in qualche caso futuro e incerto, simpatie e antipatie non confessate mai, giudizi sugli uomini e sulle cose tenuti occulti ma inflessibili e duri come il bronzo, idee parte diritte, parte storte che davano qualche rara volta, nei colloqui più intimi, parole impensate, ben diverse da quei comuni ferravecchi di cui teneva un magazzino in bocca. Ella era, del resto, imbronciata quella sera; e il marchese Zaneto, con la sua coscienza tutta intrisa dell’uovo illegittimo preso per distrazione in cucina, colse il tempo in cui gli altri, infervorati nella disputa per i nasi Dessalle, non badavano a loro, si accostò alla sua sposa, si mise a farle delle moine contrite che la seccarono. “Va là! Lasciami stare!„ diss’ella brusca. “Non far sciocchezze!„ Il pover’uomo si voltò mogio mogio a don Serafino che stava rimbeccando un interruttore. “Abramo? Cossa vienlo fora con Abramo questo qua, adesso?„ “Sì„, rispondeva colui: “Abramo e Rebecca, no, e Sara, cossa xela!„ Poichè i Dessalle si erano fatti conoscere come fratello e sorella, s’insinuava benignamente che qualche Faraone avrebbe forse potuto dire una cosa diversa. Più voci protestarono. I Dessalle erano conosciutissimi a Roma e a Venezia come fratelli, orfani di un ricchissimo banchiere di Marsiglia e di una Guglielmucci romana. Don Serafino diceva di non sapere se fossero pamòi o no. Avevano invitato il loro parroco a pranzo, certo, e largheggiavano con lui di danaro per i poveri. La signora gli aveva anche offerto qualchecosa per la chiesa. “Una santa!„ brontolò l’uomo acido con un ghigno pieno di reticenze. “Oh no se sa po gnente!„ esclamò don Serafino. “Ela, no la sa gnente!„ ribattè l’altro: e si fermò lì per paura dei “ta ta ta„ di Zaneto. “E pur la gavarà i so trenta„, brontolò il signore amaro, a epilogo di parole taciute. Allora gli scoppiò da ogni parte un fuoco vivo di “Cossa, trenta? Cossa, trenta?„ “Vinticinque!„ “Vintido!„ L’acido venne in soccorso dell’amaro: “Mo sì! Undese! Diese!„
Al battere delle undici tutta la brigata si rovesciò in frotta dal salotto sulle scale. Nell’atrio del palazzo cominciarono i bisbigli sul muso lungo della marchesa. Che diavolo aveva? Appena uscito lo sciame sulla via sopraggiunse l’ultimo amico di casa che s’era indugiato con Federico sulle scale appunto per spillargli il segreto del muso lungo. Sopraggiunse correndo, ridendosi nel bavero rialzato, fregandosi le mani, ripetendo a sè stesso: “Bela, bela, bela, bela!„ Subito gli furono tutti attorno, tutti sorbirono con voluttà il famoso uovo, tutti fecero eco: “Bela! Bela!„ meno don Serafino che trattandosi di materia molto delicata, rideva con riserbo e diceva solo: “Povareta! Povareta!„ in tono di blando compatimento. Dopo il muso lungo della marchesa venne la volta della lucerna. “Che puzzo di petrolio! Che indecenza!„. “E il caffè?„ esclamò don Serafino. “Non era proprio acqua sporca, stasera?„ Anche qui gli amici fecero eco; solo il signore acido sostenne ch’era acqua pulita.
Il prete raccontò che in passato aveva fatto qualche osservazione a Federico. Federico s’era scusato accusando la padrona. “Avarizia cagna, sior„. Ogni mese, appena pagato il conto del droghiere, la padrona andava in cucina a predicare sul caffè troppo forte. Ripagata così la ospitalità degli Scremin dove quei piccoli borghesi gustavano da lunghi anni un odore, un sapore di padronanza sulla nobile casa molto voluttuosi ai loro sensi democratici, la brigata si sciolse sotto il fanale d’un crocicchio, si sparse per tre o quattro vie deserte. Di qua l’uomo acido riprese il tema Dessalle brontolando con l’asprezza di una stizzosa virtù cose da fare spiritare quattro Zaneti e strillar “ta ta ta„ anche alle vecchie metope del Cinquecento, che dall’alto delle cornici palladiane guardavan giù nella via. Di là era l’uovo che si frullava da capo fra bisbigli e risatine; e si ricommentava l’uscita di Zaneto dalla confraternita del Duomo. Poi si faceva l’autopsia del vecchio amico per trovargli l’ulcus senatorium e l’uomo amaro andava ripetendo: “Mondo! Tuti compagni! mondo!„ “Caspita!„ diceva un altro: “Un ovo de matina, la quaresima! Atenti ch’el se fa turco!„ Poi vennero in campo certe promesse di Zaneto al deputato del collegio. Figurarsi, Zaneto che dopo il 1870 non aveva mai votato! Parlarono anche di pratiche fatte per lui dal deputato del collegio presso una dama romana amica di due ministri. “Capìo?„ diceva uno. “Amiga de do! Figurève che dama! altro che ta ta ta!„ Un altro alluse discretamente a un potentato della città, a un uomo politico detto per antonomasia il Commendatore, basso di statura. “Sì, ma se el picoleto no lo aiuta!....„.
Per una terza straduccia don Serafino trotterellava verso il suo umile nido insieme a un compagno che aveva nidificato negli stessi paraggi. Anche questi due frullarono l’uovo ma con mansuetudine. Si figuravano i rimorsi di Zaneto per lo scandalo dato. “Perchè l’è un santo omo, savìo!„ diceva il prete. “Perchè mi so!„ E raccontò al suo compagno atti di ascetismo compiuti dal marchese Scremin in segreto. Ci aveva in corpo quel baco del Senato, sì; un baco guastamestieri! Don Serafino stava considerando minutamente, a bassa voce, il disgraziato baco e i suoi malefizi, quando, allo svoltar d’un canto, il suo compagno lo interruppe con un colpo di gomito. Quegli aveva sfiorato, svoltando, un signore astratto che svoltava nel senso opposto, e camminava adagio, con le mani nelle tasche del soprabito.
“Gàla visto el consiglier!„ diss’egli, fatti pochi passi.
“Mi no. Che consiglier?„
“Eh, cosso! Maironi!„
Maironi! A quest’ora! Da queste parti! Dove sarà andato? In conversazione non si vede più. Tanti lo trovano più distratto quel giovine, più cupo. Ogni mattina a messa, ogni sera alle funzioni, ogni otto giorni ai Sacramenti. È sempre stato pio ma non a questo punto. E carità, carità senza fine. “Perchè mi so!„ La sua disgrazia, sì! Ma insomma non è cosa nuova, son quattro anni, adesso.
No, non poteva esser questo. Un buon giovine, ma un po’ strano anche lui, sapete. Il sangue non è acqua, dicono che sua madre sia stata una testa calda, e suo padre: héhéoli! Buono, però! Ecco, un santo davvero. Una fede, una carità! E devoto alla causa! Clericale proprio di quei convinti, capite; perchè, inter nos, anche fra i nostri della zizzania ce n’è! C’è chi tira alla scarsella e c’è chi tira a far chiasso, a farsi un nome, un’influenza. Pochi, ma ce n’è! Quello lì no; eh, quello lì! E talento. Talento grande. — Qui don Serafino si fermò sui due piedi, cavò la tabacchiera e, ficcate le dita nel tabacco, soggiunse con importanza: “Adesso lo femo sindaco, capìo„.