Piccolo mondo moderno/Capitolo primo. Ab ovo/III
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Ab ovo
III
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III.
Intanto il signore astratto si avviava con un’andatura stanca verso il palazzo Scremin. Trovò il portone chiuso, spento il gas nell’atrio, spento il gas sulle scale. Entrò nel suo appartamento, al primo piano, in faccia a quello abitato dagli Scremin. Si stava levando il soprabito nell’anticamera quando fu leggermente bussato all’uscio. Aperse. Era la giovane cameriera della marchesa Nene, una figurina snella e alta, bionda, vestita di scuro, con i capelli arruffati sulla fronte. Egli impallidì, le domandò, tenendo la maniglia dell’uscio, che volesse. La ragazza lo fissò, pallida anche lei, con due belli occhi azzurri, arditi nel fondo, velati di dolcezza. “Scusi un momento„, diss’ella. “C’è una cosa„. Si guardò, con una mossa rapida, alle spalle e ripetè: “Le avrei a dire una cosa„. La voce, un po’ fioca, un po’ grossa, era tuttavia musicale. Il giovine esitò un momento, poi mormorò: “avanti„ e si fece da banda. La camerierina passò sfiorandolo col suo odor tepido di capelli giovani e di persona monda, sussurrò un “grazie„ pieno di senso, pigliò il soprabito del signore, s’indugiò ad appenderlo all’attaccapanni, ad assettarvelo con leggeri colpettini delle mani non bianche ma piccole e sottili. La lucernetta che ardeva sulla consolle in faccia all’attaccapanni le dorava i capelli magnifici attorti sulla nuca come un gruppo di serpi.
“C’è stato il giardiniere„, diss’ella accarezzando ancora il soprabito e parlando piano, quasi con tenerezza, come se le parole fossero state più di quell’abito e di quelle carezze, che d’altro. “Il giardiniere ch’è andato via„.
Per qualche momento ella non si udì risponder nulla, e le sue mani parvero moversi incerte, a caso. Poi il giovine disse: “Cosa...„ con voce diversa dalla solita e non compiè la frase. Ella si chinò a raccattar chi sa che, gli offerse un baleno del suo fine collo bianco.
“Dice„, riprese ancora più sotto voce, “che forse andrà dai signori Dessalle e che i signori Dessalle domanderanno informazioni alla mia marchesa e che allora Lei ci potrebbe forse mettere una parola buona. Dice pure che Lei ora diventerà sindaco e che gli raccomanda un suo figliuolo per la biblioteca„.
Si voltò, diede un’occhiata alla lucerna che fumava, si mosse adagio adagio per andarne ad abbassare il lucignolo e nel passar davanti a Maironi gli alzò in viso due occhi grandi, vitrei, pieni di una chiara proposta. Egli fremette ma non disse niente. La biondina si pose ad abbassar lentamente il lucignolo, giù, giù, senza sosta, quasi fino a spegnere. Allora Maironi disse brusco:
“La signora ha suonato„.
“Ha suonato?„ Colei trasalì, rialzò il lucignolo, guardò il giovine in viso, capì subito di avere passato il segno.
“Se quell’uomo ritorna„, riprese Maironi, “gli dica che per le informazioni parlerò„.
La ragazza rispose asciutta “va bene„, se ne andò dritta e seria senza degnarlo nè d’un saluto nè d’uno sguardo.
Rimasto solo, il giovane si strinse i pugni alle tempie, li battè con impeto sul piano della consolle, ve li tenne per un momento ansante, guardandosi nello specchio, interrogando, quasi, l’immagine di sè stesso. Poi, a un tratto, come se avesse paura del proprio viso, del proprio sguardo, dei proprî pensieri, soffiò furiosamente sulla lucerna, entrò al buio nella sua camera da letto, si gittò ginocchioni sull’obliqua lama di luce biancastra che per una grande finestra il cielo notturno gittava sul tappeto del pavimento, giunse le mani di slancio, guardando il chiaror fioco delle nuvole.
Passati alcuni secondi, gli occhi suoi poco a poco discesero fino al davanzale della finestra, fino all’ombra; si fermarono come smarriti in una visione. Egli pareva immaginare con la volontà sospesa, nè consentendo nè resistendo alle immaginazioni, cose che gli togliessero il respiro. Si scosse, si gettò bocconi a terra figgendo il viso sul pavimento. Poi balzò in piedi, accese una candela e, snudatosi il braccio destro, lo tenne a più riprese, stringendo il pugno, sulla fiamma. Si guardò le grandi macchie rosse delle scottature, mise un sospiro di sollievo, trasse il portafogli, lo aperse, contemplò una piccola fotografia ovale, il viso di una giovinetta sui diciott’anni, regolare, freddo nella espressione e tuttavia non senza una tal quale malinconica dolcezza nell’occhio e una più spiccata fermezza nel mento. L’acconciatura altissima, passata di moda da cinque o sei anni, lo guastava come un goffo accento circonflesso e faceva pensare a una persona morta. Il giovane se lo accostò alle labbra ma poi non ebbe cuore di baciarlo, parendogli esserne indegno, depose sospirando il portafogli sul tavolino da notte e soltanto allora vi scorse un mazzolino di violette sopra una lettera.
Il suo pensiero corse alla cameriera toscana. Era lei, forse, che aveva scritto, che offriva i fiori. Nè volendo nè disvolendo mosse lentamente la mano, tolse le violette di su la lettera e restò con la mano in aria, tutto amaro di vergogna.
Non era una lettera, era un cartoncino e aveva due sole parole di pugno della marchesa Nene:
Piero Maironi ed Elisa Scremin, la donatrice del portafoglio, si erano fidanzati il 17 marzo 1882 e ogni anno la marchesa Nene, con un delicatissimo, poetico pensiero, aveva silenziosamente ricordato così a suo genero il giorno felice, diventato giorno di lagrime. Ora, per la prima volta, il 17 marzo era giunto senza ch’egli ricordasse. Neppure le viole glielo avevano rammentato. Dio, e aver pensato che venissero dalla cameriera! Ne chiese mentalmente perdono alla riverita vecchia signora con uno slancio che subito gli mancò nella morta sfiducia montante dal fondo dell’anima. Si coricò senza pregare, covando un disordine di sentimenti informi: umiliato amor proprio, cruccio di non sentirsi alcuna dolcezza della vittoria materiale sulla tentazione, rancore sordo contro Iddio che taceva, dubbi che il suo lottare con la natura fosse inutile e stolto, dubbi di essere un miserabile schiavo inconscio di pregiudizi religiosi e morali impressi dagli altri, e per sempre, nella sua molle coscienza infantile, terrore e rimorso di questi dubbi, propositi di lottare ancora. Poi, chetati alquanto i moti incomposti dell’animo e successovi un lieve sopore, gli risalì nell’ombra interna del capo e gli fugò il sonno l’immagine più e più viva della donna che si era offerta, degli occhi vitrei, parlanti e brucianti. Cacciò la visione voluttuosa, la richiamò, la respinse ancora con più molle difesa. Ebbe, con un gran battere del cuore, l’idea che un velo denso e molle si distendesse lentamente sopra di lui, chiudesse il cielo. Ebbe il senso di una liberazione, di un’ebbrezza saliente dalla terra calda, di un abbandono, di un’amorosa estasi in cui tutta la più occulta parte dell’esser suo, una magnifica potenza intatta di passione, di gioia e di follia gli sarebbe scoppiata dal cuore, dal pensiero, dai sensi. Diverse forme gli lampeggiavano nella visione interna, l’ardita cameriera bionda, la bella signora Dessalle, incontrata un giorno in ferrovia, dai grandi occhi bruni che tanto lo avevan guardato, e altre ancora, cui egli si foggiava con violenza in una forma sola, in un essere solo, creandole di sè con un pensato magico bacio fra l’orecchio e il collo, creando nella cameriera come nella dama, con irresistibile impero, la donna voluta da lui, animando della propria sua fiamma la donna da lui uscita e da riaspirare in sè. Balzò a sedere sul letto. Nel silenzio della notte, nel lume tremante della candela le stesse cose intorno a lui parevano guardarlo attonite. Scese, aperse la finestra, bevve l’aria fredda, scura e muta.
Ore dalla torre di città: una, due. Silenzio. Ore della prossima chiesa: una, due. Paiono voci tristi e gravi che si scambino un lugubre saluto claustrale: memento. Altre voci solenni, vicine, lontane, nell’interno stesso della casa, ripetono: una, due: memento. Maironi si fece macchinalmente il segno della croce, mormorò macchinalmente: “Et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo, amen„.
Sentì la preghiera cader senza eco nel mistero vuoto e sordo, giunse le mani, chiamò a sè, quasi per un cieco istinto, due persone non conosciute mai, immaginate in diverse forme infinite, talvolta dimenticate, talvolta desiderate intensamente, strette a lui dal più tenero affetto, ma impedite di rispondere al suo richiamo, dormenti l’ultimo sonno nel povero camposanto di Oria in Valsolda: “madre mia! padre mio!„
Si ricordò di avere una lettera urgente a scrivere, volle farlo subito. Si trattava di rispondere a monsignor De Antoni, canonico del Duomo, ch’era venuto il giorno prima da lui con una missione segreta di S. E. il vescovo. La maggioranza clericale del Consiglio, uscita dalle recenti elezioni, avrebbe corso pericolo di vita se non metteva alla luce il giovine sindaco da lei concepito. Questo frutto restìo del suo seno era Piero Maironi. Le pratiche fatte presso di lui prima dell’elezione non avevano approdato; Maironi non voleva saperne, l’aveva dichiarato a monsignor De Antoni. Il mansueto monsignor De Antoni a forza di spiccicare durante le sue proteste dei vischiosi “ben, ben, sissignor, sissignor„, a forza di sorrisetti, di contorcimenti, di blandi “ho capito„ e di vispi “facciamo così„ aveva ottenuto una proroga alla risposta definitiva. Ora Maironi era impaziente di sbarazzarsi del tutto. Se si era lasciato portare dagli amici per disciplina di parte e anche per un desiderio indefinito di moto e di lavoro, non voleva però, nuovo agli affari, esser posto a capo dell’amministrazione comunale in un momento difficile in cui la sua inesperienza poteva costar cara al partito e più al pubblico. Gli ripugnava pure di lasciar del tutto, sui due piedi, l’abito di vita bigia che portava da quattro anni. Qualche altra cosa gli ripugnava forse nell’offerta degli amici, cui neppure voleva confessare a sè stesso. Ed era ritornato a casa, quella sera, col proposito di scrivere subito, per finirla.
Nel pensare, con la penna in mano, le frasi di cui vestire i suoi argomenti per modo che persuadessero il vescovo al quale la lettera sarebbe stata indubbiamente mostrata da monsignor De Antoni, nel cercare gli epiteti delle difficoltà, dei pericoli, delle cure, delle angustie che lo avrebbero atteso sullo scanno sindacale, un pensiero nuovo gli si affacciò alla mente. E se accettasse? Se le difficoltà, i pericoli, le cure, le angustie potessero cacciare i fantasmi amorosi e voluttuosi che lo assediavano? Se questo dubbio glielo ispirassero suo padre e sua madre allora invocati? Se l’offerta degli amici e le premure del Vescovo celassero un coperto aiuto di Dio? Pensò, pensò fino a che il capo gli s’intorbidò di stanchezza, di sonno; e rimise la decisione all’indomani mattina.
Egli dormiva ancora quando gli capitò in camera, guardingo, con la faccia piena di rincrescimento e la bocca piena di scuse, il marchese Zaneto. Aveva una tal quale necessità di parlare al genero, non gli era venuto in mente, conoscendo le sue abitudini, che potesse dormire ancora, gli parlerebbe adesso, se però il genero non ne fosse troppo incomodato. Dopo il successo elettorale di Maironi il suocero lo trattava con una officiosità così impacciata e fredda che Piero n’era seccato e aspettava sempre di vederne comparire la cagione occulta. Udito quell’esordio, pensò “ci siamo„ e rispose: “figurati!„
“Bene, ecco, due cose„, cominciò Zaneto lentamente, guardando in terra e spremendosi a più riprese con la mano sinistra dalle guancie le parole che parvero colar vischiose dalla bocca; “due cose„.
Aperta così la vena del discorso, alzò gli occhi, non però in viso al suo interlocutore, e parlò un poco più fluido:
“Sono venute da me alcune persone del tuo partito. Dico del tuo partito perchè forse le mie idee... sì, dico, non so... insomma per intenderci meglio. Persone ottime e anche, dirò, autorevoli. Sì sì, autorevoli. Desideravano che io ti persuadessi ad accettare l’ufficio di sindaco. Io ho risposto che parlerei per riferire, semplicemente. Dicono...„.
Qui la voce di Zaneto cambiò, prese l’accento caricato di chi ripetendo parole altrui, vuol fare intender chiaro che parla così un altro e non egli.
“Dicono che sei indicato per la posizione sociale, per la votazione stessa, che nessun altro sindaco è possibile fuori di te, che se non accetti è un danno gravissimo della città e così via„.
Zaneto tacque un momento, poi guardò finalmente suo genero e lasciò cascare floscia floscia questa chiusa:
“Ecco„.
“E tu„, domandò Piero, “cosa ne dici?„
Zaneto si fece un po’ scuro, prese un’aria di Sibilla restìa e dopo aver taciuto alquanto rispose con insolita risolutezza:
“Dispensami!„
“Eh no!„ rispose il giovane ironicamente, volendo pur aver ragione di tanta diplomazia. “Perchè dispensarti?„
Zaneto fece un gran gesto silenzioso, menò il braccio destro in aria, sorrise come per dire “cosa serve?„ e ripetè:
“Dispensami!„
“Ci vuol tanto„, esclamò Piero, “a dire che sei contrario?„
“No„, rispose Zaneto, “io non sono nè contrario nè favorevole. Ti dico subito che di questo stesso argomento mi ha parlato un’altra persona per indurmi a sconsigliarti dall’accettare, e io l’ho pregata, come adesso te, a dispensarmi„.
“E chi era questa persona?„.
Zaneto si scosse, si contorse con un brontolìo che pareva nascergli nel ventricolo. Suo genero indovinò subito.
“Il prefetto„, diss’egli, “non c’è dubbio„.
“Piano, piano„, fece Zaneto sconcertato. “Io non ho detto niente e non dico niente. Del resto ieri son venuti molti a parlarmi del tuo sindacato. Il primo è venuto alle otto della mattina, un individuo che non conosco. — Chi è Lei? — Sono uno che suona il pelittone in fa bemolle. — Bravo. E allora? — Se dicesse una parola a Suo genero che sarà il nostro sindaco..., se mi facesse prendere nella banda municipale... — A mezzogiorno ne capita un altro; anche lui per avere la tua protezione, perchè tu gli faccia impiegare un figliuolo alla Posta e collocar la madre al Ricovero comunale. Un terzo è venuto ieri a sera, un diurnista del Municipio. Dice che fra pochi giorni sarai eletto sindaco, che vorrebbe presentarsi a te per farti i suoi ossequi e anche per certe sue istanze particolari, ma che si trova in condizioni miserabili di vestito e gli occorrerebbe una giacca decente, se puoi aiutarlo. Vedi vedi, che tesoro di clientele ti fai!„
Piero lo fissò in silenzio, leggendogli nelle pieghe dell’anima, e, finito di leggere, cambiò discorso.
“Avevi un’altra cosa, mi pare„, diss’egli.
Il marchese ostentò di reprimere grosse ondate di riso, ostentate anche quelle.
“Sì, un’altra cosa„, diss’egli. “Un’altra cosa sicut et in quantum„.
E mise fuori l’altra cosa, non senza sussultare ancora, tratto tratto, di riso represso.
Un ambasciatore della stessa risma di coloro ch’eran venuti colla fascia sindacale in tasca, aveva picchiato all’uscio di Zaneto molto più segretamente e timidamente per averne aiuto a cavare quattrini dal genero in pro del giornale clericale. Zaneto riferì il messaggio con lo stesso umorismo di cui aveva lievemente condite, poco prima, le suppliche di quei tali clienti, aggiunse sale alla vivanda amara volendo renderla impossibile al palato, non tanto per una paterna cura de’ quattrini insidiati quanto per il desiderio che il giornale più inviso alla Prefettura non ricevesse aiuti da casa sua. “La parte mia„ conchiuse il vecchio diplomatico, “l’ho fatta„. E si alzò.
Maironi credette finito il colloquio, ma s’ingannava. Il suocero si accostò al suo letto, gli prese una mano, gli disse sottovoce, tutto mutato in viso: “senti„, represse a stento dei singhiozzi come prima aveva represso il riso e potè finalmente spiccicare queste due parole: “Quando vai?...„.
“Al solito„, rispose Piero, pure sottovoce. “Posdomani„.
“E credi che la vedrai?„
“Ma no, lo sai bene che da molto tempo il direttore non vuole più„.
Allora Zaneto ruppe in singhiozzi più forti. Maironi sapeva che il vecchio portava veramente affetto alla figliuola reclusa in un luogo di sventura; sapeva che quelle lacrime non si potevano dir false. Pure, siccome il modo suo di sentire e di esprimere il dolore era affatto diverso, le dimostrazioni così rumorose e intempestive di Zaneto gli ferivano i nervi come a suo padre le dolcezze della süra Peppina. Il sangue che ora gli corse al viso era proprio il buon sangue impetuoso del povero Franco.
“Oh Signore!„ mormorò Zaneto asciugandosi gli occhi con un fazzolettone biancastro.
“Cosa?„ Piero trasalì. Che c’era di nuovo, adesso?
“Oh! Una cosa, una cosa! Uno sforzo tale che debbo fare!„
Nuovi singhiozzi, nuove lagrime, affannosa ricerca del fazzolettone per tutte le tasche, brancicamento, molto spiacevole a Piero, delle lenzuola, scoperta finalmente, del sudicio coso fra le gambe della sedia quando gli occhi si erano asciugati da sè e Zaneto non poteva, decentemente, rimettersi a lagrimare.
“Cosa vuoi? Bisogna pur parlare. Sai che il termine dopo il quale tu puoi conseguire il capitale della dote di...„
Una pausa, una contrazione del viso, una vittoria della volontà.
“...scade l’anno venturo. Occorre dunque parlarne. Ora ti confesso che nelle mie condizioni il metter fuori questa somma...„
Piero lo interruppe. Ma di che si crucciava mai? Ma che termini, ma che scadenze! Facesse il comodo suo. Allora il buon Zaneto s’impelagò in un mar di parole ingarbugliate, nè avrebbe riguadagnata la riva senza il soccorso altrui. In sostanza quel chieder la proroga dell’affranco della dote non era stato che un esordio, una introduzione alla proposta di addossare per l’avvenire al genero il pagamento della ricchezza mobile. Piero capì subito che il pover’uomo recitava male una lezioncina spuntata, meditata e composta dentro quel duro e freddo bernoccolo degli affari che fioriva sotto le traccie grigie della marchesa Nene in amichevole compagnia con parecchi altri bernoccoli di opposta indole.
“Ma tutto quel che volete!„ diss’egli, sdegnoso.
“Abbi pazienza„, fece il povero Zaneto. “Abbi pazienza. Le cose bisogna dirle, eh!„.
Cavò l’orologio, trasalì, fece “ohe, ohe!„ e scappò dicendo che aveva l’impegno di andare con la Nene in Duomo alla novena di san Giuseppe.
Uscito Zaneto, Piero pensò lungamente guardando nella sedia vuota la impronta sincera del suocero pesante, lo sgualcimento scandaloso e ignobile, senza velature diplomatiche, senz’alcuno di quegli accomodamenti studiati ch’erano familiari a Zaneto quando intendeva produrre impressione in altrui con una parte diversa di sè, con la parte superiore e più degna. Poi si vestì e scrisse la seguente lettera a monsignor De Antoni:
Monsignore,
Voglia, La prego, informare monsignor Vescovo che se i miei colleghi penseranno proprio di chiamarmi a quell’ufficio malgrado le mie scarse attitudini e la mia totale inesperienza della cosa pubblica, lo accetterò. Gli dica pure che confido molto nelle sue preghiere. Mi raccomandi a Dio, monsignore, anche Lei.
Suo devotissimo
P. Maironi.
Rilesse e si disse: “Fino a qual punto sono sincero? fino a qual punto sono ipocrita?„
Entrò Federico recando una lettera. “Qualcuno„, pensò Piero “che suonerà il pelittone in mi„. Si disdisse subito. Era una busta di carta pergamena, leggermente profumata di violetta, con questo semplice indirizzo: — Signor Maironi — a caratteri grandi e sicuri. Chi l’aveva portata? Un cameriere dei forestieri di villa Diedo.
Piero aperse e lesse:
- Signore,
Un tale Pomato ci si è offerto per giardiniere asserendo di essere stato lungamente al Suo servizio. Mi permetto di chiederle, a nome pure di mio fratello, ch’è assente, qualche informazione circa l’abilità e l’onestà di quest’uomo.
Gradisca le mie scuse per l’incomodo che Le reco.
Jeanne Dessalle.
P.S. Sono in casa il lunedì e il venerdì dalle cinque alle sette.
Federico domandò se vi fosse risposta. Maironi tacque, assorto nelle due righe discrete, significanti, del poscritto. Egli aveva viaggiato due mesi prima in ferrovia con una giovine signora elegantissima, dai lineamenti molto spiccati ma bella, dagli occhi grandi, intelligenti e dolci che troppe volte si erano incontrati con i suoi e gli erano poi rimasti parecchi giorni nel cuore. La signora era discesa con lui e nello staffiere in livrea che ne aveva preso la valigetta egli aveva riconosciuto un antico domestico di casa Scremin passato al servizio dei Dessalle. Adesso i due grandi, intelligenti, dolci occhi gli si erano riaperti nel cuore.
“Risposta?„ diss’egli, guardando ancora il poscritto. “No, adesso no„. Ma poi, quando Federico era già uscito, lo richiamò: “aspetta, sì, c’è risposta„. E scrisse:
Signora,
Il Pomato fu veramente al servizio del marchese Scremin, mio suocero. Lo credo abile. Ho inteso dire che fa professione d’idee socialiste. Non so che gli Scremin abbiano mai sospettato della sua probità.
Con perfetto ossequio
Devotissimo |
Consegnò a Federico il biglietto senza rileggerlo e congedò bruscamente il povero diavolo sbalordito: “va là! va là„ come se temesse di pentirsi ancora.